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«Il canto invisibile della ferita»: recensione a "La Spina" di Silvia Vilariño

  • Immagine del redattore: Alessandro Pertosa
    Alessandro Pertosa
  • 21 lug
  • Tempo di lettura: 3 min

 

Con La Spina (Fas Editore, Ascoli Piceno 2023), Silvia Vilariño ci consegna una raccolta poetica capace di incidere sulla carne viva dell’esistenza. Curata da Alessandra Addari, l’opera è una radiografia emotiva intensissima, dove dolore e mancanza – quella per il figlio mai nato, per l’amore perduto o non vissuto, per la pienezza di vita sempre sfuggente – si impongono quali protagonisti assoluti, condensandosi nella potente immagine della «spina» conficcata nel cuore. Una ferita che non sanguina ma lacera in mille frammenti taglienti, scintillanti, capaci di incidere l’anima con la precisione di un bisturi.

In questo continuo fluire della voce poetica non v’è traccia di orpelli: ogni parola è cesellata con cura, ogni verso – breve, a tratti fulmineo – alterna confessione e denuncia, dedizione e colpa, luce e tenebra che albergano entrambe nelle pieghe più profonde dell’umano. Il libro diventa così uno specchio sincero e lacerante dell’anima fragile e indomita ormai naufraga e alla deriva, tesa con tutte le sue forze ad annaspare per restare a galla.

Il dolore qui è ovunque. E vibra ancora più forte grazie al doppio registro linguistico: ogni poesia è proposta in italiano e in spagnolo, generando un ritmo duplice che amplifica la risonanza emotiva e rafforza la polarità tematica – amore e odio, nascita e fine, chiarore e oscurità – rendendo il senso di vuoto simile a un puzzle incompiuto, qualcosa di universale, ecumenico e immediatamente condivisibile.

Da questa scelta estetica emerge anche un enigma che coinvolge l’autrice: chi è, davvero, Silvia Vilariño? Di lei non sappiamo nulla. Tre righe scarne nel risvolto interno della copertina ci rivelano la sua nazionalità argentina. Nient’altro. Nessuna traccia ulteriore. Nessun profilo social. Nessun indizio che rimandi a una donna in carne e ossa. Il suo nome si staglia opaco sulla pagina come l’ombra di un sogno sfuggente, quasi non appartenesse a una figura definita ma fosse piuttosto un soffio, un respiro, un nom de plume che oscilla linguisticamente tra l’identità italiana e quella sud-americana. O forse neppure questo: forse Vilariño non ha patria né lingua madre, ma è voce di chiunque e di nessuno, presenza collettiva, eco cosmica senza corpo né confine. Potremmo dire, in un certo senso, che questi testi sono attraversati da una voce che non appartiene a un individuo definito ma a un sentire diffuso, a una condizione esistenziale condivisa, capace di abbracciare l’intero mondo umano.

Alma Poesia CopertinaSilvia Vilarino La spina

La Spina è un vero e proprio atto apocalittico di svelamento del dolore. Ogni pagina squarcia la tela del reale e mostra la sofferenza in tutta la sua nuda intensità, che tuttavia si ritrae e sfugge alla presa o alla pretesa definitoria. Come se il cuore, pur lacerato, cercasse una verità che non sta lì davanti agli occhi, e che non è mai esclusivamente personale, ma specchio delle solitudini e delle fragilità comuni più nascoste. Ogni verso è una ferita aperta da cui traboccano luce e sangue, un monito – più che un conforto – ad accogliere la propria vulnerabilità.

L’intera opera si configura come un gesto di resistenza, un grido che rigetta le maschere e le convenzioni, offrendo un ritratto spietatamente autentico della condizione umana. Non c’è redenzione né riscatto; c’è la spina – la stessa che non uccide né guarisce – conficcata nel cuore come testimone di un’incompiutezza che rende ogni notte e ogni abbraccio un frammento di verità irrimediabilmente interrotta. La sua voce ci raggiunge a mo’ di schiaffo limpido e tremante, domandando non comprensione, ma verità. Verità irraggiungibile e per questo dolorosa.

La Spina è molto più di una raccolta poetica: è un sussurro che si fa grido, una resa dei conti con sé e con l’altro, con l’amore e la colpa, con la maternità ferita e invocata. È un testo che si muove tra confessione, accusa, pienezza e vuoto. È scritto da una donna ma parla a tutti coloro che si sono sentiti almeno una volta mancanti, rotti, vulnerabili.

La poesia di Silvia Vilariño è uno spazio sacro di esposizione e resistenza, un altare povero ma luminoso dove l’unico rito possibile è dare forma al dolore, inchiodarlo alla pagina per non esserne più schiavi. E se mai scopriremo se Silvia Vilariño esista davvero oppure no, poco importa. Resta in ogni caso il dono che ci ha lasciato: una parola che brucia e insieme illumina il cammino incerto su cui ogni giorno, con timore e tremore, posiamo i nostri piedi sulla via del destino che ci attende.

 

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