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  • Immagine del redattoreBarbara Herzog

I Ponti di Alma: Teresa Wilms Montt

Wilms Montt irrompe un secolo più tardi con immutata risolutezza.

Sua è una delicata maestria, oltremodo dolente quanto estatica, nel trasformare mancanze indicibili in immagini tangibili e nel dare accezioni primordiali, cosmiche alle sensazioni umane.

La natura oltrepassa in lei la metafora, divenendo con le chiome sciolte dei salici piangenti, le ombre che fuggendo si ingigantiscono e la danza sulle onde come la luce, imprescindibile personificazione nella sua vastità. Adora i toni violacei e le cangianti luci della sera, perché vestono la terra di un languore ammalato di intensità, e questa atmosfera crepuscolare accompagna tutta la raccolta.

La sua scrittura è venata di una spiritualità intima e sofferta, che nasce dallo scetticismo del suo momento storico, quanto dall’agnosticismo imposto dalla posizione escatologica davanti a situazioni limite come la perdita delle figlie - nella culla delle mie braccia, ancora tiepide della vita di lei, “la piccolina”, si rifugia ora la congelata forma della separazione - ed il suicidio dell’amante.

Si muove tra Eros e Thanatos/macabrismo, dove al macabro viene contrapposta una sensualità che a volte sfocia in erotismo, nel tentativo vano di recuperare, rivendicare l’amore abortito dalla morte, proprio anche tramite elementi desacralizzanti della stessa.

Con sottile ironia e profondità umana ampia indaga la fugacità della vita, dei suoi stessi brevi istanti, contrapponendo vita-amore a morte-dolore, quanto riconoscendo nella morte un possibile – auspicato – riscatto dal dolore.

Apre il suo libro con un testo in cui allude ad uno strano malessere che la incita a vivere dentro ad un altro cuore, per riposare dall’arduo compito di vivere dentro me stessa, dove brama che la manina di una bambina si posi sopra le mie palpebre e come la luce della lampada sopra le cose, sparsa in ombre delicate e tremolanti, vorrebbe morire.

Lo conclude dichiarando la sua fame di sublimità, di illimitato spazio, dove vorrebbe vagare la mia anima, senza trovare né cercare spiegazioni, e con una doppia invocazione, palesemente inesaudibile; una alla vita – Se la mia anima fosse tanto potente da dominarti e farti schiava della mia volontà – e l’altra al suo cuore – Se ti potessi tenere dentro al mio petto solo come macchina necessaria per l’organismo!


Questa traduzione è basata sui testi pubblicati in Teresa Wilms Montt, Obras completas, ed. Renacimiento, Seviglia, Spagna, 2023; lo studio della sua poetica e vita invece sulla biografia scritta da Ruth González-Vergara Teresa Wilms Montt: Un canto de libertad, Santiago, Cile, ed. Grijalbo, 1993.

I testi qui proposti provengono dalla traduzione completa del libro di Wilms Montt. Ho cercato volutamente di renderla abbastanza letterale; non ho quindi attualizzato le modalità desuete, né spaziato oltre il dovuto, e talvolta indispensabile, nella trasposizione delle singole scelte lessicali della poetessa. Pur lasciando la poesia sempre posto per interpretazioni personali, e spero ne verranno altre sul tema, essendo questa la prima traduzione di uno dei libri di Teresa Wilms Montt in italiano, un profondo senso del rispetto ha trattenuto ogni guizzo di fantasia ulteriore mio. Spero che chi legge comprenda tale scelta linguistica, deontologica, storica.



Teresa Wilms Montt, Alma Poesia


XXIX


Descorro la cortina del pasado y recuerdo...

Está enferma; está con fiebre y delira.

Su manito ardiente, abandonada sobre la mía, tiene la dulce confianza de un pájaro en su nido.

El cuerpecito dolorido sufre los temblores de una hoja al viento.

Nada quiere. Sus ojos azules, como dos milagros del cielo, miran lejos, olvidados del mundo exterior; están tal vez en el lecho de los zafiros, lugar donde nacieron.

Ha desparramado sobre su camita todas mis ternuras, que la han cubierto con una tibieza de sollozo.

Ahora me mira, y su mirada de ensueño tiene la claridad celeste de la emoción.

Esos ojos poderosos elevan mi alma, desde el fondo de su amargura a la superficie de la vida; de la vida que no quiero, de la vida que desprecio.

«Aquí estoy, me dicen; vive para mí».

No escuché esa sublime exhortación, y perdí para siempre esos ojos que suavízaban mi alma, como el vendaje amortigua el ardor de la llaga.

Pasa la vida, mí vida trunca de fantoche pordiosero de amor: y ella, la críatura divina, arrancada de mis brazos por la garra feroz del destino, ignora mi dolor.

Ella también sufre sin saberlo, porque el duelo hace del más grande amor una sombra invisible y helada en su corazón.

