Commento critico all'opera di Rosita Copioli
Rosita Copioli. Un percorso burrascoso, nel suo vasto mare
Torno volentieri a lavorare sul corpus poetico di Rosita Copioli, una scrittrice a mio avviso fra le più importanti e significative dei nostri tempi, capace di comporre versi con una maestria che lascia davvero incantati.
Qualche tempo fa presentai un quadro generale della poetessa sulla rivista Studi Cattolici, e tentai di mostrare il poliedrico lavoro di Copioli a partire dall’acqua. Elemento originario e metafisico, che al pari di Talete rende la nostra autrice una teorica della physis. Per Rosita Copioli il substrato da cui tutto trae origine è rintracciabile proprio nell’acqua. L’acqua è il principio-principiante che consente alla realtà di esistere.
Ma in che rapporti stanno, per la Copioli, l’acqua (come elemento primordiale) e la poesia? In che modo l’acqua costituisce direzione e veicolo di senso della nostra esistenza?
Sono fermamente convinto del fatto che se si vuol entrare nelle trame profonde di una qualsiasi poetica, non si possa prescindere dalla biografia dell’autore. Chi scrive, scrive sempre di se stesso, su se stesso, attraverso se stesso: usa le parole come strumenti autoptici, grimaldelli per scassinare la scorza e penetrare la realtà trasfigurandola, provando a dire ciò che non si può dire, sapendo di non poterlo dire, ma volendo dirlo lo stesso. Questo è il segreto profondo della poesia degna di esser chiamata tale. Quella poesia che prova a nominare le cose, partendo dallo sguardo del poeta, dal suo angolo prospettico, dalla sua vita.
Biografia e scrittura, quindi, si corrispondono sempre. E se c’è una persona per cui la biografia diventa essenziale per comprendere la complessità della sua poetica, questa è proprio Rosita Copioli. Scrittrice poliedrica, autrice complessa, capace di orientarsi tra filosofia, teologia, letteratura e storia, bruciando tutto nel crogiuolo scintillante della poesia. Per lei non vale solo il binomio poesia e vita in un rapporto paritario, perché nei suoi versi la poesia è vita, si fa vita, si confonde con la vita. Una vita ai confini del mondo, dove brucia il mare, / dove piove zolfo dal cielo sulla nave che si spinge controvento, fra le acque agitate della mente. Le acque maternali del mito, dell’origine. Le acque da cui viene ogni parola, ogni sospiro che si fa vento e cultura, immagine e evento.
L’intera opera di Copioli sta dentro la simbologia arcaica di sole, fuoco e acqua. Ogni suo verso contiene una chiave allegorica che deve essere decriptata. Perché le parole dicono molto di più di ciò che sembra a prima vista. In questo senso, dicevo, la biografia dell’autrice diventa fondamentale per districarsi nel variegato panorama della sua scrittura. E così, si comprende la Copioli poetessa solo se si studia Copioli filosofa, storica e teologa.
I fiumi che scorrono nella sua scrittura sono molti: alcuni ben visibili, emersi; altri, come fiumi carsici, si inabissano per riapparire all’improvviso e farsi torrenti, cascate, schianti di spuma e scrosci d’acqua.
Potrei dire che la sua poesia è il residuo insolubile di tutte le questioni sollevate negli altri generi letterari frequentati, che confluiscono nei versi, come affluenti che concorrono ad alimentare un fiume nutrito e vivo. I suoi libri sono tutti connessi fra loro e formano un insieme organico, pur nella diversità degli stili. I volumi in prosa rappresentano il laboratorio riflessivo da cui l’autrice elabora concetti e metafore che ritroviamo germogliati nei poemi. Si può forse provare a dire che qui la prosa, in più di un’occasione, appare complementare alla poesia. O meglio: la filosofia, la teologia, la storia sono il terreno sul quale si coltivano le domande, che trovano la massima espressione e fioritura nei versi poetici. La prosa vibrante di Furore delle rose dialoga con la poesia de I giardini dei popoli sotto le onde; Il postino fedele si specchia ne Il nostro sistema solare, che a sua volta è molto vicino al più recente poema Le acque della mente. La poesia assurge qui a luogo della massima espressione metaforica e immaginativa; è l’essenza profonda del fuoco che attraversa interamente la scrittura di Copioli, e si fa gloria.
