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«La bellezza del lampo e del millesimo»: recensione a "Diario di un autodidatta" di Alfonso Guida

  • Immagine del redattore: Daniele Giustolisi
    Daniele Giustolisi
  • 24 lug
  • Tempo di lettura: 5 min

Cosa vuol dire leggereunlibrodipoesia. Tenerlo ancora tra le mani, pochi minuti prima di scendere dal treno. Dimenticarlo tra i pannolini, lasciarlo sul tavolo macchiato di olio. Prenderlo, aprirlo. Segnare, appuntare. Cosa? Questa lingua impossibile del verso. Cosa chiedo? Cosachiede?


La lettura: tassa pagata al tempo che nessuno rimborsa. O squassa, o tanto meglio chiudere.


Decido di farlo entrare nel ritmo della mia vita. Nelle sue sincopi schizzate, nelle nevrosi, nei lampi di gioia (ma non nasce da qui la poesia?). C’è qualcosa che mi fa tornare . Più leggo e più devo rileggere Diario di un autodidatta (Guanda, 2025). Rifaccio daccapo le pagine, mi focalizzo, decomprimo la lettura a voce alta. Perché i versi scivolano via, li perdo. È un lavoro di moviola: più leggo e rileggo, e più

qualcosa pian piano affiora. E se a un certo punto leggo a pagina 59 «il cazzo sporco di feci, il bacio sui testicoli. La dismisura», penso allora all’autore, ad Alfonso Guida, alla strada fatta per scrivere un verso così, lontano da ogni forma di sensazionalismo o spicciola vena provocatoria; penso ai suoi trent’anni e passa di poesia portata sulla pelle, senza concedersi (né concedere) sconti, pose, trucchi; anni trascorsi

nell’autoesilio dell’arsura e del gelo dei calanchi lucani, e mi dico che è bello e giusto che un libro così, che un autore così, figurino nella cinquina dello Strega Poesia.

Qualunque cosa questo significhi.


Alfonso Guida Copertina Guanda Alma Poesia

Lingua


Il Diario di un autodidatta è un altro, non quello che ho tra le mani. Non c’è qui, è

altrove. L’odio per il padre, l’insediarsi delle pulsioni di morte, gli anni universitari a Roma, il ritorno nel sud Italia, il ricovero psichiatrico, e poi gli incontri con Egidio, Rita, la violenza pastorale di Vito, il sesso sadico: questo diario è tutto scritto sulla pelle del poeta. Quello che leggo è solo un resto, parole ridotte a mucchio di ossa,

gergo di smarrimento. Ecco la poesia di Guida: lingua della maceria, lingua sparsa di orridi. Spregiudicato controaltare all’inadeguatezza del linguaggio nel sostenere il peso e lo sconcerto del reale: forza vorticosa, incandescente, lacanianamente oscena, fuori dalle solide e rassicuranti rappresentazioni della realtà. Di quella lingua c’è bisogno, ci dice Guida. C’è bisogno di opporre alla gelida odierna “comunicazione” una parola che soffra un male umano. È la lingua dei poeti, i più arrischianti, secondo Heidegger, perché i più prossimi, se non immersi, nel magma della follia, dove la condizione umana si slabbra senza più argini.

 

 

Reale


O la poesia è poesia del reale o non è poesia. O si espone e accetta un corpo a corpo con la potenza ingovernabile della vita che abita l’abisso umano, oppure – per dirla alla Pasolini – resta letteratura, pura rappresentazione, psicologismo. La strada che Guida sembra percorrere fino in fondo, senza possibilità di ritorno, è quella di una continua spoliazione dell’io, radicale e definitiva: un al di là dei ruoli, delle convenzioni, delle pose, delle morali, rinunciando a capire, svuotando il pensiero. Sporgersi ingenui sull’abisso. Ma fuori, appunto, da ogni maledettismo. Lontano da ogni clamore, da ogni ostentazione. Il corpo a corpo con la vita, per Guida, sembra giocarsi sul terreno disperato ed esasperato della libertà, che ha come prezzo (e allo stesso tempo come luogo elettivo) il margine.


Sud


Dobbiamo immaginarcelo aggirarsi e sparire tra i vicoli di San Mauro Forte, luogo assoluto dell’entroterra lucano dove è nato e vive: antica terra fatta pietra, durezza crivellata. Dobbiamo immaginarcelo Guida inseguire penombre approdate, mentre il paese scandisce, col suo rosario funebre, veglie e vigilie avare di gioia. Dobbiamo immaginarci il suo eros omossessuale nell’estrema provincia del sud. Carmelo Bene, Pasolini, Guida. Cosa hanno visto in questa terra, in questo sud del sud dei santi e dei diavoli, che contraddizioni, che contraddanze? Luogo osceno, inattuale, un resto, un rudere della modernità. Terra abbandonata e di abbandono che produce vita e visioni dalla sua stessa fine storica. Un luogo estremo, dove ognuno riceve in consegna il compito di rimettersi in viaggio.


