"Poesie dell’Italia contemporanea" a cura di Tommaso Di Dio: interventi critici
Aggiornamento: 10 gen
Il lavoro di curatela svolto da Tommaso Di Dio per la realizzazione del volume Poesie dell’Italia contemporanea, uscito per Il Saggiatore qualche mese fa, ha smosso da subito un acceso dibattito il quale, in buona parte, è quello che da sempre accompagna le antologie che, soprattutto negli ultimi anni e soprattutto in relazione al parametro cronologico, imperversano e vengono pubblicate con una frequenza quasi disarmante.
L'operazione Di Dio, pur nella sua peculiarità, con cui - del resto - ogni prodotto di questo tipo viene presentato dal proprio artefice, si inserisce evidentemente all'interno di un fenomeno più ampio, la cui lettura può essere utile per cogliere alcune tendenze moderne del nostro fare, leggere e sistematizzare la poesia.
Al di là delle discussioni tra inclusi ed esclusi legate al sé autoriale che qui non ci interessa approfondire, l'intento che ci siamo posti come redazione è stato quello di provare ad analizzare criticamente e sotto più punti di vista alcune questioni sollevate da questo testo, punto di partenza per allargare lo sguardo verso indagini di portata più ampia. Abbiamo scelto di non adottare una visione d'insieme e univoca ma di riproporre in forma scritta quelle divergenze di opinioni e di punti di vista sorte internamente ad Alma Poesia, nell'intento di arricchire la discussione e di smuovere, magari, altre riflessioni a riguardo.
Troverete, quindi, di seguito tre articoli, il primo a cura di Emanuele Andrea Spano, il secondo realizzato da Alessandro Pertosa, il terzo con la firma di Sara Vergari e, alla fine, quattro domande rivolte direttamente a Tommaso Di Dio, al quale chiediamo di rispondere (in tempi e modi che concorderemo), per integrare le nostre voci con la sua.
Ci auguriamo che un lavoro di questo tipo, corale, inclusivo e aperto internamente ed esternamente al confronto, possa essere un modo prolifero e generativo per stare dentro la poesia. (A.C.)
Scrivere un’antologia della poesia italiana degli ultimi cinquant’anni significa necessariamente affondare le mani dentro un materiale magmatico che sfugge a facili catalogazioni, che fuoriesce da qualsiasi canone e che anzi si scaglia spesso contro l’assunto stesso dell’esistenza di un canone e della possibilità di rintracciarne uno, costruendo su questa insofferenza la sua ragione d’essere, la logica della sua sopravvivenza e, se vogliamo, della sua resistenza. Di questo Tommaso Di Dio, curatore di Poesie dell’Italia contemporanea, è ben consapevole, così come è consapevole del fatto che la “sua” antologia deve obbligatoriamente fare i conti con l’alluvione di antologie, di qualsiasi carattere o foggia, che ha investito gli ultimi anni nel tentativo di operare ricognizioni, più o meno intelligenti e riuscite, del panorama multiforme della poesia italiana o di suggerire, talvolta in maniera un po’ arbitraria, tendenze o sotto tendenze, laddove non esistevano più direzioni rintracciabili ed evidenti. È consapevole anche della moltiplicazione abnorme dei libri di poesia pubblicati e della conseguente crescita esponenziale del numero dei “poetanti”, e non certo dei poeti, che hanno riempito gli scaffali delle librerie, saturato ogni interstizio della rete, reso ancora più irrespirabile quello spazio, e di quanto questo fatto possa avere una rilevanza per lo meno sociologica, se non letteraria.
Non a caso, forse già in virtù di quel magmatismo di cui si diceva in principio, Di Dio sceglie fin dal titolo di cambiare direzione rispetto ai curatori che lo hanno preceduto, semplicemente declinando quella parola, così ingombrante e complessa, al plurale, invece che al singolare. Non più “poesia” – del Novecento, del Secondo Novecento, degli anni Sessanta o oltre – né tantomeno i “poeti” – del Novecento, degli anni zero o di altro – ma semplicemente “poesie”, e le “poesie” dell’Italia contemporanea.
Ecco, quella che potrebbe parere una semplice variazione lessicale in realtà rivela la scelta di fondo operata dal curatore, in controtendenza rispetto alla gran parte delle antologie che hanno visto la luce negli ultimi decenni, e non solo. La poesia, pensata non più come un qualcosa di granitico e risolto, come un organismo con una fisionomia e una fisiologia proprie e precipue, come un sistema ordinato che compendia il disordine che le si agita dentro ed espelle le componenti spurie per trovare un suo equilibrio, non più un’idea consolidata e chiusa di “poesia” in cui sono i poeti, quelli riconosciuti come tali e degni di menzione a fare da traino, a costruire l’ossatura di quel tempo, mentre gli altri sono comparse secondarie, casi, magari interessanti, ma comunque meno significativi, ma i testi, le “poesie”, per l’appunto, che costituiscono tutte insieme, sovrapponendosi e scontrandosi, mescolandosi tra loro come i colori di una tela, il vero volto di quell’epoca che raccontano e che vivono.
Un’operazione, questa, che potrebbe sembrare dettata da una scelta di fondo quasi ideologica e da una presa di posizione critica, ma che in realtà nasce da un’esigenza di ordine pratico sul come restituire un quadro di quegli anni, tanti per la verità nell’economia della storia e tanti per la densità di fatti e di rivolgimenti di ogni genere che li hanno – e ci hanno – interessati, che ci separano da un evento enorme e distruttivo come la strage di Piazza Fontana, anni che hanno visto un mutamento radicale di quello che era il nostro modo di vivere e, in un certo senso, anche il nostro modo di pensare la letteratura e l’arte in senso assoluto.
Parlare di poesie, e non di poeti, non significa abolire l’esistenza di una figura autoriale, ma lasciare che siano i loro testi ad esprimersi, così come parlare di poesie non vuol dire non parlare di libri di poesie e di raccolte, bensì ridare centralità al singolo testo, al peso del suo significante, alla sua peculiarità stilistica, all’uso che quel testo fa della parola in una dialettica costante con gli “altri” testi, quelli che negli stessi anni vedevano la luce. La rinuncia alle logiche generazionali e autoriali, che da sempre hanno rappresentato un cardine del lavoro antologico, consente di innescare un meccanismo orizzontale dentro la verticalità della storia che si racconta, nella consapevolezza che pure quella verticalità, quella della storia, può essere in qualche modo smontata in altri tempi, sezionata e rianalizzata secondo un taglio ancora una volta orizzontale.