Dos palabras, las más enormes que ha creado el lenguaje, podrían unirnos; pero nadie las pronunciará porque la indiferencia ha enmudecido los corazones. Ella y yo, separadas por el mundo y unidas por el sublime amor del alma, moriremos aguardando piedad.

-

Apro il sipario sul passato e ricordo…

È ammalata; ha la febbre e delira.

La sua manina, abbandonata sopra la mia, ha la dolce fiducia di un uccello nel suo nido.

Il corpicino dolorante subisce i tremori di una foglia nel vento.

Non desidera nulla. I suoi occhi azzurri, come due miracoli del cielo, guardano lontano, dimentichi del mondo esterno; forse stanno nel letto degli zaffiri, il luogo dove sono nati.

Sparse sul suo lettino ha tutte le mie tenerezze, che l’hanno coperta con un tepore da pianto.

Ora mi guarda, e il suo sguardo trasognato ha la chiarezza celeste dell’emozione.

Quegli occhi potenti innalzano la mia anima, dal fondo della sua amarezza alla superficie della vita; della vita che non desidero, della vita che disprezzo.

“Eccomi qui, mi dicono, vivi per me”.

Non ho ascoltato quella sublime esortazione, ed ho perso per sempre quegli occhi che mi ammorbidivano l’anima, come le bende attenuano il bruciore della piaga.

Passa la vita, la mia vita tronca di fantoccio mendicante di amore: e lei, la creatura divina, strappata dalle mie braccia dall’artiglio feroce del destino, non sa del mio dolore.

Anche lei soffre senza saperlo, perché il lutto rende il più grande amore un’ombra invisibile e congelata nel suo cuore.

Due parole, le più enormi che abbia creato il linguaggio, potrebbero unirci; ma nessuno le pronuncerà perché l’indifferenza ha reso muti i cuori. Lei ed io, separate dal mondo ed unite dal sublime amore dell’anima, moriremo aspettando pietà.


XXXVI


Rompe su armonía pálida la luna en los pilares del largo corredor.

La sombra de mi cuerpo corre a mi lado y lleva mi inquietud.

Ambas buscamos el refugio de unos brazos; y en la soledad inmensa, ambas enfermas de amor, escrutamos la noche en espera del amado.

Las rosas blancas caen en la verja formando tálamos nupciales; los lirios de la pradera me ofrecen un lecho inmaculado.

Hay en el ambiente una inquietud erótica, y en todo el jardín un deseo cálido de posesión.

Los pájaros nostálgicos gimen por la ausencia de los amores muertos, mientras la fuente cristalina entrega al viento su canto de pasión.

Grito y me asusta el eco de mi voz; es un eco que viene del fondo de mí misma; un eco torturado espasmódico: el eco dolorido de un ser que nunca ha logrado saciar la sed de amor que lo devora.

He gritado, como aúlla la fiera, a las montañas, en una explosión de sentimentalismo que ella misma no comprende.

Anuarí, ¿dónde estás?

¿No oyes la oración fervorosa que te dirige mi alma, al borde de su propio abismo?

Tú, que eres el genio del bien, ¿por qué no dulcificas mi dolor?

Los lirios nos aguardan, recostadas una en otra las satinadas cabecitas, y la noche espera tu llegada para correr los tules diamantinos de su inmenso pabellón.

Anuarí, la naturaleza eleva un himno magistral de amor.

-

La luna rompe la sua pallida armonia sulle colonne del lungo corridoio.

L’ombra del mio corpo scorre al mio fianco ed ha la mia irrequietezza.

Entrambe cerchiamo il rifugio di braccia; e nella solitudine immensa, entrambe malate d’amore, scrutiamo la notte in attesa dell’amato.

Le rose bianche cadono sulla ringhiera creando talami nuziali; i gigli del prato mi offrono un letto immacolato.

C’è nell’atmosfera un’irrequietezza erotica, e in tutto il giardino un caldo desiderio di possedere.

Gli uccelli nostalgici gemono per la mancanza degli amori morti, intanto che la sorgente cristallina consegna al vento il suo canto di passione.

Urlo e mi spaventa l’eco della mia voce; è un’eco che proviene dal mio profondo; un’eco tormentata spasmodica: un’eco addolorata di un essere che non è mai riuscito a saziare la sete di amore che lo divora.

Ho urlato, come ulula la bestia, alle montagne, in un’esplosione di sentimentalità che lei stessa non capisce.

Anuarí, dove sei?

Non senti la fervida preghiera che la mia anima ti rivolge, dall’orlo del suo stesso abisso?

Tu, che sei il genio del bene, perché non addolcisci il mio dolore?

I gigli ci attendono, le setose testoline adagiate l’una dentro l’altra, e la notte aspetta il tuo arrivo per scorrere i tulle diamantini del suo immenso padiglione.

Anuarí, la natura leva un inno magistrale di amore.








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