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  • Immagine del redattoreEmanuele Andrea Spano

«Il ricordo non è più necessario»: recensione a "Un vuoto d'aria" di Carlo Bordini

Un vuoto d’aria di Carlo Bordini, pubblicato nel 2021 nella collana Lo specchio della casa editrice Mondadori, è un libro postumo, affidato alle stampe un anno dopo la scomparsa dell’autore, eppure, a differenza di tanti libri postumi costruiti a tavolino sugli ultimi materiali del poeta o ricostruiti con rigore filologico a partire dai versi rimasti nei cassetti, questo libro esisteva già nella mente dell’autore e aveva una sua precisa fisionomia, come testimonia l’accurata nota al testo, firmata dall’autore stesso, in calce al libro. Ciò nulla toglie al merito di Francesca Santucci che ha saputo salvare questo libro dall’oblio e traghettarlo con un corredo di note, che ci consente di ricostruire l’intricata vicenda compositiva della raccolta, fino a noi, ma ci dice di come questo ultimo libro si trovi sul confine, a cavallo tra la luce e il buio, sospeso, suo malgrado, tra una dimensione e l’altra.

Un destino, quello del confine, che è stato anche di Bordini, poeta e scrittore che non ha mai voluto scegliere tra una vocazione e l’altra, e ha saputo esplorare con disinvoltura e senza manierismi quella zona grigia, di confine appunto, tra prosa e poesia, autore e intellettuale impegnato fino al midollo senza essere engagé; scrittore caustico e dissacrante con eleganza e senza chiasso inutile, cinico, come rivendica ancora in una sezione di questa raccolta, ma di un cinismo sano che non trascende mai in un qualche nichilismo sterile.

Se si vorrà ricercare una qualche dichiarazione di poetica tra le pagine di questo libro, basterà un sondaggio neppure troppo profondo dentro la raccolta a iniziare da Arti marziali, un testo il cui titolo lascia presagire ben altro significato. «non fare mai quello che ti è stato insegnato» scrive Bordini, quasi parlando a se stesso, «usa le tecniche per il contrario per cui sono state inventate» e ancora «usa le vecchie regole per fare cose nuove». Annotazioni, così parrebbero, che vanno a comporre una sorta di vademecum, che certo vale per la vita e il modo di affrontarla, ma che indubbiamente si attaglia al modo che Bordini ha di concepire la scrittura che non dimentica e non archivia ciò che ci è stato “insegnato”, ma che punta a sovvertire quel bagaglio, a ricomporre le tessere in un ordine e secondo una logica differente, a ripensare il modo di fare letteratura. In questo senso andrebbe guardato il rapporto tra poesia e prosa, quel dialogo che si crea, perfino dentro lo stesso testo, tra le due componenti, figlio, come si diceva, di una convivenza pacifica e proficua di due anime in Bordini, ma anche della consapevolezza che non è necessario scegliere, che non occorre porsi sotto l’egida confortante di un genere, che forse i generi, nel senso più antiquato del termine, sono finiti e conta ciò che si dice e il modo in cui arriva.

Si faticherebbe a dare una definizione alla scrittura, anzi alle scritture, di Bordini, se è vero che quella poetica muove dalla misura minima fino ad accenni di poemetto, che inghiotte forme di scrittura estranee, come il lessico omeopatico squadernato a contrastare la vertigine prodotta dalla mostruosità del paesaggio urbano; se è vero che la prosa accarezza il lirismo per poi farsi narrativa e raccontare, anche se per lacerti o squarci. La verità è che c’è una sorta di patina, un’atmosfera rarefatta, per certi versi onirica, che avvolge l’intero libro e tutte le sue parti, un qualcosa di simile a quella «guaina» di cui Bordini parla nel descrivere la “sua” Roma in una delle prose inziali del libro, una Roma “immaginaria”, gonfia di fantasmi che pare accogliere e inglobare ogni cosa, ma in cui i rumori paiono “attutiti” e tutto ricoperto da una «melina appiccicosa». Tutto pare provenire dal dentro per poi essere sbattuto sulla pagina, o venire dal fuori per essere poi masticato a lungo nelle viscere. Così i racconti sono in realtà trame che ci appartengono, memorie ricacciate fuori e ammantate perciò di una lieve nostalgia, di un sapore vagamente malinconico, le poesie nascono da un rimuginare, da un parlare sottovoce e talvolta non tradiscono la loro natura di appunto, di riflessione – fino a includere provocatoriamente le annotazioni al testo («credo che questa poesia sia meglio senza il punto finale.») – o addirittura di commento a qualcosa che si è letto, amato (come l’omaggio ai versi di Alejandra Pizarnik) fino a insinuare una sottile ironia, trattando persino l’amore, tema non troppo sotterraneo, con una forma di cautela – o forse, direi, di rispetto – che evita sbavature nel retorico o deviazioni, almeno all’apparenza, nel profondo, perfino quando il dialogo è rivolto alla moglie Myra ( «brillante e / fragile / come il cristallo», come recita l’esergo all’intero libro).

Allo stesso modo Bordini costruisce con sapienza l’intelaiatura di questo libro che pare agile, leggera, accostando materiali appartenenti a momenti diversi e lasciando che si armonizzino da soli, con la stessa levità lavora sul lessico, sulle parole (come l’eccezionale gioco tra «tassì» e «taxi» in una poesia in cui «fare l’amore era come andare sempre in taxi»), imprimendo una sorta di liquidità all’intera raccolta, che appare meno voluminosa e ingombrante di quanto sia davvero.

Il segreto è proprio lì, nel rendere lieve qualcosa che pesa molto e che spesso ci grava addosso, nel rendere volatile ed etereo quel peso che ognuno di noi si porta dentro, fatto di ricordi, di rimorsi, di recriminazioni e ciò che da fuori ci cade addosso, incombe su di noi, la bruttezza del mondo, le sue storture, le cose terribili verso le quali vorremmo, forse, provare “pietà”, ma non riusciamo.

E allora la consapevolezza che «chi scrive poesie non dà risposte» che segue il titolo, provocatorio forse, Non ho più idee, non è il segno di una resa davanti all’ineluttabilità del mondo e del nostro mondo interiore, ma un rifondare la scrittura, fuori dai confini certi e confortanti, sapendo che le cose serie vanno dette, ma che i modi, i toni e le parole per dirle sono tanti e fare poesia significa ammettere tutto nella propria pagina e non fingere di dominare le cose con la propria parola o di addomesticarle.



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