In questi lavori che ho poc’anzi citato, e che coprono un arco temporale di quattro decenni, sono costantemente presenti archetipi e simboli che le religioni hanno conservato insieme alla letteratura e all’arte, facendo tutt’uno con la cultura e la lingua, trasformandosi in superficie per accogliere i nuovi riflessi dei secoli. E così, in questo magma burrascoso di testi, elementi significativi della sua poetica li ritroviamo anche nelle drammaturgie teatrali, nelle curatele e negli importantissimi lavori di traduzione. A ciò si aggiunge il profondo interesse per Saffo e i lirici greci, ma anche l’amore per il latino: fin da Splendida lumina solis (1979) la lingua di Copioli dialoga con Virgilio e Lucrezio. E poi Boiardo, Leopardi, Goethe e Yeats assumono il ruolo di stelle polari con soli e lune più celati, come Omero, Dante e Petrarca. In antitesi a nichilismi, demitizzazioni imperanti, asservimenti ideologici o produttivistici, dai suoi versi emergono temi ricorrenti: l’albero dell’Eden e gli dèi, la preistoria vegetale e il giardino, il silenzio della notte e il dolore della morte, la luce del sole e il desiderio amoroso, le favole dell’uomo e l’illusione, la memoria delle origini e il senso di questo persistere nel mondo.
Da queste molteplici immagini, dai vari stimoli culturali emergono anche alcune figure archetipiche, come per esempio Elena, che ha sempre significato, secondo la visione di Saffo, la bellezza della rigenerazione e l’eros, ma soprattutto androginia e libertà di scelta.
Qui l’azzardo di Copioli consiste nel riscrivere del tutto alcune di queste figure radicate nel mito. Ma riscriverle non come revisioni, bensì sostanzialmente, fino a rileggerle in ogni momento adattandole alla contemporaneità, consentendo al mito stesso di rinascere sempre a vita nuova.
In tutte le principali raccolte poetiche, in quello che chiamerei il «sistema Copioli», ricorrono quindi simboli e pensieri di fondo che sorreggono il testo e incarnano il filo rosso, l’orizzonte di senso entro cui si rende pensabile e interpretabile la sua voce poetica, da rileggere alla luce del mito e al fuoco di quella fiamma sacra che illumina da sempre il cammino dell’occidente.
Mito e sguardo sacro.
Sin da giovanissima, Rosita Copioli si nutre di questi due elementi. Si perde ben presto tra i versi dell’Iliade e dell’Odissea e già a dodici anni scrive una poesia su Atena: questa dea dallo sguardo scintillante, che trasvolava sul molo del porto vicino a casa sua, come una vedetta.
Così la vedeva, in un sogno a occhi aperti, la giovanissima poetessa. I suoi occhi attraversavano le tenebre, spingendosi con lo sguardo fin dove l’occhio umano non poteva arrivare. Sempre lei, Atena, con l’egida di Medusa, diventò la Minerva di una poesia di molti anni dopo, entrando in altre configurazioni, fino a coincidere con la natura. E nell’occhio antico della natura, nel punto più profondo e radicale, sembra dirci la Copioli, c’è il succo della vita, e forse persino il suo mistero. Senza natura è come essere staccati dalla terra: un fiore senz’acqua che muore.
Il fiore, l’acqua e il panorama marino sono altri elementi ricorsivi. Così come il nuoto, che assume un valore fisico e simbolico assoluto. Nelle acque maternali siamo come a nuoto, ma l’elemento acqueo della generazione vuole il mare, non la piscina: esige la mutevolezza degli elementi, il mare aperto, il rischio della burrasca.