Sta in questo forse l’aspetto più intelligente dell’operazione realizzata in questa antologia: la convivenza e l’attrito tra una dimensione verticale, diacronica, e una orizzontale, sincronica, l’incontro in uno stesso momento storico, in uno stesso attimo della storia letteraria e umana di un paese di voci apparentemente tanto distanti che provengono da mondi, da tempi e da origini anche lontanissime e che, pure, in quel singolo momento, “contribuiscono” al panorama della poesia con la loro parola. Poco ci interessa ai fini di quella ricognizione di essere davanti all’esordio, magari notevole, di un giovane poeta o davanti all’ultimo lascito di un poeta “anziano” che arriva da ben altri luoghi letterari, conta che negli stessi anni le esperienze di quei due poeti si siano affiancate e conta il gesto di quei poeti dentro il sistema di quel periodo storico.
Occorre tuttavia sgombrare il campo da una serie di equivoci, nel momento stesso in cui ci interroghiamo sulla liceità e sul valore intrinseco di questo lavoro. Di Dio seziona i cinquant’anni di questa antologia secondo una cadenza decennale, scandita per lo più da una serie di fatti storici che hanno introdotto l’inizio di quei decenni: la strage di Piazza Fontana, l’omicidio di Aldo Moro, la caduta del Muro di Berlino, l’attentato alle Torri Gemelle. Fatti significativi che certo hanno segnato in maniera inequivocabile la storia contemporanea e che si arrestano, tragicamente se vogliamo, in corrispondenza dell’ultimo decennio quando, secondo il curatore, non ha più senso parlare di un rapporto tra storia e poesia, ma ci si inoltra in un sistema in cui la logica del “post” che sembra aver segnato il nostro mondo – sociale, umano, culturale, letterario – pare dissolversi. Ecco che, a questo punto, si potrebbe avere l’impressione che Di Dio ci stia conducendo lungo un itinerario che sconfina nel “nulla”, nell’anarchia più assoluta, nel caos o che, in qualche maniera, prenda atto di un fallimento, se è vero che quella scansione che aveva scelto, a questo punto smette di avere un significato. E invece, al contrario, ci sta parlando di una mutazione per cui, venuto meno il peso di fatti storici, di cambiamenti della società, avvertiti come significativi, non può più essere quello il metro attraverso cui leggere la poesia di un’epoca. Si faccia attenzione ancora a un fatto: Di Dio non ci racconta la storia, pensando che la poesia sia unicamente una reazione alla storia di un’epoca e che sia determinata e risolta totalmente in quello che accade al di fuori di sé, Di Dio ci racconta un’epoca e lo fa, ancora una volta forse in antitesi rispetto ai suoi predecessori, raccontandoci il mondo culturale che quell’epoca racchiude, al di là e in conseguenza di quei fatti storici che l’hanno attraversata, spaziando dal mondo dell’arte a quello della musica nella consapevolezza che tutta l’arte è una sorta di continuum in cui però i singoli frammenti, i singoli tasselli possono muoversi secondo un movimento proprio fuori e dentro il sistema.
Ora, se si vorrà comprendere il senso di questo densissimo volume, non bisognerà certo fermarsi ai presupposti teorici e culturali che l’hanno generato, né tantomeno limitarsi a leggere i tanti testi che questo libro raccoglie, che pure riescono a restituire un quadro più che esaustivo degli ultimi cinquant’anni, ma cercare di dare una risposta, ognuno a proprio modo e secondo la propria sensibilità, ai tantissimi interrogativi che un libro di questo tipo apre. E non bisogna neppure continuare a chiedersi se questa antologia abbia senso di esistere o se in generale ancora un’antologia oggi abbia ragion d’essere, ma piuttosto pensare a quanto il testo poetico nel mondo contemporaneo, al di là delle squalificazioni e delle banalizzazioni che lo minacciano continuamente, sia vitale, seppure non necessario, come tutta l’arte d’altronde. (E.A.S.)
Poesie dell’Italia contemporanea. È questo il titolo dell’antologia curata da Tommaso Di Dio per i tipi de «Il Saggiatore». Si tratta di un volume ponderoso che intenderebbe gettare una luce sugli ultimi cinquant’anni di poesia edita in lingua italiana: e la specificazione «in lingua italiana» è necessaria dal momento che lo stesso curatore ha inteso non inserire nel volume la produzione poetica dialettale, riconoscendo tuttavia che tale scelta compromette il tentativo di fornire un quadro esaustivo, ma si rivela – a suo dire – necessaria sia per «questioni di spazio»[1] e sia perché il percorso diacronico, concentrato soltanto sulla lingua italiana, risulterebbe così – sempre a suo dire – più organico e coeso.
Molto schematica è anche l’articolazione del volume, che nel corpus di oltre mille pagine, include centinaia di testi poetici catalogati secondo una struttura che potremmo definire storica e sociologica. Il cinquantennio compreso tra il 1971 e il 2021 viene infatti diviso in cinque decadi, ognuna delle quali è costituita da un assortimento di testi coevi riferibili a quel decennio e ritenuti più rappresentativi.
Questa scelta del curatore, come peraltro è già stato notato[2], oltre a non essere innovativa[3] è a mio avviso particolarmente problematica. E proprio su questa problematicità intenderei soffermarmi per mostrare che se redigere un’antologia poetica era ieri «artisticamente» inutile, oggi sembra addirittura un’operazione impossibile.
Ieri. Ovvero il tempo in cui i poeti si riconoscevano in un canone, lo rispettavano, mettendolo magari persino in discussione: ma quelle stesse discussioni – talvolta addirittura aspre – sulle modalità di fare poesia finivano, presto o tardi, per in-formare un nuovo canone. Uno più efficace, ritenuto migliore, preferibile esteticamente. E magari considerato anche più idoneo a rispondere alle esigenze esistenziali e culturali dei «nuovi» tempi.
