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Immagine del redattoreMartina Toppi

Recensione a “I corpi che non ci calzano mai a pennello" di Daniel D. Marin

I corpi che non ci calzano mai a pennello, titolo di una raccolta di Daniel Marin (Interno Libri, 2022), quale tipo di vestiario rappresentano? L’elegante vestito della cena di sabato sera o le scarpe con cui ogni giorno ci muoviamo nel mondo? La domanda sorge spontanea, non solo leggendo il titolo della raccolta, ma anche sfogliandone i versi. Versi che servono a dare voce a personaggi comuni e al tempo stesso impossibili, nella misura in cui i loro tratti più peculiari – quelli che, in fondo, si celano nel profondo di ciascuno di noi – vengono esagerati dalla voce del poeta, oppure laddove è il loro corpo intero, la loro esistenza completa, a costituire un’eccezione surreale ai «pigri accadimenti della vita». Nella nota al testo di Rodica Darghincescu si legge infatti che «Daniel. D. Marin scrive su fogli neri con dadi in legno di abete. Senza conoscere confini. Una poesia di utopie minimaliste ma sovversive».

Ma l’utopia dove risiede? Nei cuori e negli occhi che a più riprese, di componimento in componimento, vengono strappati dalle loro sedi, scambiati con altri, gettati via, per le più svariate ragioni? («e il vecchio vide il proprio cuore di neonato / e gli venne una tale timidezza / da infilarsi in petto la mano destra, / afferrò il cuore, se lo strappò e furtivo / lo nascose dietro la schiena»). Oppure in queste voci stonate che tuttavia hanno il coraggio di parlare, fosse anche solo a sé stesse? (« […] il signor R. parla con gli uccelli / e gli uccelli parlano con il signor R., / il signor R. parla con gli umani e gli umani / non parlano con il signor R.»). La dimensione del grottesco, presto pronta a trasformarsi in senso del macabro, dei versi di Marin si scontra apertamente con quell’utopia, di cui Draghincescu parla, e soggiace a ognuna delle sei parti di cui l’opera si compone: «un macellaio mi taglia le gambe dei fianchi, / striscio, devo arrivare da qualche parte, / il sole è bianco come la calce, mi perfora gli occhi,/ presto sarò cieco, ma continuo a camminare brancolando / cercando di arrivare da qualche parte, / tendo le braccia e le mie braccia / si staccano dal corpo e cadono».

Immergersi in questa dimensione quasi bipolare tra sogno e incubo non è difficile per il lettore, a sorpresa, ma costruirla coi sembra un lavoro estremamente complesso. Si parte dal ritmo della parola – non sempre generata in italiano, ma talvolta tradotta dal romeno, lingua madre e terra di partenza di Marin, oppure ancora mediata da una seconda traduzione in inglese – che richiama ora la dimensione dell’incubo lento e circospetto nel mostrarsi come tale, ora quella dell’allucinazione dichiarata, ma non per questo meno seducente. Non c’è soluzione di continuità dall’uno all’altra, come non c’è soluzione di continuità nel passaggio dalla dimensione del grottesco (personaggi che fanno pietà e al tempo stesso fanno sorridere popolano i versi: «solo gli occhi mi sono rimasti, sono gli occhi e null’altro / e vedo a rallentatore come nella stanza entra un tricheco in / camice bianco, occhiali tondi dalla montatura dorata / e stetoscopio, mi viene accanto, mi visita con aria / grave, prende nota nella cartella clinica e va via») a quella del macabro. Dimensione, quest’ultima, fatta inequivocabilmente di parti di corpi fisici. Tangibili.


Daniel Marin, Copertina, Alma Poesia

La raccolta infatti parte proprio da una scoperta intima e personale del proprio corpo e della sua essenziale fragilità, che il poeta compie in un tempo che, nonostante il presente del verbo poetico, appartiene chiaramente al passato («il mio corpo vuoto fatto di morbido lattice elastico, / chiunque può gonfiarlo / proprio come un palloncino, / e poi lasciarlo andare nell’aria ardente»). Da lì si inizia a costruire l’utopia e lo si fa osservando il corpo degli altri. Il mutamento di prospettiva, caro a Marin sin dalle Poesie con gli occhiali (Tracus Arte, 2014), si ripropone continuamente in questa raccolta edita per Interno Poesia: le storie dei corpi che passano attraverso i versi vengono narrate dall’esterno dei personaggi che le vivono, ma anche dall’interno, in parte dal poeta che si identifica con loro, attraversandoli, oppure ancora dal poeta che li guarda scorrere, da lontano, nella vita. Il registro drammatico, cui fa riferimento la seconda nota al testo di Giancarlo Sissa, è di «straordinaria intensità e sconfinante in una dimensione forse inattesa, ma in realtà conseguente con le profondità del discorso, in cui sadismo e masochismo si contendono la scena». Di nuovo, sadismo e masochismo, come grottesco e macabro, sono termini utili per parlare della poesia di Marin.

