«La cultura non serve che a renderci lieve il dolore»: recensione a "I naufraganti" di Luca Ariano e Carmine De Falco
- Sara Serenelli
- 4 lug
- Tempo di lettura: 8 min
Paolo Volponi, grande poeta e grande narratore urbinate, in una celebre intervista rilasciata a Muzzioli nel 1990 per l’Unità affermava questo, riferendosi all’ultima fase della sua produzione poetica:
Vorrei poesie in terza persona o al plurale, con la capacità di riuscire a percepire la voce esterna degli altri e delle cose: di tanti segnali o rumori o sussulti o richiami. Per come sta andando la nostra mediocre democrazia, per come si sono diffusi l’individualismo, il privilegio e l’onesta psicoanalisi, ancora lamentarsi in proprio di qualcosa di personale mi sembra di cattivo gusto. Mi sembra una pretesa assurda quanto stolta e nello stesso tempo invadente, prepotente. Magari riuscissi a fare una poesia epica con vari soggetti, con tante voci, tirando giù tanti cieli. Questo è lo sforzo mio di adesso. Se non epica, almeno orante, cantilenante, che si può recitare in tanti. E non solo per la condanna o la denuncia di qualcosa, ma più ancora per una proposta comune, un procedere insieme lavorando, dichiarando, disegnando.[1]
Nel leggere la raccolta a quattro mani I Naufraganti, di Luca Ariano e Carmine De Falco, (Industria & Letteratura, 2025), a me, fedele volponiana, sono subito ritornate alla mente queste parole del poeta d’Urbino. Mi sembra si possa scorgere e sentire nei versi di questa raccolta collettiva lo stesso intento, la stessa disposizione che animava Volponi: il desiderio di riuscire a percepire attraverso il canale peculiarissimo della poesia «tanti segnali o rumori o sussulti o richiami», l’intendimento a voler scrivere poesie «al plurale» e non tanto o meglio non solo perché a scrivere insieme sono due poeti ma anche e soprattutto perché mi sembra di leggere lo slancio, di intravedere lo sforzo -riuscitissimo- a non limitarsi alla pronuncia di una voce sola, alla visione di una sola parte o porzione della realtà sia essa interiore o esteriore. Ci sono in questa raccolta tante voci, tanti soggetti, si tirano giù tanti cieli. Una raccolta plurale e collettiva infatti, non solo perché concilia, accorda, armonizza due dettati poetici, ma specialmente perché mi sembra esprima una dimensione di appartenenza a un mondo poetico più autentico e a una dimensione umana che cum-partecipa e che si pone in aperta opposizione e in aperta divergenza rispetto a quell’esibizionismo egoico, quel protagonismo vuoto e ridondante che sempre più spesso -troppo spesso- mette al centro il poeta e non la poesia, ostenta l’autoreferenzialità di chi scrive e lascia indietro la centralità della parola, la rilevanza della poesia, il messaggio che vi è contenuto. Perché si scrive? Perché si comunica scegliendo la parola poetica come strumento? Luca Ariano e Carmine De Falco ci ricordano le motivazioni, le riempiono di significato, distinguendosi da un mondo poetico che troppo frequentemente invece svuota, scarnifica e quasi svilisce la parola: mero significante, talvolta nessun significato. Dopo l’esperienza collettiva sempre a quattro mani de I Resistenti (d’If, 2012), lavoro poetico «innescato da un’esigenza di parola e di affermazione, di afferrare l’esistente che andava svanendo e resistere, in un’Italia i cui fondamenti socio-culturali deragliavano, grazie soprattutto al ventennio berlusconiano, dove l’ignoranza ostentata dei nuovi arricchiti, il trash e il kitsch, saturavano l’immaginario collettivo», come si legge nell’Introduzione firmata dai due autori e che avvia la lettura della raccolta, arriva questa seconda esperienza, questa seconda operazione, animata da un intento non meno grande e non meno gravoso: la raccolta si pone quale tentativo di esistere, tentativo di resistere nella poesia a fronte di un mondo invece deteriorato, ormai privato di certezze o dove le certezze che si avevano vengono ormai irrimediabilmente decostruite, setacciate, rese vane. Una raccolta che vuole «testimoniare esperienze e storie sullo sfondo della Storia». La poesia diventa la risposta, l’unica forse per certi versi praticabile insieme ad altre espressioni artistiche, a questo nostro mondo che si disgrega e si frantuma, l’ultimo baluardo di resistenza alla disumanizzazione in atto. Avvertono sempre gli autori quanto la parola si sia impoverita, sia stata depauperata, schiacciata e soggiogata dalla società delle immagini. I Naufraganti provano invece a rimettere al centro le pressioni, le incrinature personali, collettive, storiche che hanno costituito il carico di rottura sotto le cui