Oggi invece… è un oggi che dura da diversi decenni. E in questo oggi si proclama a gran voce l’assenza di un canone. O per essere più espliciti: la definitiva morte del canone. E l’evidenza indiscutibile di questo dato viene confermata dallo stesso Di Dio nella sua nota introduttiva al volume, allorché osserva come – almeno da gli anni settanta dello scorso secolo – in ambito poetico si navighi a vista, in un mare vastissimo di esperimenti non sempre all’altezza delle aspettative. E tra le onde di questo mare spumoso, spazzati da venti di caos e tempesta, stanno in una dimensione di complicata convivenza scritture assai diverse, che si trovavano a condividere la dicitura di «poesia», magari persino ignorandosi una con l’altra[4].
E proprio perché Di Dio ha ragione nel notare questo dato inconfutabile, mi sembra oltremodo problematica la sua scelta di dar vita comunque a un corpus poetico antologico.
Dal mio punto di vista, la redazione di un’antologia, di per sé, non aveva senso nemmeno all’epoca dell’esistenza di un canone. O meglio, l’unico senso riconoscibile, la sola funzione che sento di attribuirle è di natura didattica. Ma se comunque poteva avere una sua logica comporre un’antologia poetica in un’epoca in cui i poeti stessi operavano all’interno di un comune orizzonte estetico, e discutevano sulle diverse idee di poesia e magari – se appartenevano a scuole di pensiero differenti – si confrontavano mostrando le reciproche distanze, oggi al contrario, nel momento in cui viene meno la ragione stessa del canone, diventa inutile antologizzare i poeti.
E questa inutilità non è una petitio principii, bensì un dato che emerge con forza da solo. Perché se si proclama la morte del canone, sostenendo la necessità dell’assoluta libertà espressiva, non ha più senso antologizzare nulla, dal momento che non è possibile rintracciare alcuna forma estetica riconoscibile in un contesto espressivo in cui ognuno va per conto suo. E se ciononostante si redige comunque un’antologia, si finisce inevitabilmente per compiere delle scelte estetiche arbitrarie. Perché il curatore, non trovando riscontri in un dibattito impossibile da realizzare per mancanza di codici estetici di riferimento, sceglierà i testi da antologizzare seguendo il suo gusto personale. Scelta, questa, che finisce tuttavia per seguire logiche discutibili e soprattutto non sempre basate sul merito poetico.
A queste considerazioni se ne aggiunga un’altra: non solo la conclamata e definitiva assenza di un canone rende evidente l’impossibilità di redigere un’antologia, ma mi pare anche del tutto vano pensare di poter raggruppare l’opera di vari autori – come fa Di Dio – per decadi storiche. E ciò perché se ogni autore va per conto suo, non riconoscendosi all’interno di un orizzonte comune e condiviso, è del tutto inutile antologizzare un periodo come se il periodo stesso rappresentasse, in qualche modo e in qualche forma, uno spazio in cui riconoscere una voce poetica comune. Per essere più chiari: che senso ha delineare il perimetro di un corpus poetico in chiave temporale, inserendo in un unico calderone sensibilità poetiche diverse, distinte, che magari si ignorano persino, e fare tutto ciò soltanto perché le opere selezionate sono coeve? È forse quello temporale un canone estetico significante? Io sinceramente ne dubito.
Ma non è ancora tutto. C’è un’ultima difficoltà, forse la più grave, che impedirebbe di comporre un’antologia poetica degli ultimi decenni. E questa difficoltà consiste nel criterio di scelta dei testi. Ora, mettiamo tra parentesi le critiche all’antologizzazione per decadi. Ma pur accettando quel criterio, mi chiedo: di tutti i lavori poetici che vengono pubblicati in un decennio, quali scegliere? Con che criterio? Se il canone non c’è, perché preferire il lavoro di Tizio a quello di Caio?
Sia chiaro: non intendo qui prestarmi al solito giochino di chi manca e invece meriterebbe di esserci, così come non voglio evidenziare che di alcuni autori presenti nel volume curato da Di Dio, forse se non fossero stati citati non si sarebbe sentita la mancanza. E non voglio prestarmi al suddetto giochino, perché anche in questo caso sarebbe il mio – e solo il mio – gusto estetico a contrapporsi a quello di Di Dio (nello specifico) o di chiunque altro voglia cimentarsi in un’impresa redazionale simile. Ma è proprio questo il limite. Una discussione poetica, artistica, estetica non può basarsi su ciò che piace a me o su ciò che preferisco io. La questione in gioco, allora, è più radicale. Se vogliamo, è persino essenzialmente teoretica. Ovvero: in considerazione del fatto che in ambito poetico si assiste a un fenomeno lapalissiano di libertà espressiva, che non intende più sottostare ad alcun vincolo o canone, ogni tentativo di comporre un’antologia poetica oggi è destinato a fallire. Anche perché, il curatore in questione non vive su Marte, ma opera nel presente. Egli stesso ha ammesso di aver sentito l’esigenza di direzionare il suo lavoro usando una metafora diversa. «Non più la metafora teatrale, ma quella panoramica: non volevo ricostruire – scrive Di Dio – la scena della poesia nel teatro immaginario della letteratura, dove pochi volti sono illuminati, di volta in volta, da un occhio di bue. Piuttosto – aggiunge – intendevo rappresentare la poesia contemporanea come un paesaggio»[5]. Ebbene, ma il punto è che proprio questo desiderio si rivela altamente problematico. Perché il curatore stesso è inserito nel sistema che vorrebbe indagare. E come sa chiunque abbia una minima cognizione di logica-matematica, chi è parte del sistema non può in alcun modo parlare del sistema. Se sei dentro uno spazio delineato da un orizzonte non hai visione d’insieme e non puoi nemmeno effettuare una panoramica. Il cameraman può fare una panoramica di un paesaggio, dal momento che si pone – come punto di vista – fuori dal paesaggio stesso. Ma se egli è parte del mondo che sta riprendendo, è impossibile che possa fornire una visione d’insieme. Perché egli stesso rimarrà sempre fuori dall’inquadratura: e così si vedrà tutto il contesto, meno qualcuno: ovvero il cameraman. Quindi la sua telecamera non produrrà mai la visione complessiva.
E che le cose stiano così, è lo stesso curatore a rivelarcelo poco dopo quando cita Simmel. «Più di un secolo fa – nota Di Dio – già Georg Simmel in Filosofia del paesaggio[6], traccia un legame strettissimo fra l’esperienza del paesaggio e la poesia». E aggiunge, correttamente, che per Simmel un paesaggio si configura solo se ci sono un punto di vista preciso e una delimitazione dell’orizzonte.