Tornando quindi a quella domanda iniziale, come si configura in questi versi l’utopia?

A rispondere, più di molti altri personaggi i cui corpi costruiscono l’impalcatura della raccolta e dell’esperienza che il poeta ha della vita, c’è il signor R. Proiezione di un io nascosto del poeta o del lettore, comunque lo si voglia intendere, egli rappresenta l’io che si riconosce goffo e buffo, ma non per questo rinuncia a dare voce, fosse anche solo sottoforma di pensiero, alle proprie aspirazioni («“ahimè, al giorno d’oggi nessuno apprezza più / un incunabolo, è terribilmente triste / essere l’unico a rallegrarsi del fascino di un libro antico, / meglio andare a sedersi su una panchina al parco - / dove passa tanta gente che ama leggere / perché così non sarebbe escluso che qualche signore / o qualche signorina elegante potrebbe manifestare / la propria curiosità anche solo per gentilezza / e, ovviamente, io sarei felice e spiegherei minuziosamente / di cosa si stratta, anche se”, si interruppe trasognato il / signor R., “questa gioia mi pare non sia proprio completa” »).

Che si tratti di conversare con una donna o di conquistarla, di condividere con qualcuno la propria passione, avere costanza di portarle a termine, dare corpo alle proprie emozioni, il signor R. spera più di ogni altra cosa di poter essere sé stesso. Lo fa osservando ciò che conosce e che ritiene prevedibile, le leggi dell’Universo, la galassia di Andromeda (che per antonomasia costituiscono però simbolo perfetto del mistero da indagare), e in questa fascinazione riconosce la propria irrisolvibile solitudine ed estraneità dal mondo, tratto comune ai tanti corpi-personaggi che abitano la poesia di Marin e che pure si sentono isole in oceani sconfinati. Ciò che crea il senso di straniamento per eccellenza, infatti, è l’altro da sé: per il signor R. è una donna, per chi risponde con la violenza alla paura è colui che profetizza il futuro, che parla da solo per strada, è l’uomo del canneto, anche lui simile a un profeta, amato solo dai cani e odiato dagli uomini, un vecchio criticato da un bambino, le false memorie dell’uomo senza volto e le tante altre deviazioni dalla norma che questi versi offrono al lettore, in una poesia che non si fa mai esplicativa, ma che anzi affida alla narrazione il compito di mostrare senza dire.

Ecco allora che utopia e incubo coincidono: il sogno, quasi irrealizzabile, di rivedersi nell’altro e dall’altro sentirsi compreso e accettato diventa timore della fagocitazione definitiva, della perdita del sé, nel tentativo disperato di trovare un proprio posto nel mondo e di essere approvato da chi nel mondo vive insieme a noi. Una paura perfettamente rappresentata nell’ultima parte della raccolta, costituita da un unico componimento: Il grifone.

«Nella poesia di Daniel D. Marin – scrive infatti Draghincescu – accade, con naturale dualità, l’innaturale, “in una congiuntura astrale favorevole”, grazie alla quale il senso comune viene schiacciato imbrattando di sangue i muri del “forse” e del “probabile”, segnando semanticamente il luogo, come spazio del gioco osservato».


Daniel Marin, Alma Poesia

Daniel D. Marin, nato in Romania, rinato in Sardegna, vive ora a Padova. È autore di cinque raccolte poetiche in romeno, tra cui L’ho preso da parte e gli ho detto (2009; Premio Nazionale Marin Mincu 2010) e Poesie con gli occhiali (2014; Premio Nazionale di Poesia George Coșbuc 2015), e di un piccolo diario, Dalla Romania ci sono solo io (2018). È curatore di un’antologia retrospettiva della Generazione 2000 della letteratura romena, Poesia antiutopica. Un’antologia del duemilismo poetico romeno (2010), e di BorderLine 2000. Dieci autrici per un'antologia della poesia di oggi (2021). Per l’edizione 2015 del Festival Internazionale di Poesia di Bucarest ha tradotto poesie di Annelisa Alleva. Tra il 2013 e il 2016 ha selezionato i testi degli autori romeni per la rassegna Poesia a Strappo (Alghero). Presente in Congiunti (Edizioni Ensemble, 2020), un’antologia del grande lockdown del 2020. Nel 2022 è uscita la sua raccolta poetica I corpi che non ci calzano mai a pennello (Interno Libri Edizioni; Premio Libro di poesia al Festival Internazionale di Poesia Getafe Madrid, edizione Mihai Eminescu, Spagna, 2023).

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