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  • Immagine del redattoreEmanuele Andrea Spano

«Il meglio della morte che nella vita vive»: recensione ad "Anamorfiche" di Danilo Mandolini

Quanto la poesia abbia a che fare con lo sguardo e quanto quello sguardo sia l’atto fondante della parola poetica è già stato detto e ridetto, eppure il titolo di questo libro di Danilo Mandolini, pubblicato per Arcipelago Itaca nel 2018 – a riprova che la poesia non ha scadenza e semmai delle volte andrebbe lasciata decantare – racchiude un senso quasi oracolare. Sì perché queste “anamorfiche” non ci dicono solo dello sguardo, ma della prospettiva e delle prospettive, delle angolazioni da cui le cose si guardano e si restituiscono attraverso la pagina. Se è vero che l’anamorfosi vuole che si riesca a vedere qualcosa soltanto attraverso un punto di osservazione – e uno solo – che non sia quello frontale, è altrettanto vero che la poesia, per sua stessa natura, è un perenne approssimarsi alle cose, un abdicare definitivamente la prospettiva diretta per guadagnare uno sguardo che riesca ad andare dietro quelle cose ed accarezzarne il senso ultimo.

Ecco in tutto questo a me colpisce non tanto l’adozione di una prospettiva diversa, – che da sempre è prerogativa non solo del poeta, ma dell’artista in senso assoluto – quanto la messa a fuoco, il gesto attraverso cui si arriva a intuire l’angolazione esatta, quella che consenta di trovare un accordo tra l’infinitamente piccolo e l’immensamente grande, tra il particolare e l’universale, tra il caos e la luce.

Nella poesia di Mandolini io ci ritrovo tutto questo, ci trovo non l’ostinazione di imporre una prospettiva, quanto la volontà di includere tutto, ci vedo il movimento della macchina da presa che lambisce le cose e la fa sue, prima di soffermarsi sul soggetto, ci vedo la consapevolezza che quelle cose sullo sfondo o nella penombra, quelle cose che percepiamo in sottofondo, sono parte del tutto e quel tutto in qualche modo lo determinano. Allora la scrittura deve farsi strumento per raccontare le anse del reale, per portare alla luce le storture e le nevrosi del nostro mondo, deve riscattare ogni minimo gesto, ogni intermittenza, deve farlo scuotendo la lingua, la parola. Così la poesia di Mandolini frantuma e ricompone la scrittura, la rende zoppicante e incerta confinandola tra le parentesi, sincopandola con i trattini – così come è zoppicante e incerto il nostro esserci e l’essere delle cose che si rivelano solo per barbagli – la distende nel ritmo della litania, della preghiera un po’ blasfema, seguendo le stazioni dolorose di una moderna via crucis, la squarcia e apre per cacciarci dentro tutto l’impoetico, tutto l’ingorgo della nostra società, tutto quel consumismo sordido che ci avvelena – lentamente – tra il rosso abbacinante del volantino e il ronzio sottile degli elettrodomestici bianchi, o grigi.


Le “psichedelie” di Mandolini esplorano con un’esattezza chirurgica non tanto ciò che la vista ci restituisce, quanto ciò che resta dietro, sotto, in sottofondo perché ormai è parte di noi o ci ha assuefatto: le voci, i rumori, la tempesta che ci tramortisce e ci sottrae al sogno, all’illusione, l’eco dei piatti in cucina, le voci meccaniche dell’altoparlante, della segreteria telefonica, quella del navigatore che paiono parlarci per la prima volta e chiederci di noi, di cosa ci stiamo a fare qui, ora. E a quelle voci si sovrappongono le tante che ci arrivano dal mondo, le notizie che ci piovono addosso, il brusio che ci accompagna sempre e ci impedisce di sentirle le voci vere, di percepire il “cigolio” degli anni, lo “scricchiolio” del divenire. Si avverte l’aleggiare di una qualche morte, che talvolta ci consola, alla quale ci accostiamo con una rassegnazione muta, una morte che è dileguarsi, evaporare in un al di là («dove sarà più facile capire, / che la sfida è ‒ / quaggiù, tutta, per tutti ‒ / a dissipare, a sottrarre /per gradi consecutivi o, / evaporando,

in un sol colpo), un perdersi quasi in un punto indefinito dell’orizzonte finché di noi, a testimonianza di noi, non resteranno che gli oggetti che abbiamo vissuto. La poesia allora indaga l’assenza, il silenzio, quel vuoto «che principia», certo di recuperare il senso della misura, di delineare i confini, come entrando in una stanza “colorata” e deserta, dove si può sorprendere per un momento «l’esistere», attraverso il gesto – non a caso – «silenzioso» della mano che apre la porta e reinventa lo spazio, o lo crea.

Ecco allora che l’obiettivo ha messo a fuoco, ha scavato, ha trovato la sua prospettiva, proprio scandagliando il fondo, calandosi nel “caos” mentre il cielo, «la curva celeste del cielo», ci si rivela nella scia evanescente di un aereo. Dal basso, dall’infimo, dallo strazio meccanico e metallico della città dell’apertura, di psichedelia in psichedelia fino alla ricerca di un qualche dio, fino a quella tensione “blasfema” verso un oltre, un aldilà, una salvezza. Per poi ricacciarsi nel delirio del consumismo, nel nostro mondo finto, fatto di volantini, di elettrodomestici a basso costo, di offerte speciali del Lidl in cui non ci si domanda mai che volto abbia il ragazzo che porta i volantini, dove sia finito il giorno dopo, senza mai concederli neppure una di quelle parole raccolte nel “freezer” accanto ai surgelati della Bofrost.

La luce, quella dell’epilogo, che arriva dopo questo itinerario sghembo fatto di luci e suoni, di «tintinni di sillabe», di immagini e preghiere, non può che ricondurre definitivamente al tutto, all’annullarsi perpetuo della vita nella morte e della morte nella vita (il maglio della morte, / il meglio della morte /che nella vita vive / pensando d’esser altro).

Danilo Mandolini è nato ad Osimo (AN), dove vive, nel 1965. Ha pubblicato, in versi: Diario di bagagli e di parole (1993), Una misura incolmabile (1995), l’anima del ghiaccio (1997), Sul viso umano (2001), La distanza da compiere (2004), Radici e rami (2007), A ritroso (2013), che raccoglie un nucleo di inediti e ‒ per ampi tratti rivisitata ‒ anche una vasta selezione di testi da tutta la precedente produzione, e Anamorfiche (2018). Sue poesie e suoi racconti brevi sono apparsi in antologie, riviste e blog letterari. La sua opera in versi ha ottenuto riconoscimenti in numerosi Premi letterari italiani. Nel 2010 ha ideato ed iniziato a curare “Arcipelago itaca”: un progetto di diffusione della poesia contemporanea e non solo che nel frattempo è divenuto anche casa editrice (www.arcipelagoitaca.it). Per Arcipelago itaca Edizioni, oltre ad esserne il titolare, è responsabile di alcune collane.

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