Ma proprio queste sono le difficoltà più gravi per Tommaso Di Dio. Perché il punto di vista preciso lo si ha solo se non si è parte di ciò che va visto o delimitato. Altrimenti non è un punto di vista preciso, ma una prospettiva settoriale. Rispettabile, certo, purché sia esplicitata nella sua dimensione arbitraria e orientata.
E in ogni caso, per difendere la bontà di questo punto di vista personale, non basta affermare, come fa Di Dio, che nel testo troviamo «le poesie che mi sono sembrate più significative tra quelle edite nel periodo di riferimento»[7]. Perché l’assenza di un canone se da un lato costringe il curatore a scegliere i testi cedendo al gusto personale, dall’altro mostra l’impossibilità di questa operazione. Perché il gusto personale non può, in alcun modo, significare o delineare l’orizzonte entro cui pensare una poetica.
Così, con questi miei appunti rapidi e cursori, spero di aver messo un po’ in luce come i miei dubbi sul lavoro di Di Dio non siano relativi alle scelte che egli ha compiuto (e che restano pienamente legittime). Ma sono obbiezioni più radicali. La questione di fondo è che l’antologia oggi è impossibile.
Se invece, si intende ignorare del tutto queste considerazioni procedendo comunque, diventa doveroso allora affondare la lama sulla carne viva della scelta e chiedere a Di Dio – al netto del gusto personale, che non può fungere da metodo di valutazione – qual è sul serio il criterio di selezione degli autori. Perché alle volte può venire il sospetto – magari infondato nel caso del presente lavoro – ma dicevo, può venire il sospetto che, come nota giustamente Gianfranco Lauretano, le operazioni editoriali di questo tipo siano il combinato disposto tra l’accademia strutturalista e l’editoria aziendalista[8]. Insomma: il rischio è che si tratti di una mera questione di potere editoriale e di posti al sole da conquistare, dove nulla, ma proprio nulla, ha a che vedere con il brivido burrascoso di quella parola poetica che «prova a dire ciò che non si può dire, sapendo di non poterlo dire, ma volendo dirlo lo stesso»[9]. (A.P.)
[1] Cfr. T. Di Dio, Introduzione, in Poesie dell’Italia contemporanea, a cura di T. Di Dio, Il Saggiatore, Milano 2023, p. 24. [2] Crf. G. Lauretano, Relativismo, accademia strutturalista, editoria aziendalista: come ti confeziono una (brutta) antologia della poesia italiana, in «Pangea», 8 agosto 2023 (www.pangea.news). [3] La divisione in decadi era già stata utilizzata da Francesco Napoli nell’antologia Poesia presente (Raffaelli, Rimini 2011), così come la decisione di concentrarsi sui libri e sulle date delle loro pubblicazioni e non sugli autori, si ritrova anche in Trent’anni di Novecento (Book, Castelmaggiore 2005) di Alberto Bertoni. [4] Cfr. T. Di Dio, Introduzione, in, op. cit., p. 13. [5] Cfr. T. Di Dio, Introduzione, in, op. cit., p. 15. [6] Cfr. G. Simmel, Filosofia del paesaggio, in Stile moderno, a cura di Barbara Carnevali, Einaudi, Torino 2020, pp. 329-334. [7] T. Di Dio, Introduzione, in, op. cit., p. 15. [8] Crf. G. Lauretano, Relativismo, accademia strutturalista, editoria aziendalista: come ti confeziono una (brutta) antologia della poesia italiana, in «Pangea», 8 agosto 2023 (www.pangea.news). [9]A. Pertosa, La responsabilità di ciò che si dice, in «Rivista di un mondo», I, 2013, p. 24.
Se qualcosa ormai è certo in merito al fare un’antologia oggi è che questa non può più replicarsi negli schemi classici novecenteschi. Non per una presa di posizione oppositiva verso la tradizione, bensì come adeguamento degli strumenti critici a una società e a un panorama poetico profondamente mutati. Lo sa bene Tommaso Di Dio che, nel prendersi carico di redigere un’antologia della poesia italiana contemporanea (Poesie dell’Italia contemporanea 1971-2021) è consapevole di lasciarsi alle spalle ogni intento canonizzante o estremamente categorizzante. Dall’altro lato si propone di innovare e sperimentare sul genere, adeguandolo alle necessità dell’oggi. Abbandonare le tracce antologiche che hanno dettato le regole del genere però comporta il rischio di trovarsi di fronte una successione di autori quasi casuale. Se per mutata allora, l’antologia per potersi definire tale deve ancora rispondere a determinati criteri che non possono venire meno al di là del tempo e del contesto in cui la si realizza. Questi mi sembrano essere, considerati anche gli studi teorici sul genere, la metaletterarietà e la macrotestualità. Con la prima si intende che, oltre alla lettura dei testi in quanto tali, la mano del critico curatore deve intervenire a organizzare il materiale in modo tale da offrire al lettore un viatico all’interno del quale poi muoversi e interpretare più o meno liberamente. Con la seconda invece, ed è ancora compito del curatore, si intende creare un legame interno trai testi così da ottenere un libro e non una semplice raccolta. Licenziati questi labili confini, sappiamo quanto l’antologia da sempre sfugga a ogni possibile definizione e a qualunque intento del suo realizzatore proprio per la natura ambigua e anfibia (a metà tra libro di poesia e saggio critico). Da quest’ultimo punto è bene partire per approcciarsi all’antologia di Di Dio.
Se la scuola novecentesca tendeva a considerare l’antologia come un prodotto di alto valore critico e formale, Di Dio nell’introduzione dichiara di voler invece concedere una certa autonomia al genere, ridimensionando il ruolo sia del curatore che dell’autore, e concedendo ai testi la possibilità di scrivere molte storie. Questo punto di innovazione concede maggiore libertà di interpretazione e di movimento al lettore, e a lui affida il compito di creare percorsi e associazioni. Inoltre, il proposito è quello di far assomigliare l’antologia a ciò che rappresenta; se la poesia oggi si caratterizza come continuo divenire di forme, linguaggi ed espressioni, di conseguenza essa si trova in un territorio del possibile che non può assumere un’unica traiettoria ma molteplici e imprevedibili. Aprire l’antologia con tale proposito, a dispetto di costringere a una linea interpretativa, può certamente funzionare per il panorama contemporaneo se non che, come anticipato, l’impronta del curatore non può fare a meno di esserci. E di fatti l’introduzione stessa procede nel dichiarare la struttura del lavoro, che si avvale dell’ordine cronologico e di puntuali riferimenti storici e sociologici. Interessante è la scelta, che in questo caso guida il lettore pur senza orientarlo forzatamente, di introdurre le cinque sezioni corrispondenti alle decadi non con una storia strettamente poetica, ma appunto storico-culturale, creando così un parallelo tra testo e contesto. L’ampio respiro di questi scritti permette effettivamente di osservare la poesia di una data sezione non solo in relazione a se stessa – come in parte obbligava l’impostazione tradizionale -ma anche rispetto a fenomeni esterni ad essa. Per concludere su questo punto, ne deriva anche un diverso sfondo in cui i testi sono collocati: non più quello generazionale o sospeso in un universo letterario parallelo ma in un orizzonte multidimensionale.