Testimone


Nell’abbandono il divenire. La vita che chiama, sparata al fondo, incessante, feroce fermento di cordogli. E se non c’è un padre a cui appigliarsi (Odio mio padre, lo odio perché non è stato una riva), se non c’è radice da cui emergere (avevo perso non la casa, ma la terra), non resta che imparare la vita per schianti, accidenti, tentativi. È la condizione dell’autodidatta, o se si vuole dell’orfano, che ricerca nel tutto la propria origine. Annusare allora, come gli animali. Toccare ogni cosa, intuire, sentire i corpi, saltare la mediazione dei saperi per conoscere davvero, deporre l’arma del giudizio per farsi testimonianza piena, libera, di quella chiamata, al di là del bene e del male.

Perché è il giudice che soffre il testimone, ci dice Guida. Non il contrario.


Eros


Se saltano gerarchie, criteri, valori, all’autodidatta Guida non resta che farsi alunno dei fuori traccia, scegliere tra coloro che amano farsi argilla. Altri autodidatti, invisibili, marginali. Rita, che sparge gocce di tricofilina, Egidio, pure lui spaccato nel cervello, Giacomino, bocca di minestra di verza, gli hanno dato dieci anni o Vito, contadino giurato, unghia incarnita/ Ti fisso il culo, muto. Un uccello rapace, un bottino. Se la ricerca della conoscenza (del sé e del mondo) si gioca in Guida senza

l’armatura della Cultura, ma con la sola pelle aperta della Natura, eros e omosessualità non possono che esserne finestre privilegiate d’accesso. Un vero poeta impasta accogliendo. Accoglie tutto, dichiara Guida. E in questo senso l’omosessualità del poeta (condizione vissuta tragicamente) è il segno esistenziale di questa totale accoglienza di chi, simultaneamente, dà e riceve. Radicalmente.


Restare


Cosa vuol dire leggere un libro di poesia? Me lo chiedo ancora mentre vedo Diario di un autodidatta poggiato adesso sul tavolino di un bar, e sullo sfondo il mare delle Marche. Lo guardo come una cosa a me ormai prossima, eppure già distante. A suo modo, anche il libro sta lì come un resto. Altri occhi verranno, altri tempi, altre

riletture. Penso a un altro grande appartato di questa terra, Francesco Scarabicchi,

“grande poeta” scrive giustamente Guida. Che somiglianza, che strana alleanza? Cosa vede Guida di sé nel compianto poeta de “Il prato bianco” e “La figlia che non piange”? È una poesia dei resti, ci dice. Ecco, mi pare questa una possibile eredità anche del Diario del poeta lucano e, più in generale, del suo intero magistero. Come non soccombere alle macerie della vita? Come resistervi? Come non lasciarsi travolgere e schiacciare? Bisogna saper restare, sembra dirci Guida, bisogna saper abitare i resti, bisogna tenere le pietre della propria casa. Non bisogna restare

imbrigliati nel reale, ma dargli forma, organizzare il discorso, organizzare il delirio: la poesia è un delirio organizzato. Da qui anche la fedeltà di Guida alla forma della poesia, alla metrica canonica, a una scrittura che non cede allo scompaginamento, all’esuberanza caotica dell’informe. La poesia è una riva, scrive. Non bisogna

lasciarsi travolgere dall’onda, ma, semmai, attraversarla per farsene testimonianza. Non rinunciare a una gioia di terra emersa allora, scendere nel reale e risalire, per raccontare, per trasformare, per abitare e restare nella realtà che, alla fine, è ciò che conta più di ogni altra cosa, dove il volto è un tu, e questo, se crolla il pavimento, dona un fondo. È l’insegnamento etico, se vogliamo, della scrittura (e della vita) di Guida, che non subisce la pericolosa seduzione della distruzione del sé, non canta la fascinazione della morte del soggetto come via privilegiata per la conquista di un’assoluta e radicale libertà (tema quest’ultimo centrale nella sua poetica). La dépense batailleana, a cui giustamente è stata accostata la sua ricerca, non sfocia mai in una spirale nichilista e mortifera. Il fondo dissipativo dell’esistenza, semmai,

sembra trovare nella scrittura un argine, un confine, un progetto di composizione, la grazia della forma, la fede nella creatività rispetto al baratro. Scrittura, dunque, come incessante pratica solitaria e artigianale di dedizione e resistenza. Compagna della vita che ritorna sempre, disperatamente, alla vita.


Soffrirai tutte queste cose, amore, la bellezza del lampo e del millesimo, la notte verde di veleno e il verde buio del prato in cui erompe il miracolo, l’acqua sconvolta del miraggio, il canto del bene presagito, il primo passo di resurrezione in cima alla strada del ritorno. Risorgere è tornare.


Alfonso Guida Alma Poesia

Alfonso Guida (1973) è nato e vive a San Mauro Forte, in Lucania. Nel 1998 ha vinto il Premio Dario Bellezza per l’opera prima con la raccolta Il sogno, la follia, l’altra morte. Nel 2002 ha vinto il Premio Montale con la plaquette Le spoglie divise [Quindici stanze per Rocco Scotellaro]. Suoi versi sono apparsi su diverse antologie e riviste. Ha pubblicato inoltre Il dono dell’occhio (Poiesis, 2011), Irpinia (Poiesis, 2012), Ad ogni passo del sempre (Aragno, 2013), L’acqua al cervello è una foglia (LietoColle, 2014), Poesie per Tiziana (Il Ponte del Sale, 2015) e Luogo del sigillo (Fallone, 2017). Per Avamposto cura la rubrica «Golpe».

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