Nota di lettura a "Mio cuore. Poesie scelte" di John Keats
Tradurre è un tra-dire o altrimenti-dire in altre parole. È un dire come atto d’amore destinato al fallimento, perché ciò che si deve dire, ciò che un poeta sente di dover dire, non può esser detto diversamente da come lo dice: dalla lingua in cui lo dice. Tuttavia, per quanto l’atto del tradurre sia folle e disperato, non se ne può fare a meno. E lo sa bene Luca Alvino che ci propone una sua splendida versione italiana di John Keats nel volume Mio cuore. Poesie scelte (Interno Poesia 2023). E la propone con la precisione e la maestria di chi ha speso molto tempo a scavare senso e parole fino al fondo.
Ci sono, nella vita di un uomo, poesie e poeti che diventano una dolce persecuzione. E non è facile resistere alla tentazione di venire alle mani con questi autori amati, di tradurli e trascinarli dalla lingua originaria in un’altra. E giustamente Alvino nota come questa morbosa tentazione di appropriarsi di un autore sia una «malattia» esclusiva della letteratura. Perché non hanno certo bisogno di traduzione la musica, la pittura, l’architettura, la fotografia o la scultura. Si tratta lì di linguaggi universali che chiunque può gustare a prescindere dalla sua lingua di appartenenza. È chiaro che l’arte in generale può essere compresa solo se se ne conoscono i codici. Ciononostante, quei codici non dipendono da una lingua definita, ma sono più generali, e si possono acquisire indipendentemente dal paese in cui ci si trova.
Per la letteratura, invece, e la poesia in particolare, è necessario abitare con una certa agilità la lingua originale dell’autore che si intende tradurre e tra-dire. Perché solo l’originale conserva i suoni, il ritmo, le assonanze, che possono essere rese molto difficilmente in un’altra lingua.
Il lavoro di traghettamento (in questo consiste la traduzione: nel traghettare una voce da una terra a un’altra) compiuto da Alvino è davvero raffinato. Con maestria poetica compie uno splendido delitto. Dal momento che il Keats inglese non può sopravvivere al Keats italiano. Il primo deve morire: e del suo sangue si ciba il secondo.
Nella versione edita da Interno Poesia, Alvino ci consegna una raccolta in endecasillabi di non facile lettura, tanto che per orientarsi si è costretti a tornare sui versi più e più volte. Keats – per dirla con Alvino – «è uno di quei poeti che deve essere letto sul libro, non può essere ascoltato». Le sue frasi sono ampie, ariose, si dilatano ben oltre la misura del singolo verso, e si espandono come le onde provocate da un sasso gettato in uno stagno. C’è bisogno, quindi, di rileggere i versi con attenzione, di tornare indietro, di scovare il soggetto dei verbi, il senso lineare della frase. Perché i periodi si articolano in grovigli splendenti, in numerose coordinate e secondarie centrifughe. E a quel punto, preso nel mezzo di una tempesta di parole, il lettore potrebbe davvero rischiare di perdersi. La sua unica ancora di salvataggio è la punteggiatura, che apre e chiude queste mirabolanti circonvoluzioni del pensiero che ci consentono di scorgere la potente vibrazione della poesia di Keats.
Ode ad Apollo
O Dio dall’arco e dalla lira d’oro,
son d’oro i tuoi capelli e d’oro il fuoco,
auriga che percorri con pazienza
il lungo anno, come mai s’è spento
lo sdegno tuo, quando la tua corona
mi misi sopra il capo – che imbecille! –
l’alloro, la tua gloria,
luce della tua storia,
forse ero solo un verme repellente,
che neanche meritava di morire,
Delfico Apollo?
Stringeva nel suo pugno la saetta
il Tonante, e severo mi guardava,
per lo sdegno le piume si rizzarono
sopra il capo dell’aquila – ed il suono
del tuono roboante ammutolì,
malcontento per esser trascurato,
ma come hai tu potuto aver pietà,
ed implorare solo per un verme?
Dimmi, perché toccasti il dolce liuto
fino a quando rimase il tuono muto?
E perché come un microbo patetico
schiacciato io non fui?
Delfico Apollo!
Vegliavano nell’aria silenziosa
le Pleiadi; ed i semi e le radici
sepolti nella terra preparavano
il cibo dell’estate;
accanto a lei l’Oceano al suo travaglio
intento era, quando chi – chi ha osato
per un istante cingere il suo capo
con la tua pianta, e ridere e vantarsi,
gridando a voce alta blasfemie,
vivere in quell’onore e poi inchinarsi
ora davanti a te?
Delfico Apollo!
‘O Solitudine! Se dimorare’
O solitudine! Se dimorare
io devo insieme a te, non far che sia
nel cumulo confuso di edifici
oscuri; sali insieme a me il pendio –
da cui si può ammirare la Natura –
lì sopra la vallata, e i suoi fioriti
declivi, con la piena di cristallo
del fiume, ti potrebbero sembrare
in tutto non più grandi d’una spanna;
fa che con te io vegli in mezzo al folto
dei rami, ove del cervo il balzo rapido
l’ape selvaggia fa scappare via
dalla corolla della digitale.
Ma pur se queste scene volentieri
con te io seguirei, ciononostante
d’un animo innocente i bei discorsi,
le cui parole sono come immagini
di nobili pensieri, del mio spirito
sono la gioia; anzi, certamente
è del genere umano la più grande
benedizione, quando, insieme a te,
due spiriti fraterni si ritrovano.
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