Tuttavia, il principale punto di novità che Di Dio rivendica è la centralità del testo. Per ottenere questo, in effetti, compie una scelta di impostazione strutturale la cui efficacia o meno forse potrà dircelo il tempo, ma che certamente non lascia indifferenti. All’interno della sezione dedicata alla decade non è quindi la divisione per autore a decidere il percorso, ma una scelta di testi rappresentativi per ogni anno (“le poesie che mi sono sembrate più significative tra quelle edite nel periodo di riferimento”, si dice). Ciò implica inevitabilmente la componente soggettiva del curatore, come d’altronde in ogni altra antologia in modo più o meno marcato, ma non su questo vorrei concentrarmi. Le domande da porsi sono piuttosto in che senso e in che modo i testi scelti siano rappresentativi di quel preciso tempo e come si trovino in relazione con gli altri selezionati. Al di là dell’ordine cronologico, già dato dall’organizzazione in decenni, determinante è il procedere da un autore all’altro senza un vero stacco. Questo permette di avere, oltre a una pluralità di voci, una panoramica sulle scritture di un dato tempo a prescindere dalla fase poetica dell’autore. Ne derivano accostamenti inediti tra autori che, nell’impostazione tradizionale, si sarebbero trovati divisi secondo i criteri generazionali. Come anticipato, un simile sistema concede maggiore libertà di interpretazione al lettore, che d’altra parte non si trova più un percorso ermeneutico già dato. Di Dio dichiara poi di voler costruire un racconto dove ogni singolo testo è scelto per stare accanto al precedente e al successivo così da formare un complessivo movimento armonico (veniamo quindi a ciò che riguarda il macrotesto). La tenuta del macrotesto è costruita in modo accurato e non cede neanche negli accostamenti più sorprendenti per le prime tre sezioni, ossia fino alla fine del secolo. Per gli anni 2000 e 2010, complice anche il maggiore coinvolgimento diretto del lettore e l’estrema contemporaneità, si percepisce lo sgretolarsi e la dispersione di ogni possibile partitura. Come se i testi di questi anni, accostati insieme, non potessero che provocare una detonazione. Di fronte a ciò non ci si può non domandare se il genere antologico stesso non finisca qui per detonare. Ciò che è certo è che l’antologia non può più essere interpretata come museo, e ad essa non si può più affidare il rigido compito di strumento critico ed interpretativo. Sembra dunque una via possibile e giusta da percorrere il tentativo di Di Dio di conservare la struttura narrativa e l’organizzazione dei testi secondo criteri da lui scelti, ma lasciando alle poesie la libertà di parlarsi e di dare esiti inediti. (S.V.)
INTERROGATIVI APERTI
Nel confronto con molte persone, ovviamente anche esterne alla nostra redazione, su questo tuo lavoro, un dato emerso pressoché all'unanimità e che ti riporto con l'immediatezza e il senso provocatorio con cui è stato espresso è questo: i testi dei soggetti con cui normalmente Di Dio collabora e con i quali ha spesso a che fare ci sono tutti, a discapito di molto altro (e, con questo "molto altro", si fa una questione di poesie e non di nomi di autori o autrici). Ti chiedo, mantenendo volutamente questo tono: "il mancante" così inteso è frutto di una non lettura (cosa possibile vista la quantità ingente di pubblicazioni), di un gusto che tende a rimanere ancorato a ciò che piace e si frequenta, a criteri che restano legati alla propria visione personale (chiamata però a diventare paradigmatica di una mappatura cronologica) oppure c'è altro a guidare questo tipo di selezione, fosse anche solo il fatto che l'esclusione, soprattutto se significativa, alimenta i rumors intorno alla pubblicazione e aiuta vendite, dibattito e partecipazione a eventi? (A.C.)
Nella tua antologia i fatti storici, a partire dai grandi eventi che hanno segnato un discrimine nella storia di quegli anni fino ad arrivare ai grandi rivolgimenti sociali e culturali, costituiscono uno spartiacque capace di dividere i vari momenti di quel cinquantennio. Per quanto non si parli mai di una rispondenza esatta tra evento storico e poesia, è indubbio che il contesto e il momento abbiamo un peso sulla scrittura. Quanto secondo te la realtà storica è significativa per comprendere la scrittura poetica di questi anni e quanto, rispetto ad altri momenti della storia moderna, il contesto storico risulta imprescindibile per realizzare un'antologia della poesia contemporanea? (E.A.S.)
In considerazione dell'ormai conclamata assenza di canone nella poesia, omettendo l'interrogativo sul senso di un'operazione antologica e in assenza di un orizzonte estetico condiviso, ti chiedo come si possa immaginare un percorso antologico che si sottragga al debole metro del gusto personale del curatore. (A.P.)
Nell'introduzione dichiari di aver disposto i testi in modo tale da creare un preciso rapporto interno con quello che precede e segue. D'altra parte però, lo sganciamento dalle gabbie generazionali e delle correnti concede anche maggiore libertà ai testi e al lettore di creare associazioni, somiglianze, legami inediti e imprevedibili per il curatore stesso. Credi che una possibile via per il futuro dell'antologia stia proprio in questo suo essere uno spazio dialogico in continua mutazione? (S.V.)