sollecitazioni ci siamo dispersi, e con noi si è dispersa anche la forza propulsiva della parola. Il cambiamento climatico, il Covid-19, le guerre, sempre più numerose, sempre più brutali, sempre più insensate, i nuovi poteri finanziari, la pressione del mondo tecnologico, al quale sappiamo rapportarci goffamente, la fine delle ideologie, il venire a galla di nuovi “mostri”, più moderni, non meno spaventosi. Il titolo della raccolta è un titolo azzeccatissimo, un titolo parlante: I Naufraganti sono coloro che naufragano, sono i due poeti che scrivono, siamo noi che cerchiamo di rimanere a galla mentre si va alla deriva, e intanto insieme a noi naufragano valori, speranze, attese. Come resistere? Forse l’unica zattera possibile è quella della poesia, costruita su tronchi di parole che cercano un orizzonte di pieno senso, di un significato autentico, politico, collettivo. Mi pare di scorgere nella raccolta una dialettica aperta tra speranza, illusione e disillusione, tra attesa e disattesa: «tengono viva la memoria dei sogni che sono stati realtà». La memoria dei sogni, la memoria storica, la memoria personale: i versi della raccolta ritornano spesso sulle «perforate memorie», ora «memorie incaiche», ora «memoria affievolita nel profumo / di sfoglia sulle scale», ora «vuoti di memoria», ora «memorie sbiadite»: è la dimensione al tempo drammatica e salvifica del ricordo, dei ricordi anche in questo caso ora personali, ora storici, collettivi che sono da riparare, rileggere, contemplare attentamente: «Qui si riparano ricordi». Per undici volte nella raccolta ritorna «ricordi», per due volte «ricordare» e «ricordo», una volta «ricorda» e «ricordando». E a questa dimensione della memoria si lega un pervasivo senso di malinconia. Nei versi de I Naufraganti troviamo una specie di «avamposto della nostalgia» anche in questo caso di un tempo che non torna, che è vissuto con grande intensità sia quando si rivolge a eventi personali che quando guarda a eventi storici o condivisi. Ariano e De Falco «sono scesi a ritrovare tracce… luoghi», a leggere «smagliature e fratture tra le ere / rimaste scollegate dalla realtà», a volte arresi a un senso di catastrofe e di crisi, talvolta affogati dal senso di finitezza. Forte è il sentire di una fine, la fine letta e rappresentata da tante angolazioni differenti, di ciò che poi, di ciò che già è irrimediabilmente andato, irrimediabilmente non ripetibile. È l’ultimo, è l’ultima, sono gli ultimi, sono le ultime. Aggettivo che pure ritorna diverse volte a farsi sentire tra le piaghe dei versi della raccolta. Verrebbe da sottoporre ad Ariano e De Falco la stessa domanda che pongono in apertura di uno dei loro testi poetici: «Ma davvero siete gli ultimi / ad aver visto quelle stagioni?». Sono testimoni questi due poeti con le loro poesie di un senso di smarrimento e di finitezza, di un attraversamento del cambiamento al quale ci si deve in qualche modo affidare anche se non sempre, o quanto meno non subito, lo si può capire. Resta però, tra macerie e naufragi, la centralità della poesia che serve a conoscere e a condividere un orizzonte di senso, che aiuta e soccorre fornendo un ancora dal dolore perché in fondo «la cultura / non serve che a renderci lieve il dolore».

Partito con ancora il gelo sulla pelle
– ultima coda d’inverno,
sei sceso a ritrovare tracce… luoghi.
Nessuno ti dira cosa furono
prima di creare scarpe: contadini?
Allevatori di bufale?
Magari viticoltori d’Aspirinio
o persi nel malaffare
come una scommessa al lotto.
«Qui si riparano ricordi»
L’insegna nel cortile di quel palazzo
– visse un filosofo antifascista? –
ma non ripescheranno la sua immagine:
il mare mai piu visto dalla collina.
Avrai un altro amico da vedere,
non lo ritroverai in un automa,
memoria affievolita nel profumo
di sfoglia sulle scale:
per lei accenderai quel cero,
antico gesto nella preghiera di un teschio,
un bacio da dare come l’ultimo
di quei ragazzi sotto un cielo di missili.
*
Le madri di Gaza calmano i loro bambini
(Trad.da Zeina Beck - Poesia trovata per Gaza, basata su un articolo di Baraka Bits 2014)
gli dico che i fuochi d’artificio sono belli
sii coraggioso e ridi è solo la TV e adesso la spengo
quando ci bombardano li abbraccio e piango
in una stanza senza finestre a giocare cucinare guardare
cartoni alla TV se c’è la corrente
il mio primo figlio Ahmed è grande abbastanza da capire
non sono i fuochi d’artificio o i vicini che puliscono il tappeto
*
Proviamo ad elevare a generazionale questi fallimenti personali
incolpiamo le sovrastrutture per l’inquietudine
che ci affonda, alla crisi per il nostro non riuscire.
