«Biancore dentro il cuore»: recensione a "Il mondo intatto" di Laura Recanati
- Emanuele Andrea Spano
- 10 ott
- Tempo di lettura: 3 min
Quando si entra nella poesia di Laura Recanati e si inizia a leggere Il mondo intatto, uscito per Mar dei Sargassi nel giugno di quest’anno, si ha la costante sensazione di trovarsi quasi in un luogo “sacro”, in una di quelle cattedrali austere e magnifiche in cui occorre muoversi lentamente, in punta di piedi, di quelle che ti incutono un certo timore e al contempo ti invitano a inginocchiarti e a pregare. Entrare in quella “stanza” della prima sezione è un po’ come entrare in casa di uno sconosciuto, una casa in cui le cose sono affastellate l’una sull’altra, in cui regna un disordine soffocante, eppure si ha la percezione che ogni oggetto sia al suo posto e tutto sia collocato con una precisione millimetrica. Su questo straniamento che colpisce il lettore si regge almeno la prima parte del libro, sulla simmetria dei contrasti, sapientemente addomesticati della scrittura della poetessa, che altrove esplodono con una violenza più sanguigna, più carnale.
Le pareti bianche dell’ospedale, i camici bianchi dei medici, il bianco delle pillole, tutto pare congiurare e spingere verso un’unica soluzione, tutto ci parla di una claustrofobia che va oltre le pareti di quella camera, da cui si intuisce il mondo che si consuma fuori, di un senso di oppressione a cui la malattia, l’approssimarsi della morte, ci condannano. Eppure, il bianco è anche il «biancore / dentro il cuore», quella neve che ci riporta la pace, come l’inchiostro bianco che ci racconta di una qualche quiete, che si «aggruma / agli angoli della bocca», che si fa antidoto, balsamo, accettazione. L’idea di una memoria, privata e al tempo stesso collettiva, di un dolore che tutti ci trasciniamo dentro e ci resta imprigionato tra le costole fino quasi a invaderci, l’idea di una sopravvivenza alla morte costante, di una resistenza al dolore che impariamo ad anestetizzare è certo uno dei temi che scorrono nelle pagine di questo libro, però, per comprenderne l’architettura, il senso ultimo, occorre guardare a quella rete di rimandi che la poetessa sa costruire e intessere tra le sue sezioni.
La moneta, già evocata nelle prime poesie, rimbalza nel vuoto della stanza, è un gioco innocente che non salva, ma è anche quella che si mette sotto la lingua come obolo per il passaggio all’aldilà, la stessa che si lancia in un gioco definitivo tra la vita e la morte per decidere chi va e chi resta («Tieni questa moneta, lanciala in aria. / Se è testa muori tu, se è croce muoio io»). Ma è anche quella delle slot, della scommessa e del caso o ancora richiama la figura di Giunone Moneta, la dea a cui erano sacre le oche che salvarono Roma da un assedio, avvertendo i cittadini del pericolo, a cui la poetessa dedica una sezione, non a caso intitolata “coins”.

Il testa o croce, il lancio della moneta, il ruolo che gioca il caso, la scommessa, l’interpretazione dei segni, dei presagi così poco intellegibili per l’uomo (fino al punto di indagare le viscere degli animali, come gli antichi aruspici) sono tutti elementi che innescano una sottotrama nel libro, un libro che pare trovare un epilogo in quella discesa nella luce, che non è solo un annientarsi, un dileguarsi nel nulla, ma un fare spazio, dopo la morte, così come è necessario fare spazio nella vita al dolore per non diventarne preda, per non distruggerci.
Ci si chiederà allora, alla luce di quel titolo per certi versi così consolatorio e confortante, che cosa abbia di intatto questo mondo che Recanati ci racconta, se qui pare tutto disintegrato e nulla pare collimare. Forse il mondo non ci appartiene ed è fuori di noi e resta intatto come un ordigno perfetto con i suoi meccanismi oliati, con le stagioni che continuano a scorrere e il vento che continua a spettinare le foglie sugli alberi e siamo noi a non essere intatti. «Io non coincidevo mai» scrive la poetessa, raccontandoci di una scomposizione impossibile da ricomporre, e da questa frattura tra noi e il mondo, forse nasce tutto il dolore.

Laura Recanati è nata a Milano nel 1993. Si è laureata in Psicologia Clinica all’Università di Bergamo con una tesi dal titolo Malinconia e filosofia dell’opera di Jean Starobinski, dove viene indagato il rapporto tra melanconia, psichiatria e letteratura a partire dall’opera di Ippocrate sino a giungere a quella di Robert Burton. Autrice e musicista, vive e lavora come educatrice e docente in provincia di Bergamo.
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