È autore della raccolta di poesie Favole, Transeuropa, 2009, con la prefazione di Mario Benedetti. È stato giurato, per la sezione under 40, del premio letterario Premio Castello di Villalta Poesia, ora Premio Pordenonelegge Poesia ed è giurato nel Premio Franco Fortini. Nel 2014 ha pubblicato il saggio Omologia e totalità, Un percorso sulla nozione di differenza tra la biologia e l’arte di Barnett Newman nella raccolta Prospettive della differenza, Lubrina editore, a cura di Carlo Sini, insieme al quale, dal 2015, è membro del comitato scientifico della laboratorio di filosofia e cultura Mechrì. Nel 2014, esce il suo libro di poesie Tua e di tutti, Lietocolle, in collaborazione con Pordenonelegge, tradotto in francese da Joëlle Gardes per Recours au poème éditeurs. Nel 2015 pubblica la plaquette Per il lavoro del principio, nata all’interno del progetto Le parole necessarie, in collaborazione con Il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna e l’Ospedale Sant’Orsola. Nel 2017 è stata pubblicata in tiratura limitata la breve raccolta Alla fine delle favole, Origini edizioni, Livorno. Nello stesso anno, pubblica il saggio Nel labirinto del ritorno. La parola poetica e il ritmo, nella rivista «Il Pensiero» a cura di Massimo Donà. Per Ibis Edizioni, è stata pubblicata la sua traduzione di La primavera e tutto il resto del poeta americano W.C. Williams. Nel 2018 è tra i fondatori della rivista di poesia e arte Ultima, in cui ha pubblicato la plaquette World Wide Whatsapp crash. Nell’autunno del 2019 ha scritto una Prefazione alla riedizione del libro di Vittorio Sereni, Il musicante di Saint-Merry, edita da il Saggiatore. Nel 2020 sono stati pubblicati due libri di poesia: per l’editore Interlinea, Verso le stelle glaciali e per le Edizioni volatili, la plaquette La favola delle pupille (tradotta in greco da Maria Frangoulis). Nel 2022 esce, per Scalpendi Editore, il libro di poesia Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo. Nel 2023 ha curato un’antologia della poesia italiana degli ultimi cinquant’anni, Poesie dell’Italia contemporanea (Il Saggiatore), e ha pubblicato per Nino Aragno il suo ultimo libro di poesia: Ardore.
Ecco le risposte che Tommaso Di Dio ha gentilmente dato ai nostri interrogativi, continuando il dialogo avviato.
La costruzione del mio lavoro dà sicuramente luogo a distorsioni peculiari e, come ogni lavoro complesso, crea effetti di lettura non del tutto dipendenti dalla mia volontà, sui quali si può naturalmente dissentire, discutere, polemizzare. Un lavoro del genere ha, fra le molte, anche una funzione di reagente atmosferico: creare una nuvola di dubbi, dibattiti, pensieri, provocazioni fa senz’altro parte del suo scopo. Eppure ti devo confessare che, fra le tante possibili, questa accusa sul mio lavoro è quella che più mi ha fatto cascare le braccia: da un lato, perché presuppone di conoscere (meglio di me) chi siano le persone con cui ho e ho avuto a che fare; e, in second’ordine, perché cerca di sbarazzarsi di ciò che emerge da uno sguardo critico, perseguito in anni di letture e di lavoro, semplicemente ipotizzando la malafede del curatore. È il consueto, meschino, argumentum ad hominem. È evidente che anni di assenza di dibattito ci hanno abituati a pensare così e a non accorgercene nemmeno. Facciamo ormai fatica a immaginare un confronto intellettuale sui metodi, sui risultati e sulle intenzioni e siamo abituati a schiacciare su fantasiose ragioni personalistiche ogni idea diversa dalla nostra. Chiariamoci: il mio è certamente un lavoro autoriale, ma ho cercato di tenermi molto lontano dai rischi di un monologo. Mi sembra evidente che se avessi voluto esprimere il mio gusto personale e di parte, avrei semplicemente fatto come hanno agito altri curatori di antologie: avrei scelto i dieci\quindici autori a cui voglio bene, che stimo, che mi faceva comodo inserire e, dopo due tre classici ineludibili, avrei inserito loro, magari con l’etichetta “nuovi poeti”. E invece ho provato a lanciare un segnale: tentare un cambio di paradigma che provasse, se non a essere all’altezza dei tempi (non spetta certo a me dirlo), almeno a tenere fermi e operanti alcuni elementi della mia epoca che ritengo ineludibili. Ho cercato di dare vita a un modello alternativo di racconto proprio per fornire uno sguardo complessivo che, pur non abdicando alla responsabilità di una scelta, fosse il più inclusivo possibile e più lontano possibile da partigianerie idiosincratiche, che riunisse le tradizioni disparate del contemporaneo e tenesse conto della radicale democratizzazione del gusto e dell’ampio accesso alla scrittura artistica, così tipico di questo nostro tempo. A questo punto, accusarmi di avere inserito solo coloro con i quali ho avuto interazioni negli ultimi anni significa due cose: o non voler confrontarsi davvero con la proposta intellettuale dietro il volume o semplicemente dire una menzogna. Una terza ipotesi (la stupidità) non la considero nemmeno, per rispetto ai miei detrattori. Mi tocca dunque ribadire l’ovvio. Di molti autori che ho inserito in Poesie dell’Italia contemporanea non avevo nemmeno la mail né conoscevo con chi fossero in rapporto: ho dovuto affidarmi alla casa editrice per informarli della presenza nel volume. Molti invece miei conoscenti, con cui ho relazioni da anni, non sono stati inseriti. E ho ricevuto diversi messaggi – dolorosi ma comprensibili – a cui ho cercato di dare puntuale risposta. Detto questo, è stato ovviamente impossibile leggere tutto e tutti, ma al netto del metodo di composizione del volume (che si trova esplicitato nell’introduzione e approfondito in diversi dialoghi pubblicati in rete: per esempio qui con Roberto Cescon) ogni esclusione è frutto di una scelta, per quanto possibile, consapevole e meditata. Potrebbe essere altrimenti in un lavoro simile? Sinceramente, dopo più di mille pagine, non sento “molto altro” da aggiungere; ciò che sento mancare è quello di cui ho già scritto nell’introduzione: la tradizione dialettale (la cui assenza è il vero vulnus di questo mio lavoro) e la recente tradizione performativa. Ma devo aggiungere un elemento importante. Poiché la mia opera non si concentra sugli autori, ma su scritture esemplari (e in questo senso: non offre un canone, ma un catalogo di possibilità), le esclusioni assumono un significato diverso rispetto ad altre antologie. Non si è trattato per me di escludere dal canone critico un autore, ma sottolineare che, semplicemente, quel tipo di stile di scrittura è più compiutamente rappresentato (o è già stato rappresentato) altrove nel volume. Autori, per esempio, la cui lingua e il cui stile sono molto radicati in una tradizione (lirica, sperimentale, ecc.) sono stati esclusi, perché la loro testualità non apportava significativamente altro a quanto già era stato raccolto nelle pagine precedenti. Siamo così abituati a ragionare per autori che ci è difficile pensare per identità linguistiche: cioè per testi. La centralità dell’autore non è di per sé un male, ma quando tale criterio è assunto in maniera del tutto irriflessa e automatica, così ideologica da non vedere altre possibilità operative, a mio parere diviene un elemento di forte distorsione. Se ha un merito questo mio lavoro, è forse quello di aver messo in luce questo paradosso.
