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«È troppa l’esistenza»: recensione a "Il brusio" di Tiziano Rossi

  • Immagine del redattore: Emanuele Andrea Spano
    Emanuele Andrea Spano
  • 6 ago
  • Tempo di lettura: 3 min

Quest’ultimo libro di Tiziano Rossi, Il brusio, uscito per Einaudi nel 2025, è un mondo intero. Si badi bene, non, come spesso accade, il mondo del poeta rovesciato sulla pagina a uso e consumo del lettore, né tantomeno il mondo che circonda il poeta, digerito attraverso la lente della scrittura, ma un mondo vero, convulso, gonfio di presenze, fatto di piazze, di incroci, di campagne, di dentro e di fuori, zeppo di comparse e presenze anonime, come tutti siamo anonimi agli occhi del mondo in cui viviamo.

Eppure, la restituzione di quel mondo non segue un’architettura precisa, non risponde ad alcun disegno, emerge attraverso le immagini e le voci e prende forma senza mai giungere a una costruzione definitiva: quel mondo esiste, esistono i suoi attori, le sue geografie eppure non ci è dato conoscerlo nei suoi confini, nei suoi limiti. Si potrebbe dire che in questa dialettica tra organicità e caos risieda una delle cifre più autentiche di questo libro, nella capacità da un lato di costruire un sistema, per quanto imperscrutabile, dall’altro di dare voce a quel disordine che, paradossalmente regola il mondo in cui  viviamo, così come si può affermare che è proprio l’assenza di coordinate ad attrarci, a spingerci ad attraversare la poesia di Rossi per cercare di comprendere quali siano i meccanismi occulti, gli ingranaggi invisibili che muovono quel sistema.

Eppure nella prima sezione la guerra, con i suoi «baluardi e fortilizi», con il fragore dei bombardamenti sembra istituire un qualche termine post quem, delimitare uno spazio, fisico e temporale, per poi rivelarsi una deflagrazione, reale e metaforica, utile a immetterci dentro quel mondo di cui si diceva, utile a portare sulla scena i personaggi e a svelare una qualche umanità che si dispiegherà nelle pagine successive. Certo è che da quel momento, dentro e fuori la cornice della guerra, sembra prendere spazio l’idea che esistano da un lato i superstiti, quelli che si affaccendano e forse resistono, dall’altro i caduti e i dispersi, quelli che se ne vanno e vengono superati dal movimento in corsa della vita: la ragazza caduta lungo «la strada ferrata» che tutti si ostinano a salutare dal treno in corsa, il Signor Terbi che muore davanti alla televisione mentre i cowboys seguitano la loro battaglia, i tanti andati e dimenticati presto, scomparsi in un «fluire» lento, in un «dissolversi  mite» di tutte le cose.

Tiziano Rossi Il brusio Copertina Alma Poesia

Sembra pure di intuire qualche volto familiare tra i tanti – il padre, un fratello zoppicante – ma lo slittamento continuo tra la prima e la terza persona, l’uso di un noi, omnicomprensivo e solo vagamente consolatorio nella prospettiva di un destino comune, delle forme impersonali, che invece rimarcano l’ineluttabilità della condizione cui siamo sottoposti, oltre a mimetizzare il dato meramente biografico, partecipano alla costruzione di un mondo che non è di nessuno in particolare, ma di tutti e in cui tutti siamo comparse e attori al tempo stesso.

E anche quelle voci, che tradiscono una vaga discendenza sereniana, e che confermano una tendenza già profondamente radicata nella poesia di Rossi, non vogliono costituire né una dorsale dentro al libro, né tantomeno un appiglio, una rivelazione o una salvezza, sono anch’esse prese e trascinate nella «ridda del tempo», sono il segno di una presenza e al contempo certificano l’assenza, l’esistenza del vuoto, del buio.

Ora ci si chiederà forse a cosa alluda quel «brusio» del titolo, cosa volesse dirci Rossi fin da principio. Quel brusio proviene forse da quel coro di voci che dileguano nel buio, che ci parlano dal passato, dalla memoria o forse arriva da noi che ci ostiniamo, che portiamo avanti un qualche «adempimento» quotidianamente, eppure non siamo che una voce flebile tra tante, una traccia destinata a scomparire?



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