«Nella traccia di un altro corpo»: recensione a "Il ritrovamento del corpo" di Massimo Maggiore
Quand’è che abbiamo perduto il corpo? Come è stato possibile dimenticare mani, occhi, orecchie, naso e bocca? Quando, irrimediabilmente, abbiamo smesso di fare affidamento su quello «schiocco / di corpi contro altri corpi» che è infine e davvero «il suono del mondo»? Come si può, se è possibile, ristabilire un contatto vero con la nostra corporeità, come e dove, sul finire, ritrovare quel corpo che abbiamo smarrito? Nel leggere le poesie e le prose poetiche de Il ritrovamento del corpo (Manni, 2024) di Massimo Maggiore, ci si può ritrovare, come è capitato a chi scrive, a riflettere su queste e tante altre domande che ruotano attorno al concetto, attualissimo, di corporeità e di corpo. Il corpo che rimane ancora oggi in questa nostra era di smaterializzazione diffusa, l’elemento centrale e imprescindibile del nostro esserci nel mondo, il primo luogo, lo spazio primo della conoscenza e al tempo il primigenio strumento d’indagine che l’essere umano ha a sua disposizione. «Al mio luogo impossibile» recita la dedica in esergo alla raccolta di Maggiore, una dedica che già prepara il lettore alla materia poetica densa e stratificata dei versi che seguiranno: la presunta impossibilità dell’incontro del luogo-corpo o del corpo-luogo, il proprio e quello dell’altro che non può essere mai raggiunto a pieno, anche quando fortemente desiderato. Ogni corpo è suscettibile di una soggettività che ne dispone o meglio lo abita: incontrare un altro corpo è fare esperienza di una dimensione intersoggettiva, incontrare il proprio corpo è (anche) fare esperienza del mondo. Il percorso poetico che propone Maggiore mi sembra porsi a una profondità ancora più voraginosa: abbiamo smarrito il corpo nel momento in cui abbiamo iniziato a pensare di contrapporlo, di metterlo in antitesi all’anima, all’interno dell’ingannevole platonico dualismo anima-corpo, psyché-corpo. E se pure il corpo è luogo della perenne e progressiva corruzione e consumazione, destinato alla morte e alla perdita, esso non è e non può essere un semplice involucro vuoto, un imballo, un involto, una custodia di qualcosa che si presume essere più preziosa e incorruttibile. Anche tuttavia quando, perdendoci nello smaterializzato mondo digitale, ci sembra diventare superfluo, il corpo, ci ricorda invece quanto da lui non possiamo e non dobbiamo prescindere:
Senza più corpi a breve
la stanza tornerà inattesa
rimarrà il nulla provvisto di spazio.
Maggiore non ha però paura di indagare gli spazi vuoti e di quel corpo che si è smarrito va con determinazione alla ricerca, e lo trova, anzi lo ritrova. Recupera con i suoi versi tutte le sue estensioni e le sue dimensioni in un cerchio quasi perfetto che dalla prima delle otto sezioni della raccolta, Vita involontaria, che mi sembra concentrarsi sulla origine della vita e del corpo, dopo aver esplorato corporalmente tempi e spazi dell’esistenza, arriva a chiudersi con la sezione Corpo di nebbia che rimanda alla scomparsa materiale del corpo e con lui della vita. La poesia diventa in questi testi di Maggiore lo strumento privilegiato di indagine e di riflessione dell’idea e dell’emozione che da questo ritrovare il corpo il poeta appercepisce. Uno strumento che lo fa immergere tanto nella dimensione interiore quanto in quella esteriore. Il corpo si mostra nel discorso poetico di Maggiore quale dispositivo e apparato atto a esplorare la dimensione sociale, la dimensione della natura, la dimensione temporale, la dimensione sensoriale. Le varie estensioni che il corpo ci sostiene ad esplorare ci avvicinano alla verità, tolgono il velo opaco che ci fa stare lontani da noi, dal mondo, dalle cose, dagli altri. Ritrovare il corpo è conoscere, è percepire. Percepire di più, percepire meglio. Scriveva Hervé Juvin nel 2005 ne L’avénement du corps:
Che cosa c’è di nuovo in questo inizio di millennio?
Il corpo.