Questa domanda coglie un aspetto centrale del mio lavoro. È qualcosa su cui mi sono a lungo interrogato e sui cui mi interrogo ancora: sarebbe stato bello che si fosse sviluppato un dibattito su questo aspetto (invece che sulle esclusioni), perché penso davvero che questa sia una questione fondamentale. Il rapporto fra storia e poesia è un rapporto sfuggente, cangiante, spesso obliquo e scaleno, mai ovvio. Credo fortemente che ci sia una relazione indubitabile fra le forme artistiche che un’epoca dispiega e gli eventi storici e ideologici che accadono, ma credo anche che non vi sia determinismo fra le prime e i secondi. O meglio: che si possa determinare un legame solo a posteriori, quando un’epoca è finita, transitata oltre un ciclo di comprensione. Nel vivo delle cose, fra storia e forma c’è solo oscurità, un pozzo di tenebre, saturato dall’intuizione e dal vivo sangue dei poeti (come scriveva Agamben in un saggio di qualche anno fa: Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, 2008). Il punto è che le forme della grande poesia accadono in maniera del tutto impronosticabile rispetto a ciò che avviene in un dato tempo. Talmente impronosticabile che il loro tempo è sempre quello opportuno: la poesia appartiene al tempo cairologico, non a quello cronologico. Poesia è figlia di kairos non di chronos. Se così non fosse, la grande poesia sarebbe governabile e deducibile a priori dagli eventi come un algoritmo e invece non funziona così: le poesie di Leopardi furono un’anomalia necessaria, quelle di Mandel’stam e pure quelle di Penna lo furono e così via. Se adesso ci spieghiamo benissimo le relazioni che esse intrattennero con il loro tempo e ci scriviamo libri sopra, al momento del loro presente furono, spesso, uno scandalo, una stortura, oppure una grazia del tutto inaspettata. Ogni grande poesia è radicalmente indeterminata e, anzi, spesso nasce e si afferma proprio per sovvertire una certa ideologia che circola in una data epoca: per farne il controcanto. Questo non significa che ogni poesia sia assoluta, anzi: ogni poesia traccia una propria peculiare storia di ascendenze e genealogie, ma una grande poesia attualizza le proprie radici in una maniera di cui è possibile trovare una ragione solo nel tempo del prima e del poi. Proprio per seguire questa intuizione, Poesie dell’Italia contemporanea non segue un andamento deduttivo: non c’è una tesi storica e poi i testi che la confermerebbero. Ho lavorato proprio al contrario, in maniera radicalmente induttiva: prima ho costruito le sequenze di testi, dando ascolto soltanto alla lingua della poesia e al suo tessuto, poi ho costruito le narrazioni storiche che precedono i decenni, cercando quegli eventi (e solo quelli) che mi parevano essenziali per comprendere le poesie (e solo quelle) che avevo scelto. È per me fondamentale che resti una distanza fra la narrazione e i testi: chi legge deve immaginare una connessione fra storia e testi, ma non deve averla già formata e pronta. Insomma, non ho voluto proporre una pedagogia della letteratura né della storia, ma semmai, secondo l’influsso del pensiero di Walter Benjamin, una «costellazioni di risvegli». Nella mia idea, la poesia non è mai il poggiapiedi che dimostrerebbe la storicità di una serie di fatti. Proprio per questo, nel racconto che apre l’ultimo decennio, ho deciso di non fare riferimento a nessun evento in particolare: da un lato mi sento troppo vicino al mio tempo per raccontarlo, dall’altro gli eventi dei primi anni Dieci del Duemila non hanno ancora smesso di operare.
Beh, è esattamente quanto ho provato a fare in Poesie dell’Italia contemporanea. Ma certo c’è bisogno di lettori curiosi, che siano vigili e vogliano confrontarsi davvero con una ipotesi alternativa da quella che avrebbero voluto e potuto fare loro. Insomma, lettori che cerchino in un’opera una relazione e non una soluzione. Non so se riesco a spiegarmi. Potrei chiudere qui la risposta alla tua domanda, ma sento la necessità di aggiungere una riflessione per i lettori che stanno seguendo questo ragionamento. Una volta esaurito il mito dell’oggettività a cui fai riferimento, dobbiamo anche procedere oltre e decostruire il facile mito della soggettività. È molto ingenuo pensare di sostituire semplicemente uno con l’altro. È tipico del nostro tempo credere che il “metro del curatore” sia sempre e soltanto una fuga nella singolarità più spericolata. Viviamo in un’epoca di narcisismo imperante e ciò che sappiamo meno pensare sono proprio le relazioni fra soggetti. Il curatore, come ogni soggettività, non è un monolite impermeabile: è un composto, un amalgama nutrito di confronti, di dialoghi, ricco di zone di alterità. La soggettività – se non si vuole restare ancorati a una visione anacronistica – è anch’essa insomma una costruzione, una somma di relazioni. È ciò che ho provato a mostrare con le scelte del mio lavoro, che per larga parte dipendono dal dialogo, dall’ascolto, dal confronto decennale con altre opere e altri autori e critici del panorama poetico italiano. Faccio un esempio: in questi anni ho chiesto a tanti diversi autori di dirmi quali fossero i loro libri fondamentali. Più erano lontani dal mio gusto, più li ascoltavo e mi confrontavo con le loro indicazioni. Le loro risposte mi hanno stupito: non sempre le ho seguite, ma la loro presenza latente mi ha senz’altro guidato nella composizione del volume. Ho cercato di tenere sempre conto che in Italia ci sono lettori molto diversi, ci sono tradizioni diverse: si fanno poesie divergenti le une dalle altre. Hai usato l’espressione “debole metro del curatore” in un modo che sembra denigratoria, ma è solo perché abbiamo il mito ideologico della forza: per anni fare critica ha significato esercitare un gesto “muscolare”. Rivendico un’ipotesi alternativa: un “debole metro” è anche quello capace di essere flessibile, poroso, dialogico, ma così consapevole di sé da non ambire mai di diventare trasparente.
