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Immagine del redattoreMario Saccomanno

Nota di lettura a "La solitudine del passo" di Mirella Vercelli

È nella mancanza, negli strappi dell’osservato, nella cura dei vuoti, nel peso specifico delle assenze che si insinua la voce poetica di Mirella Vercelli. Così, le composizioni racchiuse nella raccolta La solitudine del passo (peQuod, 2023) mostrano in primo luogo quanto nelle intercapedini si dispongano le zone ombrose, il non capito e, soprattutto, le possibilità.

Nel leggere i versi che conformano il testo si comprende facilmente come l’azione di cui le poesie sono riflessi non preveda mai un quieto sostare. Tutt’altro: si tratta di un modo d’agire che ha bisogno di ricercare nuove affinità che non possono essere scovate in comodi orizzonti. Del resto, in merito risulta perentorio uno dei primi versi racchiusi nella silloge che assume la forma di una dichiarazione d’intenti: «Per i cuori colmi non ho affinità».

Proprio da una consapevolezza siffatta muovono i passi dell’autrice e ramifica il bisogno di colmare quelle assenze di cui si diceva poc’anzi. Da questo punto di vista, la stessa composizione a cui si faceva cenno prevede come pars construens, ancor più della ricerca delle persone e dei visi desiderati, quella dei luoghi. È nell’incessante rimuginare sugli orizzonti e nel bisogno di cercare sempre nuovi spazi che possono concretamente prender corpo quelle affinità sperate: «Mi sono fratelli i granai vuoti / i letti disabitati / di case dove ogni cosa è ferma / nell’attesa».

Pertanto, dare colore alle sospensioni quotidiane che segnano qualsiasi vita diventa di per sé l’approdo. Il che, tradotto in versi, corrisponde a crearsi un alfabeto poetico capace di cogliere con tono sempre più marcato le sfumature sottaciute, quelle che sfuggono fin troppo facilmente ai molteplici occhi disattenti. Nel far questo, è facile sentire il peso delle proprie manchevolezze e non è raro struggersi «di non saper dire / cose col loro nome esatto».

La consapevolezza di non riuscire a riportare i barbagli osservati compone uno dei tratti più marcati di questa «solitudine incarnita». Di più: è uno degli aspetti del paradosso che sta a monte di molti crocicchi poetici contenuti in La solitudine del passo: la sete di narrare i risultati provvisori del proprio sostare e l’inevitabile infrangersi sul muro dei limiti del linguaggio, foss’anche quello poetico, che, per sua natura, riesce a districarsi con più naturalezza oltre i meri steccati logico-razionali.

Nelle «sorsate amare» pesano soprattutto le bonacce, quei giorni «ai quali non si chiede che passare», trafitti dai soliti «doveri giornalieri» e, soprattutto, hanno un valore incalcolabile le consapevolezze acquisite e, ancor di più, le mancanze. Di tutti questi aspetti Vercelli approfondisce le fattezze in versi che sanno pungere, carezzare e diventare struggenti, come quelli contenuti nella seconda sezione del testo, Mater amabilis (che fanno seguito a Senza orme e precedono Di spalle e Da lontano).

Col grado di sincerità che presuppone un agire di tal portata, il canto dell’autrice si fa corale non appena viene colta la fattezza dello stesso dimorare che connatura le esistenze: «È invece ad ogni luogo impresso / il medesimo soffrire».

Da qui, come si evince chiaramente dalla Nota che chiude la raccolta, la sostanza dei versi indicata da Vercelli è la meraviglia, principio dal quale si è in grado di porsi domande e intraprendere un percorso che, sebbene, come avuto modo di specificare fino a questo momento, appare impervio, porta a dar corpo a quella «disciplina necessaria per accogliere il dolore, nella sua violenza e imprevedibilità». Così, affinando la capacità di comprendere come «giorno dopo giorno /l’alfabeto del dolore si / fa lingua madre» si diventa capaci di sostare con maggiore consapevolezza e, in tal modo, si può donare colore al proprio sguardo.

 



Per i cuori colmi non ho affinità.

 

Mi sono fratelli i granai vuoti

i letti disabitati

di case dove ogni cosa è ferma

nell’attesa

 

e l’ombra varia, variano stagioni

nell’aria densa, mentre un raggio affonda

sempre la stessa lama dalla finestra

sbieca.

 

*

 

La confidenza

con il rimorso di

lasciar andare

 

l’addio

si impara

a sillabe,

a singhiozzi.

 

*

 

Credevo fosse questa nicchia fuori

dalle dinamiche del tempo

in qualche istante, in qualche

particolare taglio d’ombra

e luce. Credevo fosse qui possibile

nell’eco confondere la voce

del proprio dissentire.

 

È invece ad ogni luogo impresso

il medesimo soffrire.



 Mirella Vercelli è nata a Grottazzolina, nelle Marche, nel 1959; risiede da qualche anno a Sant’Elpidio a Mare, sulla sponda opposta del Tenna, attraversato come fosse il Rubicone.È collaboratrice in  un ambulatorio medico, dove passa poca poesia ma tanta umanità, da consolare e da cui essere consolati.Ha pubblicato nel 2017:  Racconti 1978-2016 per Aras Edizioni e nel 2020 Luce piena per peQuod.  Suoi racconti e versi sono compresi in diverse antologie e riviste, stampate e on line.

 

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