«Gli altri tramutati altri»: recensione a "Estranea (Canzone)" di Maria Pia Quintavalla
Se basta una parola per descrivere un’opera, allora quella da assegnare all’opera di Maria Pia Quintavalla edita da Puntoacapo, in un’edizione riveduta e ampliata nel 2022 rispetto alla prima del 2000, è di una semplicità disarmante: canzone. Non è un caso che sia proprio questa la parola ad aver attirato la mia attenzione, in questi mesi in cui la mia finestra sul mondo – i social, naturalmente – non fa altro che restituirmi voci da una terra allagata, canti che spaccano il fango e mani che si tendono dai balconi. Non è un caso dicevo, perché sono questi tutti elementi che nella poesia di Quintavalla prendono vita. Definire “canzone” la sua opera è dunque troppo semplice, disarmante riconoscerne l’attualità del verso.
Semplice perché la parola se ne sta sorniona già sulla copertina del libro, disarmante perché cos’altro dovrebbe essere la poesia se non una canzone che si sforza di tenere il ritmo del tempo che scorre? È messa tra parentesi però questa parola ed ecco perché questa recensione supererà la misura di quattro righe e proverà a percorrere lo spazio che separa il termine “estranea”, il primo del titolo dell’opera, dal termine “canzone”, incuneandosi tra due parentesi.
Dieci canti per comporre un’intera canzone che porta questo aggettivo – estranea – e tutto ha inizio da un fluire: «è nello spirito nell’onda / tiepida e veloce ma contenta, nel / tempo del risveglio che continua». Onde, sabbia ma, aggiunge la poetessa, anche futuro: così subito il tempo di oggi si configura nella lingua poetica di Quintavalla, che ne diventa mimesi capace di ipotizzare un domani. Ai cambiamenti ci stiamo abituando sempre più: ci scorrono addosso come l’acqua sulle terre martoriate della Romagna, ci affogano nei loro turbini e servono appigli perché questo cambiamento di stato non coinvolga tutto ciò che di noi resta. La poesia di Quintavalla a questo scorrere si adatta ma anche resiste, per sopravvivere a quello che è uno scorrere da una dimensione all’altra, come spiega lei stessa nelle note che accompagnano l’opera: «un’onda, che diventerà foco, poi scintilla».
In questi dieci canti la ricerca dell’appiglio cui fissarsi per comprendere e resistere al trascorrere delle epoche è costante. Ma non è una ricerca solitaria. Anzi, l’azione che sospinge la voce della poetessa è collettiva e l’azione collettiva è la descrizione più coerente, anche se vaga, che possa essere attribuita a un coro. Un coro in fondo, come i tragici greci hanno insegnato, è una collettività artistica in cui un’altra collettività sociale si specchia, una voce formata di tante voci che si innalzano come segno di partecipazione attiva a ciò che accade. Sulla scena e nella vita. «Un coro cupo, sommerso, e pur sempre risolto in una voce, anzi in un “canto” impedito ma tenace» è la descrizione che offre a sua volta Andrea Zanzotto alla poetica di Quintavalla, in una nota scritta per la prima edizione dell’opera nel 2000.
Eppure, la canzone di Quintavalla, sia pure corale, è “estranea”, come il titolo preannuncia. Non è banale la precisazione sapientemente inserita a cappello dell’intera opera, perché l’inganno potrebbe essere dei peggiori: a chi appartengono queste voci e questi canti? Chi invece nel gruppo muove la bocca senza emettere suoni? Il dubbio è legittimo «[…] Perché la vita in versi / non funzionava non usciva / ben spiegata dalla sua (nuova) / gola. Perché invano canticchiava». Ecco perché, dice Quintavalla, ad altri poeti si è dovuta rivolgere per adempiere a una missione che a lei sola sarebbe apparsa insormontabile: i poeti coevi, che viaggiano a cavallo della fine di un secolo, possono essere d’aiuto per provare a cercare una voce che sappia intonare un canto consono tanto al secolo che se ne va, ma soprattutto a quello che viene. “Consone canzoni”. Ancora una volta, un appiglio nella corrente.
E ancora: perché cantare questo nuovo mondo proprio in poesia e proprio con questo modo di fare poesia? Sono anacoluti e metafore gli strumenti linguistici scelti da Quintavalla, le emozioni coltivate invece le ha ben individuate Zanzotto: «scompiglio e sorpresa». Scompiglio perché la parola setaccia la vita, illuminandone ora questo dettaglio, ora questa azione, ma anche sorpresa perché la gioia con cui si dispiega il canto di Quintavalla è essenza palpabile del suo fare poesia. Lo sforzo – che è poetico, quindi linguistico e metaforico – del raccontare una nuova epoca assume un sapore assolutamente inedito per il lettore di oggi che non solo prova la poesia di Quintavalla al banco della storia, ma che è conscio di avere la poetessa al proprio fianco nel farlo in questa edizione riveduta e ampliata, a distanza di più di vent’anni, alla luce dell’oggi. Anche oggi i versi si ingorgano l’uno sull’altro, nella violenza di un ritmo che è primordiale e quindi sempre attuale e ci rivela l’impensabile: la corrente scorre su un letto che tutto sopporta, che tutto lascia passare, ma che pure non scompare.