Il nuoto, natatio, compare in Angela da Foligno (mistica studiata da Copioli) proprio per questa sua dimensione di aderenza alla materia madre fluida. Il nuoto è dunque inteso come nudità del corpo a contatto con la natura e col mistero. La verticalità non si esprime qui col volo - immagine frequente tra i mistici -, ma si invera col nuoto, accade nell’attraversamento di un liquido. È vero che gli antichi immaginarono acque spirituali, acque iperuranie, acque celesti, che in qualche modo aprirebbero anche a una lettura verticale, trascendente, infinita. Ma nel nuoto della Copioli c’è proprio il valore profondo di quel gesto inteso come estrema resistenza, come legame duraturo e inscindibile con la madre natura. In questo senso lo ritroviamo, ad esempio, nel Furore delle rose, e in particolare nel testo dedicato a Minerva; così come nel Postino fedele, in «Ala» - un lungo poemetto scatenato -, e infine ne Le acque della mente.
Libro cosmico, sterminato di immagini e metafore, Le acque della mente è un poema fra i più recenti, in cui trovano compimento alcuni percorsi culturali ed evocativi di Copioli. E per questo credo valga la pena soffermarsi su quest’opera, provando a destreggiarsi tra i versi e lasciandosi abbagliare dal fiorire continuo di immagini e evocazioni.
La raccolta, divisa in sei sezioni, inizia con Dove brucia il mare. È questo il fondamento dell’ira, della ribellione, dello sgomento, nutrito da timore e angoscia: sentimenti di conflitto e malessere che ci trasciniamo dietro fin dalla fondazione del mondo. È una questione antica: sono gli strazi e i tormenti di sempre, esplosi però a dismisura nell’ultimo secolo. Vi sono catastrofi gigantesche come quelle dei genocidi. Ma se più piccole o apparentemente meno pericolose, le catastrofi in formato ridotto del mondo moderno appaiono come disastri immani, che provocano la distruzione dell’anima-pensiero.
La rievocazione dell’Apocalisse, del primo testo, lo rivela. Il disastro di alcune tragedie del nostro tempo azzera lo spirito dell’uomo e della natura, spesso anche in nome del bene o di una pseudo libertà. Libertà pericolosa che può far male, distruggere e schiantare il mondo.
Dopo l’Apocalisse e la distruzione - o il rischio della distruzione - nella seconda sezione, Animalia, Rosita Copioli riporta lo sguardo sugli animali. Gli ultimi. Gli indifesi. Agli occhi dell’autrice, gli animali sono i veri violentati nella biologia del vivente cui apparteniamo: la violenza nella storia di oggi impone uno sguardo a ritroso sulla violenza primaria. Questa sezione di tredici testi si basa su tali principi di violazioni e rimozioni, di contraddizioni profondissime che ci sembrano quasi irresolubili e che comprendono azioni antitetiche per la ragione, ma che sono state praticate insieme fin dalle origini e nell’inconscio: il cacciarli e imitarli; il mangiarli, spogliarli, consumarli sfruttandoli fino in fondo; oppure il rispettarli, il lasciare loro la vita; il temerli, l’ammirarli e l’osservarli accanto a noi o lontano da noi. Con Animalia, Copioli prosegue il piccolo bestiario già iniziato ne Il postino fedele, dove animali veri e simbolici erano protagonisti di alcune sezioni dell’opera. Chiaramente sullo sfondo c’è sempre l’Eden. Il paesaggio esteriore ed interiore del Paradiso, che da Il fuoco dell’Eden a Le acque della mente attraversa tutta la sua poetica.
La terza sezione, intitolata Gli spazi della mente, è forse la più ostica per un lettore moderno. Qui vengono unite figure storiche e del mito, scrittori e pittori, stagioni dell’uomo, concetti e primati dell’immaginazione attraverso quadri anche descrittivi. Questa sezione è molto complessa, segretamente filosofica. Saffo dialoga con Platone, Mitra rivela il discorso delle religioni che si diffondono nell’impero romano, contemporaneamente al cristianesimo, con immagini che passeranno nel nostro umanesimo e rinascimento (qui presenti con Agostino di Duccio e altri, come Piero della Francesca, Bellini, Leonardo, Boiardo, Pollaiolo). Ildegarda di Bingen dialoga con la Odighitria di Torcello, la meravigliosa Vergine lunga e snella come un giunco che porta il germoglio del figlio nella luce d’Oriente.
Questi versi, bellissimi, potrebbero essere sottoposti anche a analisi teologiche complesse che rovesciano o reimpostano molte idee trinitarie, su cui la teologia bizantina si è incardinata, in dialogo con i testi scritturali.
