«No luce, no tunnel né cazzate»: recensione a "Sottopelle" di Noemi Nagy
- Daniele Giustolisi

- 13 minuti fa
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Ci sono ancora corpi? È la domanda, per certi aspetti sconcertante, che a mio avviso attraversa Sottopelle (Samuele Editore, La Gialla, 2025) di Noemi Nagy, poetessa 29enne e ricercatrice in Filologia Moderna.
Cos’è un corpo? Si ha un corpo o si è corpo? Il mio corpo è tutto dell’altro, bucato dalle sue parole, marchiato dai suoi giudizi e dalle sue azioni, o c’è forse un resto irriducibile, non addomesticabile, pulsionale, scabroso, persino informe, putrido che sta sotto la pelle?
Sono tutte sottodomande di quel primo quesito che suonerebbe paradossale solo a chi non si accorgesse di come “la dura realtà del corpo” (per dirla con Nancy) sia oggi una questione quanto mai centrale (e abbastanza taciuta), rappresentando, per certi aspetti, un tratto profondamente angosciato di un’intera generazione. Prove ne siano anche i diversi titoli di poesia con la parola “corpo” pubblicati negli ultimi anni. Segno che in esso qualcosa di inquieto, irrisolto, senza centro, angosciante, appunto, si agita ancor di più di questi tempi, tanto nei suoi risvolti più esibizionistici quanto, viceversa, in quelli di sottrazione, spoliazione, fino a un suo grado quasi organico, reliquiario; versante, quest’ultimo, su cui pare insistere il libro di Nagy.
Cos’è Sottopelle? È una sorta di patografia dei corpi, teatri di malattie, lutti, fobie, pensieri intrusivi, smembramenti, tra la cupa e mitologica ruralità pastorale della Svizzera (terra nativa dell’autrice) e tangenziali di animali investiti e reparti d’ospedale, tracciando una fenomenologia del corpo aperto, malato, violato, profanato.
Siamo, credo, nell’ambito di una precisa tradizione che vede in Schopenhauer, Artaud, Bataille, Bene, menti luciferine e geniali nell’intuire che c’è un al di qua del corpo e della sua unitaria e rassicurante rappresentazione su cui troverà terreno fertile, tra gli altri, il sapere critico della psicoanalisi; un al di qua spesso inammissibile ai discorsi ponderati e ideologici della cultura e della civiltà che vorrebbero fissare, plasmare, definire, omologare i corpi. O liquidarli.
È la finestra a mio avviso più interessante che l’opera di Nagy apre sull’attualità di corpi sempre più fragili, spersonalizzati, ammalati, angosciati. Da cosa? Dal vuoto, dalla mancanza di senso, orientamento, centro, conseguenza di quella “mutazione antropologica” che Pasolini addebitava alla civiltà dei consumi (in cui possiamo riconoscere oggi anche quella della tecnoscienza). Se, per esempio, il corpo del poeta friulano poteva dirsi “gettato nella lotta” alla ricerca di una “estetica passione” (fino ai suoi esiti più tragici), all’estremo opposto quelli che emergono dalle pagine della poetessa sono corpi al limite dell’inconsistenza, scorticabili come carta velina (Come i pomodori sbollentati e passati nel ghiaccio/togliere la pelle è più semplice se il corpo è freddo).
Mi tornano in mente le mirabili pagine di “Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà” in cui lo storico dell’arte e filosofo francese, Didi-Huberman, “apre” letteralmente la dea botticelliana, dimostrando, fonti alla mano, come dietro a quel nudo (bello, scultoreo, ma un po’ compassato, algido, impenetrabile) vi sia una recondita “nudità” in cui agiscono forze perturbanti, conflitti, oscenità. La tesi consisterebbe in un rovesciamento dei concetti classici e rinascimentali di equilibrio, bellezza, armonia, forma, covanti, in realtà, spinte contrarie e incandescenti, fatte di squilibrio, orrore, disarmonia (di cui la “Nascita di Venere”, appunto, per mezzo di materia informe, mare, sangue, sperma e schiuma, sarebbe assoluta testimonianza).
Se questa fenomenologia dell’apertura implica che non possa darsi bellezza senza ferita, che ogni bellezza autenticamente tale porta con sé sempre una esperienza di lacerazione, smarrimento, vertigine, e che il miracolo dell’arte, in fondo, consiste, nei suoi esiti più profondi, nel restituire questa bellezza lacerata restando sempre in bilico tra festa e catastrofe, luce e buio, eros e thanatos, forma e informe; se la ferita di cui parla Didi-Huberman apre “al modo in cui si apre un campo, in cui si apre un’infinità di possibili”, è cioè tesa all’infuori, al mondo, non si nega come offerta, come possibilità di fioritura, di senso, meditazione di quella stessa ferita, le lacerazioni di Nagy, al contrario, sembrerebbero implodere su se stesse, verso l’interno, sotto pelle, fino al punto più estremo, oltre l’osso, negando qualsiasi possibilità di ricomposizione.
Mi pare di cogliere in questo aspetto un indirizzo formale (e quindi sostanziale) di una parte di poesia contemporanea, che alla verticalità metafisica (anche violenta) del verso, inteso come pensiero e sentimento del mondo, almeno secondo una precisa tradizione, sostituisce un chirurgico “taglio” prosaico e orizzontale, in cui non è più possibile l’idea di canto, e quindi di suono, ritmo, vitalità, armonia.
A questa parola poetica orfana di orizzonti, insomma, orfana della sua forza di traslare, di darsi su un piano che non è quello della vita di tutti i giorni, non rispecchiando la realtà, ma interpretandola nelle sue forze più vitali, erratiche, profonde, non resta che profanare il senso, negare qualsiasi apertura, con il rischio di sprofondare in derive luttuose, nichiliste: nel caso me lo stessi chiedendo/comunque non c’è proprio nulla di là/nulla: no luce, no tunnel né cazzate.
Prova ne sia, forse, una scrittura che nel libro di Nagy tende alla lapidarietà del referto, alla temperatura da neon di un laboratorio di analisi. Aspetti perfettamente aderenti alle ambientazioni del libro, ma che allargando lo sguardo sembrano, in misura diversa, ritrovarsi in molta poesia dei nostri giorni che, cosciente o meno, guarda sempre più spesso alla freddura del linguaggio tecnico, biologico, medico, botanico, zoologico, come se non riuscisse più a trovare qualcosa di superiore delle leggi fisiche per giustificare il proprio essere.
Allora non resta che il corpo, appunto, non nel suo slancio vitale, che implicherebbe sperdimento, vertigine, la possibilità della perdita, ma nel suo controllo, nella cura del logoramento, fino all’abbassamento a un grado zero, organico, animalesco, primitivo, sganciato dal respiro del mondo, dal rischioso incontro con l’altro, quasi a ricercare, per paradosso, un luogo così ideale così non compromesso che puoi viverci.
Eppure, dopo pagine di serrata via crucis del corpo, accompagnata da una pietas dell’accudimento (accovacciata per ore a tagliarti le unghie), gli ultimi due versi del libro, di questo primo vero libro di Nagy, sembrano suggerire la possibilità una prospettiva inedita, impensata, un nuovo possibile approdo: dimentica il medico, stenditi al sole/Noemi è così che si guarisce.

