«Lo sprezzo della morte»: recensione a "Gli atleti" di Vanni Schiavoni
Dietro la struttura di quest’ultima raccolta di Vanni Schiavoni, Gli atleti, pubblicata per Interno libri nel 2024, c’è una scelta consapevole e ragionata da parte dell’autore: quella di collocare solo in appendice e a latere del libro stesso le note alle quattro sezioni che consentono di comprendere il nesso tra le diverse parti e che ci svelano la radice, il movente da cui si origina l’azione poetica di Schiavoni. Solo allora apprendiamo in maniera netta che dietro queste pagine ci sono delle statue, riemerse spesso dai fondali bui del Mediterraneo, come quella anonima di Lussino, o andate distrutte nel corso dei secoli, statue che ruotano in qualche maniera intorno al magistero del grande scultore Lisippo, artista che vive e si muove tra i centri di quella Grecia che si spinge dai confini con la Macedonia fino all’Italia Meridionale in una fase della storia antica destinata a sancire una fine e un inizio: la fine della cultura Grecia classica, quella delle poleis, delle Guerre Persiane e del Peloponneso, e l’inizio di una nuova civiltà, inaugurata da Alessandro Magno, che crea un ponte assoluto tra l’occidente e l’oriente e cristallizza al contempo quella cultura classica, rendendola universale.
Ecco, leggere questo libro senza quelle note, o prima di quelle note, significa salvarsi dalla tentazione di ravvisare nell’operazione poetica di Schiavoni un qualsiasi intento didascalico, e al tempo stesso significa affidarsi alla sola poesia, pur in presenza di tanti, per quanto addomesticati, riferimenti colti a quella cultura, e alla vividezza di immagini che quella poesia ci trasmette con una leggerezza che quasi cozza con la simmetria rigorosa e chirurgica dei suoi versi.
Si ha, è vero, spesso comunque l’impressione di aggirarsi nelle stanze di un museo, in cui le opere d’arte, i reperti, gli oggetti stessi paiono balzare dal fondo per restituirci una qualche storia, ma si ha al contempo la sensazione di essere immersi in un flusso, in un movimento che procede per illuminazioni, per baluginii, per rifrazioni, in cui i raggi del sole colpiscono gli elmi e le spade, in cui la vegetazione torna a farsi viva e noi in qualche modo siamo parte di quello scenario. Così come esiste una dimensione materica, fisica che la poesia sa trasmettere, l’idea di una fucina – «le fucine della psiche», scrive Schiavoni, nella sezione Il Fabbricante di Sicione – da cui si origina tutto: l’arte stessa, che essa sia fatta di pietra, di bronzo o di parole, e pure quel mondo con i suoi eroi, le sue figure che sembrano uscire dalla scorza della terra per compiere le proprie gesta. Non è un caso che, accennando un qualche manifesto di poetica, Schiavoni scriva «ho battuto le mie parole / e messo fine al mondo classico», facendoci pensare al movimento dello scalpello più che della penna, e altrove «ho provato a restituire una poesia ossificata», e in quell’ossificazione c’è tutto il senso dei passaggi da qualcosa di immobile e di statico ad un movimento per poi ritornare alla forma chiusa, fossile della scrittura.

Quel passato, in cui storia e mito sono parte dello stesso disegno, non resta però sospeso in una dimensione nostalgica e memoriale, né tantomeno oggetto di una dissertazione scientifica affidata alla poesia, ma ci racconta qualcosa pure della nostra contemporaneità o ancor più di come tutto nella storia sia il risultato di un processo lento e inesorabile, di come tutto resti e si sedimenti e tutto evapori e si disperda, di come sia in fondo «di passaggio ogni epoca / e pure noi». Anche qui la sua scrittura è salva da qualsiasi paternalismo, da qualunque intento educativo, tipico del poeta colto che in fondo vuole darti una lezione, da qualsiasi forma melensa di rimpianto: le fucine del sud Italia in cui Lisippo fondeva le sue leghe si sono trasfigurate negli altiforni di un Ilva ridotta oggi a un villaggio di lamiere senza più identità, le terre di Mosul hanno cicatrici aperte, le “ardenti” visioni geopolitiche, quelle degli esperti o quelle dei sedicenti esperti, si sono rivelate vuote e scadenti e non esiste più alcuna Pizia che possa predirti un futuro certo. È tutto vero ma non spetta al poeta, e questo Schiavoni lo sa, indicarti la strada, semmai, costruirti e ricostruirti un mondo attraverso la parola, farlo rivivere e lasciare al lettore l’onere di comprendere e interpretare quel mondo. E questo Schiavoni, certo, sa come farlo.

Vanni Schiavoni (Manduria, 1977). Ha pubblicato le raccolte poetiche: Nocte. Nascita di un solstizio d’inverno (Firenze Libri, 1996), Il balcone sospeso (Lisi editore, 1998), Di umido e di giorni (Lietocolle, 2004), Salentitudine (Lietocolle, 2006), Guscio di noce (Lietocolle, 2012), Quaderno croato (Fallone, 2020). Ha pubblicato i romanzi Come gli elefanti in Indonesia (LiberArs, 2001) e Mavi (Emersioni, 2019). Come performer si esibisce con gli spettacoli: Quaderno croato e alte province (in solo), L(‘)at(t)itudine (in trio con la cantante Martina Alberi e il chitarrista Renato Minguzzi) e Gli atleti (in duo col chitarrista Gregorio Pasanisi). Dirige il laboratorio di scrittura in versi (e altre creatività) SoloXpoetry, con Giuseppe Alemanno. La sua nuova raccolta poetica, Gli atleti, dedicata al mondo magnogreco, è in uscita a novembre per Interno Libri.
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