Ma lo scorrere dei secoli e delle epoche arriva come un’onda su quel letto di fiume: è liquido salato e la gola riarsa fatica a esprimerlo, quasi annaspa. Se anche questa – costruita su metonimie, rebus, allegorie – fosse la canzone, chi può cantarla? La disperazione che sorge insieme alla domanda è la stessa degli uomini vuoti di Thomas Stearns Eliot: «We are the hollow men / We are the stuffed men / Leaning together / Headpiece filled with straw. Alas! / Our dried voices, when / We whisper together / Are quiet and meaningless / As wind in dry grass». Voci secche, gola affaticata, una poesia che arranca per sopraelevarsi e scorgere il senso di questo mondo che si muove sinuoso, nello spirito del Tempo che avanza. Ma c’è un elemento che accomuna tanto gli Hollow men di Eliot quanto i versi di Quintavalla, ed è ancora una volta la coralità. «Together» gli uni, una «aggregazione comunitaria, misteriose sorellanze» le altre, secondo l’interpretazione che dell’opera offre Zanzotto.
Questi altri emergono con forza soprattutto nel terzo canto quando «cantando quelle fila, quei balconi / si popolavano quieti (e sconosciuti) / nella notte muta di fianchi e / luci e di quei borghi e strade / tutta una lucciolata ne venivano». È dal contatto con le loro voci, con le loro vite («molte ochieggianti vite, / mani che si tendevano, giancarlo e / così tante. Così da nulla attratte, a tutti») che nasce la poesia di Quintavalla: una catena di mani che si stringono agli avambracci, che sollevano altre gambe, che agitano le mani per farsi spazio nell’acqua che tutto travolge. Quintavalla, nota Marisa Bulgheroni rileggendo l’ “Estranea (canzone)”, «negli anni tra la prima guerra del Golfo e le guerre jugoslave, ci si presenta con l’urgenza di un profetico manifesto di poetica che si interroga sul destino della poesia e, a ogni pagina, battezza una lingua nuova, aperta al flusso temporale, agli scarti, ai vuoti, agli strappi del divenire storico». Chi legge oggi invece lo fa negli anni dell’invasione della Russia in Ucraina, mentre ancora ci lecchiamo le ferite della più grande pandemia dopo la spagnola, nel bel mezzo di un cambiamento climatico che accade sotto i nostri occhi. E ancora “Estranea (canzone)” risponde a queste urgenze con una lingua di neologismi che provano a combaciare con gli angoli sempre più spigolosi di un mondo che vorrebbe distruggere tutto. Ma la poesia di Quintavalla resiste. Lo ha fatto per più di vent’anni e ora invita a farlo chi la legge. Lo ha fatto, sottolinea Bulgheroni, «accettando la sfida delle mutazioni informatiche e delle comunicazioni globali», ci invita a farlo cercando sul fondale un luogo dove piantare bene i piedi, per stringere la mano dell’altro nella corrente. E insieme cantare. L’estraneità di cui si tingono questi versi è propria di chi dall’esilio urla per tornare, per riconquistare, di chi ha conosciuto l’altrove ed è tornato per raccontarlo: «visionaria certezza che nel canto la parola non rinasce dalla volontà o dall’arbitrio, ma da se stessa come la fenice».
«E sola, (la vita sola) ricca di nuovo / solforata e stabile / (stagione) di campi e piane, di / mercati e bestie, modi che / a dirsi nuove, padanamente / assise intorno a centro piazza / acuta memoria e annuvolata» recita l’excipit del poema e qui, la voce di Quintavalla, più che in ogni altra pagina, si staglia con forza sopra al coro entro cui canta. L’onda che è stata scintilla sfociata poi in fuoco, è tornata a essere mare. Un mare di riconciliazione, dove la corrente culla e non trascina, dove la boa segna la posizione e rassicura. La trasformazione è in qualche modo avvenuta – la fanciulla è divenuta donna – ma il suo movimento resta come eterno riverbero che raggiungerà altri lidi, per ricominciare a cantare daccapo. L’onda non può fermarsi, per quante guerre si interpongano, per quanto il presente chieda voce in capitolo, la lingua nuova, che la poesia offre estraniandosi da queste urgenze perché capace di sprofondare per riemergere, è canzone che ricongiunge i disperati, che stringe in abbraccio i silenziosi e restituisce dignità ai muti. Sono loro gli altri per cui Quintavalla scrive, estranea quindi a un mondo che la vorrebbe indifferente: «Agli invisibili, fratelli e sorelle di generazione, che non presero la parola». Loro ancora oggi e ancora oggi noi siamo invitati a prenderci per mano nell’acqua e nel fango, nel fuoco per cantare.
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