Emanuele Andrea Spano
«Cambiare gioco stravolge tutto»: recensione a "Krankenhaus" di Luigi Carotenuto
Leggere uno a uno i ventinove frammenti che compongono Krankenhaus di Luigi Carotenuto, il quaderno uscito per Gattomerlino nell’autunno dello scorso anno, è come ritrovarsi sotto una sassaiola lenta e costante, eppure invisibile, domandandosi a ogni colpo ricevuto quale mano abbia scagliato la pietra e da dove. Sì, perché la levità del tratto di Carotenuto, la misura che governa la sua parola non soffoca quel dolore sordo che si respira sotto, ma anzi fa da detonatore a quella sofferenza che la pagina tenta di arginare, rinchiudendola nella misura del verso.
Frammenti, appunto, e non in virtù della loro brevità, che certo di per sé non costituisce un dato rilevante, ma piuttosto in quanto prodotti di un processo di frantumazione che investe tutta la sua scrittura, che inarca i versi e li spezza con la cesura netta e sanguinosa degli enjambement, che stritola il dettato fino a costringerlo in un solo lancinante verso che racconta tutto da solo, con il bianco della pagina che minaccia di annegarlo.
Si realizza così in Carotenuto la convergenza tra significante e significato, il riunirsi della parola, della lingua, del metro a quel senso di vuoto, di mancanza che si vuole rappresentare, così senza ostentazioni inutili, con quella pacatezza che gli appartiene da sempre, con la maestria esatta dell’equilibrista che sa che non è concesso debordare neppure di una sillaba se si vuole restare fedeli alla propria materia, al proprio dolore.
La discesa nei meandri oscuri dell’ospedale, nei gironi danteschi del reparto accanto al padre, quel senso di sospensione, di attesa che pervade le stanze anestetizzate dai disinfettanti affiora per lacerti nella poesia di Carotenuto, insieme alla ressa dei ricordi che si affollano alla mente, al dramma di un figlio che diventa padre di suo padre a cui tocca, infine, l’onere dell’accudimento, il ribaltamento del “gioco” («sono tuo figlio. / Reggo il tuo specchio da sempre, ma ora /cambiare gioco stravolge tutto»), a cui tocca restituire in una volta e tutto insieme l’amore ricevuto. E quel bimbo, quel bimbo che era stato un tempo, chiede disperatamente che il gioco finisca lì, perché quell’assenza è «uno scherzo di cattivo gusto» («se giochiamo a nascondino, / mi arrendo, ho smesso di contare da un pezzo»).
Tutto pare immobile, come congelato nel tempo, tutto votato a un silenzio strisciante che prende le cose da sotto e le invola, le nasconde alla vista, mentre i colori sbiadiscono in una « […] muta / corsa» verso il bianco e pure l’ospedale diviene uno spazio dilatato, irreale dove tutto è sul punto di compiersi o di annientarsi. Quella parola ospedale che, se pronunciata in tedesco, per un momento sembra meno terribile, ma che ci restituisce tutta la sua tragicità un attimo dopo, nella congestione delle sue consonanti, nella bestialità di quelle “kappa” che ci colpiscono, tutte insieme, in quella “krankenhaus”.
L’idea che si possa salvare qualcosa, che qualcosa si possa riprendere prima che scivoli nel buio della morte assume quasi i connotati di un “miracolo”, un miracolo a cui per finzione paiono partecipare tutti. E così il bar diviene un «santuario», con la sua «perpetua» che serve al bancone, il padre stesso, nella sua «blusa verde» pare un «officiante», ma la radio restituisce una «messa atea di fame e miserie» e la «madonnina» con a fianco una rosa nella sua nicchia resta muta, senza più parole. Un miracolo che per un attimo pare compiersi solo nelle mura claustrofobiche dell’ospedale, mentre fuori quel presagio si è già fatto morte, nella solitudine delle stanze della casa, nell’abitacolo dell’auto dove il climatizzatore si inceppa e non vuole più partire. Fuori la vita è nel brulicare delle facce che affollano la piazza, quelle che dimenticano la città sepolta a pochi passi, la disciplina della lava che distrugge e conserva allo stesso tempo, rendendo ogni cosa immortale, come la poesia che sopravvive alla morte, in fondo.
Nato a Giarre (CT) nel 1981, vive a Castell’Arquato (PC). Ha pubblicato i libri di versi L’amico di famiglia e Vi porto via (Prova d’Autore, 2008, 2011), Taccuino olandese, Gradiva n° 48, rubrica Sguardi a cura di Mario Fresa (Olschki editore, 2015), Krankenhaus (gattomerlino, Roma, ottobre 2020). Collabora con la rivista l’EstroVerso (www.lestroverso.it) diretta da Grazia Calanna, trattando prevalentemente di poesia contemporanea, arte e psicologia. Presente in diverse riviste e antologie, una selezione di testi, tradotta in francese a cura di Irène Dubœuf, è stata pubblicata sulla rivista Terre à ciel.
Comments