Ogni sera con le mani nella plastica
«Ci sono ancora corpi?» rovistando
nel ventre molle dei rifiuti
chiedi a chi appartengano quegli arti
continuano morti a crescere male.
Andrebbero ricomposti, dici tenuti insieme
i piedi nelle camere ardenti
legati con il nylon
*
Usciamo per andare a caccia delle uova deposte la notte: molto
presto, prima che la testa umida e il becco le crepino dal dentro.
Anche noi portiamo i bastoni ma sono più corti e appuntiti sui gusci
sono così sottili che i capillari li percorrono
bentről al caldo
piangi il desiderio di essere mangiate
le conservi
meg kéne enni con le tre nostre mascelle
stretti i denti dello stomaco
prima che vadano a male non provano dolore.
*
Stendiamo i gradini. Pareti di corde qui dentro le donne come le
oche non hanno la testa di bue.
Sono fatte di filo, le pelli sulla sporgenza dei palmi
di mani molti dei ciechi li battono a terra
szorít: io mi ammalo
*
Poi hai ripreso di colpo a respirare:
ti sei fatto togliere i tubi
portare le sigarette Philip Morris One
per colazione
una manciata di farmaci.
La scorsa notte sei andato
e ai medici pare tu abbia chiesto perché
cazzo ti hanno riportato indietro
poi riso.
Nel caso me lo stessi chiedendo
comunque non c’è proprio nulla di là
nulla: no luce, no tunnel né cazzate
*
Quello è lo pteumanico
pneumatico, dico la scia sull’asfalto
l’hai investita ieri e ora te la studi: portiamocela via
questa lepre morta la seppelliamo in giardino
raccoglieremo le ossa prima che le trovino i cani.
Mi sembra evidente che nessi consonantici
e frenate d’emergenza siano ancora un problema
ma a questo punto poco importa, il peggio è passato
«i più deboli sospendano l’esercitazione» non
stavolta mentre sistemi la carcassa
nel baule fai segno di salire
*
Confrontare l’età degli altri con la propria
scorrendo i necrologi – non spaventa
il fatto in sé quanto invece il processo
in quella valle non avremo da temere
per rassicurarci ti metti a ridere ma a stento
ancora tossendo ugat bennem a halál kutyája
ti abbaia dentro, il cane della morte –
con i modi di dire però non ci facciamo nulla
ci tremano lo stesso le ginocchia:
ancora cinquanta, ventisette, quattro anni
*
Ha espulso i liquidi, mi spiego? il giorno
dopo lo chiamano sopravvissuto
nel reparto, ridono tutti, lui – dell’edificio
non restano che macchinari
dismessi, piaghe da decubito
én jövök a halotthoz contornate prima
te azt mondod, hogy él
*
Le oche ammazzano i vicini
svuotano il collo tenendo l’involucro:
va riempito con fegato e uova sode
(come su mindmegette)
poi si fa a fette come un salame
rotonde, belle spesse.
tornando ai ripieni: tua madre
così imbottita di farmaci neanche i vermi
Per far fronte al sovraffollamento dei cimiteri, la Norvegia propone
l’iniezione di prodotti chimici ai cadaveri perché accelerino i
processi di decomposizione. Ora le fosse vengono scavate più
profonde, per far scendere i vecchi occupanti di un livello e mettere
sopra i nuovi arrivati.
dimentica il medico, stenditi al sole
Noemi è così che si guarisce

Noemi Nagy (1996) è nata in Svizzera da una famiglia transilvana. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Filologia moderna a Pavia. Nel 2023 è risultata vincitrice del Premio Nuovi Argomenti (sezione Poesia). La sua raccolta d’esordio, L’osso del collo, fa parte del XVI Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcosy y Marcos, 2023).




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