Il corpo che abbiamo ereditato dal XX secolo ha cambiato tempo, ha cambiato spazio ed è molto vicino a cambiare natura. L’invenzione del corpo è il formidabile dono del secolo scorso, ma è un dono senza istruzioni per l’uso. I nostri corpi non sono più così mortali, così sofferenti, fragili e passeggeri come sono stati e come sembravano dover rimanere per sempre. Il più remoto è diventato vicino, l’altro si è amalgamato nell’universale. La rottura fondamentale del nostro tempo non è esteriore […] ma è avvenuta nella nostra intimità, confina con il segreto dei rapporti che ognuno intrattiene, in modo consapevole o no, con la vita.
È forse questo il motivo per cui essa è così poco percepita?
[…]
Di questa eredità apparentemente priva di senso occorre fare l’inventario, prima di farsene assorbire o, in alternativa, di smarrirla del tutto.[1]
Maggiore ha la sensibilità di chi percepisce invece, nel fondo e dal fondo, quanto grande sia l’impatto di questa “invenzione” del corpo, e cammina con la sua poesia al recupero autentico del luogo primo e ultimo dal quale non possiamo prescindere.

Se a ogni sguardo
corrispondesse una verità
non ci sarebbe più bisogno
di guardare.
Non ci sarebbe nemmeno bisogno
della funzione del collo
al di fuori di quella di reggere la testa
non più di girarla e sollevarla.
La non verità
ci libera dal paradosso della
pressione verso il basso,
ci fa antennisti del labiale
captatori di sibili tra il fracasso
ci salva dalla rigidità cervicale.
*
Il mattino senza luce ha il cinguettio di un indecifrabile volatile che evoca il sole già da molti minuti prima che i suoi raggi srotolino giù da questa parte di mondo.
Trovarsi in una stanza con un corpo che fa fatica a riprendersi dal sonno e avrebbe una volontà sua, quella di stare in bilico sul medesimo ritaglio di materia fredda che regge il canto dell’uccellino.
*
Un bacio è un inciampo
una stranezza che
allunga la faccia.
Sono la pelle sulle labbra
la lingua sotto i denti,
che si afferrava
con quel sapore piatto,
di lisce uscite dal sonno
con una punta di sale
la fontana d’antro che
stana l’oscurità
delle origini comuni.
*
Fino a quando esiste
un corpo
esiste un invito a cena.
La casa è del suo corpo vitale,
la sua voce dice quel
che pensa,
la sua lingua si disseta.
I suoi occhi hanno da tempo capito
come a Scorsese piaccia
fare film in cui si muore solo
per mano degli altri.
Sta sulle gambe in piedi
la sua noia, accennano
un passo di fuga
quando la musica anni ’80
– si dice – abbia lasciato
un alto fossato
tra i ’70 e i ’90.
S’aggiunge il corpo ai corpi
giunti alla fine del corridoio
s’aggiunge il corpo a parziali
essudazioni d’altro che non è corpo
allo strabismo di un’ospite
che moltiplica possibilità
sugli occhi incatturabili.
Senza più corpi a breve
la stanza tornerà inattesa
rimarrà il nulla provvisto di spazio.
[1] H. Juvin, Il trionfo del corpo, Egea edizioni, Milano 2006, p. 1.

Massimo vive dal 1990 a Milano, dove si trasferì dal Salento per studiare Giurisprudenza presso l’Università Cattolica. Lavora come avvocato dal 1997. Scrive poesia dall’età di 23 anni circa, ma fino a poco tempo fa lo ha fatto esclusivamente per se stesso, come esercizio di riflessione interiore, spinto dal suo amore per la letteratura e la filosofia. Questo fino a che, nel 2021, non ha frequentato due corsi di poesia alla Scuola Holden (era il regalo del suo cinquantennio), che gli hanno fatto comprendere che una poesia non esiste fino a che non si offra agli altri e non sia detta. Pubblica quindi la sua prima silloge nel 2023 con Porto Seguro, dal titolo “Variazioni (su) conoscenza, amore e tempo”, come summa di testi scritti tra il 2020 e l’inizio del 2022. I temi su cui si incentra tutta la sua riflessione e il suo universo poetico riguardano il tempo, la memoria e – come derivazione dei primi due – l’oscillazione tra il divenire e l’eterno come destini e ambienti possibili dell’essere umano.
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