«Dove il niente custodisce la parola»: recensione a "Prima dell’estate e del tuono" di Luca Pizzolitto
- Alessandro Pertosa

- 28 minuti fa
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Ci sono libri che non si limitano a essere letti: si abitano. Prima dell’estate e del tuono (peQuod 2025) di Luca Pizzolitto appartiene a questa categoria rara, perché chiede al lettore un movimento interiore, un atto di esposizione intenso e viscerale. Pizzolitto scrive un libro magmatico. La sua voce vibra sulla soglia del dicibile e si fa canto. Un canto che si muove tra luce e rovina, presenza e assenza, e che sembra voler esplorare fino in fondo le fenditure dell’esistenza umana, laddove dolore e redenzione si guardano da distanze minime.
Qui la poesia non è ornamento, né esercizio di stile, ma materia viva, paratattica, essenziale, come le note e le pause di uno spartito. Non c’è gerarchia tra i versi, non ci sono scarti di importanza: ogni parola ha il peso di una pietra e la leggerezza di un soffio, in quell’equilibrio instabile che solo la vera poesia sa creare.

Il cuore del libro si nutre di una tensione costante tra il vuoto e la luce. Non si tratta di un vuoto sterile, ma un vuoto colorato, intenso e consistente. Un vuoto, potremmo dire, che diventa riposo dell’essere.
Pizzolitto non fugge l’angoscia del nulla, la abita: «qui dove dimora il niente / qui dove è salva la parola». È in questo paradosso – il nulla che custodisce la parola, il silenzio che diventa canto – che la sua poesia trova la sua forza più radicale.
Ogni componimento sembra un tentativo di attraversamento dell’incredibile clamore chiamato vita. Attraversamento stupefatto del mondo: non spiegazione – anche perché non c’è nulla da spiegare –, ma resistenza, scavo, attesa spasmodica di una rivelazione che non sempre giunge, e proprio per questo diventa necessaria.
C’è, nelle pagine, una tensione quasi biblica, che rimanda tanto ai Salmi quanto a Qoelet, ma anche all’urlo strozzato di Celan. L’uomo è evocato come «baratro» e «abisso», creatura fragile che cova nel corpo la memoria del limite e, al tempo stesso, la nostalgia di una pienezza che lo oltrepassa. Pizzolitto non consola, non attenua: ci mostra che il dolore non si cancella, ma si attraversa, e che soltanto abitandone le fenditure è possibile scorgere spiragli di luce.
Le immagini che abitano i testi sono concrete e insieme simboliche: alberi potati sotto casa, lampare che scolorano il buio, la rosa sulla pietra d’altare, il vento di febbraio sui rami del castagno. Sono frammenti di un mondo che diventano segni, varchi verso un oltre che resta intravisto. La natura, qui, non è sfondo, ma interlocutrice privilegiata: è la voce che risponde o che tace, è misura del tempo che si consuma e promessa di rinascita.
La musica percorre il libro come una corrente sotterranea: c’è un ritmo segreto che attraversa i testi, una vibrazione che si offre solo a chi ascolta senza pregiudizi.
La poesia di Pizzolitto è, in fondo, un invito all’ascolto: delle proprie ferite, del silenzio che le circonda, della possibilità che anche nel niente possa risuonare qualcosa, magari in forma di canto.
Ma è nel rapporto con il sacro che il libro trova la sua dimensione più profonda. Non si tratta di un sacro liturgico o dichiarato, ma di una sacralità discreta, quasi esitante, che si manifesta in invocazioni brevi, spezzate, talvolta appena sussurrate: «pietà di noi, Signore, pietà di noi». È una preghiera che non ha certezza di essere ascoltata, ma che proprio per questo appare autentica, figlia di un’epoca che non può più concedersi l’ingenuità della fede totale, ma nemmeno la sterilità del cinismo.
L’opera procede come un cammino, una traversata nel deserto. Non vi è approdo definitivo, ma un continuo oscillare tra caduta e ripresa, tra sete e intravedimento (forse illusorio?) di sorgenti.
Le sezioni del libro – La metà bianca del buio, Le cose trascinate via, La strada per la sorgente, Nuovi deserti – tracciano un itinerario interiore che somiglia a una liturgia spezzata: dall’oscurità iniziale alla ricerca di una fonte, passando per le rovine e le invocazioni. Non c’è linearità ma un movimento circolare, come se ogni fine portasse in sé un nuovo inizio, ogni rovina custodisse un germoglio.
Ciò che colpisce, leggendo, è la capacità dell’autore di tenere insieme il dolore più concreto e la tensione metafisica più alta. Gli ospedali, le stanze vuote, le sigarette lasciate a metà convivono con immagini di sacrificio, di resurrezione, di luce che filtra dall’ombra. È un linguaggio che scava senza timore nelle pieghe più dure del vivere, eppure non smette mai di cercare il canto, la possibilità di un varco, una speranza.
Prima dell’estate e del tuono è un libro che chiede coraggio al lettore: il coraggio di sostare davanti al vuoto, di ascoltare il silenzio, di riconoscere che nel dolore più intenso può risuonare comunque e sempre un’eco flebile di luce.
Non è una raccolta da leggere in fretta ma da abitare lentamente, con la stessa pazienza con cui il poeta ha ascoltato la sua coscienza riverberare nelle rovine e nelle albe.
E se alla fine ci rimane addosso una domanda, un’inquietudine non pacificata, forse è proprio questo il dono più grande di Pizzolitto: ricordarci che la poesia non è risposta, ma varco che spalanca lo sguardo sull’indicibile. Che la parola può nascere anche dal grembo del silenzio. E che, anche «prima del tuono», anche nell’istante sospeso poco prima della tempesta, si può intravedere una luce che – dagli abissi più profondi o dalle sterminate altezze siderali – non ha alcuna intenzione di morire.

Luca Pizzolitto nasce a Torino il 12 febbraio 1980, città dove attualmente vive e lavora come educatore professionale. Da più di vent’anni si interessa ed occupa di poesia. Tra i suoi libri, figurano: Dove non sono mai stato (Campanotto), Il tempo fertile della solitudine (Campanotto), Tornando a casa (Puntoacapo). Con la casa editrice peQuod ha pubblicato, nella collana Rive: La r agione della polvere (2020), Crocevia dei cammini (2022), Getsemani (2023, prefazione di Roberto Deidier).Nel 2023, è stato inserito all’interno dell’antologia Nord i poeti, vol. II, edita da Macabor. Da fine 2021 dirige la collana di poesia Portosepolto, sempre per conto della casa editrice peQuod. È ideatore e redattore del blog poetico “Bottega Portosepolto”. Cura la rubrica Discreto sguardo per la rivista on line “Poesia del nostro tempo”, Nostos – ritorno alla parola per il blog L’Estroverso, Polaroid – istantanee di poesia per FaraPoesia.




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