Nota di lettura a "Nel tremore degli anni" di Filippo Ravizza
Le ventinove liriche che danno corpo a Nel tremore degli anni di Filippo Ravizza (Puntoacapo editrice, 2020) riflettono l’inesorabile fluire dei giorni, il senso del tempo che fugge e se ne va. E che andandosene, proprio inseguendo il suo irrimediabile destino, fa tremare le vene ai polsi. E le fa tremare perché ciò che si lascia, i giorni trascorsi nell’infanzia o negli anni della giovinezza restano nel cuore cavo del passato. Di quel passato che, se non ricordato, rischia di finire nel nulla. E allora bisogna tornare a quei giorni; bisogna tornare alla Milano dell’infanzia quando nella mano del padre il figlio imparava la vita:
quel rispetto quell’ordine
milanese mi insegnavi padre io bambino
correvo avanti e indietro avanti e indietro
cercavo di capire la vita ma sapevo
di non essere solo mi sapevo forte
mi sapevo vero entrando e uscendo
con la mia mano dalla tua mano.
Il tempo di cui ci parla Ravizza scorre senza sosta e fa tremare. Vibra nei secondi, si insinua fra le pieghe della realtà, riecheggia e si espande. E il tremolio si fa paura, timore. Timore di smarrirsi, di non ritrovarsi o di non sapere più chi si è, soprattutto se la vita diventa un incedere costante verso il nulla.
È il nulla eterno ciò che inquieta l’animo del poeta. Non c’è destino, non c’è senso che tenga. Pertanto in vita si può solo resistere stoicamente. Perché niente ci salva, nulla ci potrà consentire di acquisire e mantenere la felicità.
Resta però in Ravizza anche la convinzione – se vogliamo contraddittoria – che nonostante l’insignificanza radicale del mondo e dell’esistenza, tuttavia resti qualcosa di luminoso, di vivo. E questo qualcosa è l’amore. Quell’amore che gioca un ruolo fondamentale nell’esistenza. Perché ognuno di noi nasce da un atto d’amore. Ognuno di noi è frutto di un legame generativo che intende guardare al futuro con fiducia:
Ecco finiranno tutti gli affanni
sorrideremo toccandoci chissà
se mai saremo migliori di prima
prima di te coronavirus sorridenti
corrono i bambini della terra:
è loro, non tuo, loro è il futuro,
loro sarà la giustizia, per loro
verrà finalmente l’uguaglianza
vera la sincera passione della
appartenenza una comune
dimensione umana.
La memoria del passato e il tempo perdono a lungo andare la loro forza distruttiva. Il non-senso resiste, ma i sogni, i ricordi, la rappresentazione dei tempi andati aiutano a vivere il presente, spingendo un po’ più lontano, ai confini dell’universo, quel vorace nulla, sempre pronto a ingurgitare tutto.
Filippo Ravizza, nato a Milano, dove risiede, nel 1951, è poeta e critico e ha pubblicato saggi e poesie su varie riviste letterarie, tra le quali «In folio», «L'ozio letterario», «Materia», «Poesia», «La corte», «Quaderno», «La Clessidra», «Induna», «Atelier». È stato uno dei direttori del quadrimestrale di poesia «Schema» e uno dei fondatori, nel 1988, del semestrale di scrittura, pensiero e poesia «Margo», di cui poi è stato direttore. Ha pubblicato nel 1987 il volume Le porte e, nel 1995, Vesti nel pomeriggio, uscito nella collana «Collezioni di poesia» dell'editore Campanotto. È stato direttore artistico delle due edizioni (1995 e 1996) del Festival Nazionale di Poesia di Induno Olona e Varese dove, nel 1995, insieme a Franco Manzoni ha presentato il «primo» Manifesto in difesa della lingua italiana. Insieme ad altri cinque autori è stato scelto a rappresentare la poesia italiana contemporanea alla XIX Esposizione Internazionale della Triennale di Milano (1996). Giornalista, ha lavorato dal 1979 al 1986 presso la redazione milanese del quotidiano «la Repubblica», occupandosi specificatamente di poesia, letteratura e della cronaca culturale cittadina. Per il settimanale«Il Mondo» è stato critico teatrale.
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