Molto interessante è il testo che dà il titolo all’intera sezione: Gli spazi della mente. Sono versi scintillanti questi, in cui torna il tema dell’acqua, del nuoto e il mare coi suoi abissi, le sue superfici, i fondali / che percorrevo a piedi asciutti, / raccogliendo tesori. Anche se il centro «filosofico» di questo testo poetico emerge più avanti, nel momento in cui ci si interroga sui legami tra la pittura e la poesia: non è vero che ut pictura poesis? Ma il testo invia anche al ripensamento della contesa per il primato dell’una sull’altra. Chi ha più forza immaginativa? La poesia o la pittura? Qui l’autrice sembra avvicinarsi a Leopardi, e forse anche a Plotino (risalendo fino ai principi espressi nei Veda), per i quali la contemplazione è l’atto più alto e spirituale, in quanto riassume ogni cosa in sé e contiene quindi tutto: persino la pittura e la linea del disegno.
La quarta sezione, Limiti e proprietà, è il luogo della passione e dell’amore. L’amore che trapassa e scuote, l’amore che non si afferra: l’amore come lo dai tu, / sì, hai capito bene, tu che lo sai / che è dare e prendere, / non è mai capito, mai. L’amore si comprende ma non si capisce. Non c’è niente da capire. E insieme a questa oscura forza, che è l’amore, sta il potere. Il potere umano - e forse dis-umano - di pervertire l’ordine naturale, minacciando il vivente con le applicazioni della tecnologia, che pretende di oltrepassare ogni limite e farsi gioco della misura. Un tempo, c’era il limite. / I limiti furono definiti. / Ora che non c’è limite / perché il limite incombe? / Tu sei senza limiti / e sei il più colmo di limiti. /Mi vuoi spiegare perché / sei sopravvissuto?
Riflessione, questa, molto interessante e provocatoria, che chiama in questione il bordo estremo, la soglia vertiginosa, il rischio della distruzione che introduce alla quinta sezione, Qui e ora quotidiani.
La soglia è quella dell’esperienza amorosa che rimanda sempre ad altro e che spalanca le porte al desiderio di eterno, alla rottura del tempo. A quel tempo che inesorabile scorre e fugge senza scampo. Qui e ora. Tutto ciò che può succedere è / ammissibile. Nel rapporto d’amore avviene / senza calcolo, senza soste, ed è continuamente, / il qui, e l’ora dove ci si ferma in eterno, / in un profondissimo vento.
La sezione Ambra, tempo chiude la raccolta. Ambra-tempo: il tempo non dà scampo e allora diventa indispensabile giocarci, abbellirlo. Ma come giocare con un’entità così onnicomprensiva quale è il tempo, che domina la morte e che ti concede qualche ultima goccia del suo miele? Mi baci ipnotizzato / dal tempo che fluisce / dalla nostra bocca. / Scorre miele, delizia, / il tempo. / Tempo che non sappiamo. / A chi appartiene. Di chi era, / il tempo degli avi, il nostro / e quale, sicuramente lui lo sa, /è un dio, / il tempo che scorre / e che ci allaccia, ed è così clemente, / che rallenta, ferma.
È la questione più alta, più tragica, che attraversa la poesia di ogni epoca. Il limite estremo, il bordo che sopraggiunge e non si lascia respingere, la morte che getta la sua ombra su di noi. Ebbene, la morte può essere vinta solo dall’amore. Perché l’amore non vuole morire, non può; l’amore vuole resistere allo schianto. Dal Cantico dei cantici in poi non possiamo fare a meno di sognare che forte come la morte è l’amore. E magari vorremmo fosse persino più forte, per vincerla definitivamente. Ma Copioli sa che questa illusione non resiste. E proprio per questo, allora, è necessario poetare. Fare poesia immersi nelle acque della mente in cui è dolce naufragare. Perché solo la poesia è in grado di sollevarci dalla terra. Solo la poesia sa farci trascendere e spingere lo sguardo verso il cielo.
Così possiamo star certi che la morte verrà a visitarci, prima o poi; ma la parola poetica, nonostante tutto, ci sopravviverà.
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