Penso di sì: quella a cui accenni è un’ idea interessante. Uno degli obiettivi più ambiziosi di questo lavoro è quello di creare un’atmosfera ermeneutica che spronasse il lettore a lavorare attraverso i testi per comprendere quali fossero le ragioni di un accostamento. Non volevo che Poesie dell’Italia contemporanea fosse solo un libro per apprendere una serie di informazioni (un manuale), ma che fosse un libro anche per fare, per trovare, per esercitarsi. Alcune direzioni sono state suggerite nella parte finale del volume (la sezione intitolata Percorsi, intrecci), che offre alcuni esempi di come si possa leggere senza il vincolo della cronologia, ma il grosso del lavoro è lasciato nelle mani del lettore. Ho cercato di non trattarlo come qualcuno per cui fosse necessario dare sempre tutte le coordinate perché comprenda un testo (l’idea del critico-pedagogo e del lettore-studente), ma invece come colui che è chiamato a compiere da sé, con tutto ciò che sa e non sa, un’esperienza di immersione interpretativa. Mi sono chiesto: quando è successo che abbiamo iniziato a pensare che il lettore di una poesia contemporanea necessiti sempre di un commento, di un’introduzione, di una mano che lo guidi a uscire dall’infanzia? Possiamo concepire la lettura di poesia anche come un incontro fra adulti consapevoli, senza schermi preconfezionati e senza corsie di emergenza? La sequenza delle poesie si pone proprio come occasione di un lavoro ermeneutico, come tabula mirifica o spartito musicale di un’attività da compiere, da immaginare, da reinventare. Il mio approccio è stato quello di fidarmi del lettore, delle sue capacità, della sua curiosità, delle sue facoltà: della sua inventiva. A monte c’è l’idea che nella poesia non esistano risposte giuste e risposte sbagliate (l’esperienza di un testo di poesia non è omogenea a quella di un manuale di storia di letteratura), ma che il testo poetico sia una sorta di “macchina per enigmi”: un dispositivo verbale atto a suscitare interpretazioni possibili. Mi piace pensare che le poesie si trasformino nelle mani dei lettori e diventino ciò che stanno cercando che esse siano, ma che nondimeno fra loro scorrano sottili trame tematiche e formali. Per fare questo, mi sono ispirato al lavoro di Aby Warburg e in particolare al suo progetto Bilderatlas Mnemosyne (1929). Ho cercato di concepire ciascun testo come fosse portatore di un’energia, una Pathosformel o direzione emotiva implicita nella forma e nelle scelte sintattiche e lessicali di cui erano intessuti; li ho avvicinati uno all’altro, cercando di generare effetti di antitesi o di somiglianza, anche e soprattutto fra autori di generazioni diverse, proprio per marcare come questo principio oppositivo o generativo sia particolarmente utile per leggere la poesia come fenomeno di continuità nel tempo e non di eroica e solitaria originalità. Il meccanismo credo che abbia funzionato: diversi lettori mi hanno scritto per indicarmi ciò che secondo loro lega alcuni testi e per raccontarmi le ragioni che hanno trovato e che spesso, per fortuna, non sono quelle a cui avevo pensato. È proprio ciò che avrei voluto che accadesse. Sarei molto felice se poi il libro fosse di ispirazione per la scrittura, di altri poeti o critici; che insomma diventasse un corpus-matrice per lavori possibili, una sorta di piccola miniera per scrittori. Ti faccio un esempio, che è uno dei diversi Easter eggs nascosti fra le pagine: ci sono tre poesie, di autori e tempi molto diversi fra loro, che offrono una riscrittura della figura di Orfeo e della sua discesa agli inferi. Avrei potuto scriverlo fra i percorsi alla fine del volume, segnalare questo ennesimo elemento di continuità; invece ho pensato che non fosse più compito mio: che fosse qualcosa che un lettore potesse trovare da sé, addentrandosi nel libro, e di cui magari un giorno avrà voglia di scrivere. Ecco, Poesie dell’Italia contemporanea è disseminato di questi spunti nascosti che vorrei attivassero il desiderio del lettore, lo risvegliassero, lo spronassero a lavorare con la poesia, a scriverla e a scriverne. Ma non ho mai pensato che la particolare costruzione del mio volume potesse diventare canonica o che potesse segnare l’obsolescenza di forme alternative. Sinceramente, penso che ogni costruzione antologica, fatta con senno e dedizione, offra spunti interessanti di lettura e provoca gli effetti che provoca: solo nella stereometria degli approcci e nella moltiplicazione degli effetti si può guadagnare uno sguardo che non sia mai automatico né convenzionale. In questo, è necessario anche secondo me fare la pace con l’ansia del canone e iniziare a pensare un mondo della poesia radicalmente policentrico. Ci sono molteplici vie e tradizioni che fra loro si intrecciano, si ibridano e camminano non sempre coese, eppure dando risalto a una miriade di possibilità diverse; il punto è volerlo vedere, non censurare questa dimensione, innanzitutto per sé stessi: desiderare che ci sia questa molteplicità e anche l’inizio di un percorso per diventare capaci di goderne. Mi sembra invece ci sia nell’aria un desiderio opposto: un’ansia controriformistica che rimpiange la monocrazia di una volta, di un Novecento ordinato e chiaro, mai esistito se non nei volumi degli storici; è una paura nostalgica che si trasforma nella ricerca di una conferma del proprio gusto e della propria supposta identità: vogliamo sempre vedere nell’altro la conferma di ciò che siamo. È proprio quello contro cui ho provato a lavorare in Poesie dell’Italia contemporanea. Volevo dare vita a una esplosione viva e anti-monumentale della poesia, che disinnescasse le facili categorie e imponesse uno sguardo attivo, critico e – come dici tu – dialogico. Spero di esserci riuscito.
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