Ma non è forse questa amarezza
destino da sempre di menti più giuste, profonde?
Sarà perché siamo stati allevati da maestri riconciliati col mondo
dalle comodità dei new deal, dai nuovi corsi
che hanno al centro l’elettrodomestico,
addomesticazione dei bisogni subito prima
dell’elettrificazione delle voglie. Ora che siamo
terminali malati di smartphone, genitori
di fono-suono intelligente che si autoalimenta,
autonomamente dato, e si diffonde
con aridi mash up di contenuti, ridotto tutto
a sequenza di zeri e di uno. Di acceso e di spento,
di luce e di buio. Questa luce e buio che batte la mente
e resta poco a noi. Ignoranti annoiati.
Di questo gioco fuori luogo di casate e perdite di tempo
*
Filastrocca delle fakenews
Qualcuno mi dice che dice lo dice
L’esperto, chiunque si dice e ridice
Reperto seduce e riduce in un rigo.
L’autrice maldice che si contraddice
Perdinci, di nuovo lui dice da un rogo
La fonte predice, si spinge, riporta,
Disdice la cura la vecchia poi sfocia
La foce che c’arma e riduce lo sfogo
Che a fuoco ci piace, poi truce ritace.
La news benedice ed addice felice
Sfarfalla sfiducie decide ed incide
In decibel dieci lo inficia ed indice
La falla che incede e riluce d’accidia
La massa che invece che crassa la placca,
si spaccia che induce la pialla lo fece
Che in vece di piaga decisa l’adduce
Laddove si finge che spacca e dispiace
Poi spassa la pace che placa conduce
la luce che fioca ridice, memorial
ci dice: se dice, che lo dice dice.
[1] P. Volponi, Vorrei scrivere versi epici, intervista a cura di F. Muzzioli, in «L'Unità», 27 ottobre 1990.

Luca Ariano (Mortara, 1979) vive a Parma. Di poesia ha pubblicato: Bagliori crepuscolari nel buio (Cardano 1999), Bitume d’intorno (Edizioni del Bradipo 2005), Contratto a termine (Farepoesia 2010, Qudu 2018) oltre a testi presenti in varie antologie. Ha curato Vicino alle nubi sulla montagna crollata (Campanotto 2008) e Pro/Testo (Fara 2009). Nel 2012 per le Edizioni d’If è uscito il poemetto I Resistenti, scritto con Carmine De Falco, tra i vincitori del Premio Russo – Mazzacurati. Nel 2014 per Prospero Editore ha pubblicato l’e-book La Renault di Aldo Moro con una prefazione di Guido Mattia Gallerani. Nel 2015 per Dot.com.Press-Le Voci della Luna ha dato alle stampe Ero altrove, finalista al Premio Gozzano 2015. Nel 2018 per Qudu è uscita una nuova edizione di Contratto a termine con la prefazione di Luca Mozzachiodi. Sempre nel 2018 ha curato il convegno su Pier Luigi Bacchini a Parma. Gli atti sono stati pubblicati nel 2022 per Ladolfi editore (Quel problema del cielo). Nel 2021 per Il Leggio Editore nella collana di Gabriela Fantato ha pubblicato La memoria dei senza nome con una prefazione di Alberto Bertoni e un’intervita di Luigi Cannillo. È redattore di Atelier e di Versante Ripido. Dirige per Bertoni la collana di poesia PoesiaLab. Organizza numerosi eventi a Parma. Sue poesie sono tradotte in francese, spagnolo e rumeno.

Carmine De Falco, esperto di comunicazione digitale, lavora come webmaster per l’Agenzia dell’Unione Europea per l’Asilo a Malta. Ha pubblicato le raccolte Linkami l’immagine (Fara, 2006), Loop Vernissage (in Specchio poetico – Fara 2007), Italian Day (Kolibris 2009), I Resistenti, scritta a quattro mani con Luca Ariano (edizioni d’If 2012), Città bianca (in Zenit poesia – La Vita Felice 2015) e Meduse di Dohrn (Bertoni editore 2020). Suoi testi sono presenti in numerose antologie, blog e riviste letterarie, tra le altre “Trivio”, “Le voci della Luna”, “Levania”, e nei volumi Nella Borsa del Viandante, Attraverso la Città, Pro/Testo, AlterEgo Poeti al MANN, Poeti da Secondigliano, Poesia a Napoli ed. 2022, Napolesia.
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