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  • Immagine del redattoreEmanuele Andrea Spano

«Finiranno i giorni»: recensione a "Scurau" di Giuseppe Nibali

Creazione e distruzione sono i poli attraverso cui si muove la parola di Nibali, due poli che si attraggono e si respingono, che si sovrappongono e si compenetrano fino a fondersi in quella tenebra, già potentemente evocata nel titolo, che richiama archetipicamente tanto il prima del tutto quanto il dopo. Scurau, il titolo appunto di questa raccolta uscita per Arcipelago Itaca nel 2021, nell’ “idioletto” etneo di Nibali a rigore di grammatica è un tempo passato, anche se, come spesso accade in certi dialetti del meridione, riesce, più della lingua italiana, a immortalare l’attimo, a fermare il tempo e dirci di qualcosa che è appena avvenuto, che pure è già passato.

Anche per questo resta il dubbio su quale sia la collocazione di questo evento, quale sia stato il discrimine tra la luce e il buio, se sia un approssimarsi delle tenebre o se in qualche modo in quelle tenebre ci troviamo già impantanati senza saperlo. Si potrebbe dedurre dalla successione delle tre sezioni il senso di una discesa, muovendo da quell’ “antropocene” che fotografa l’azione dell’uomo, o per meglio dire l’impatto dell’uomo, sulla Natura, fino all’oscurità dell’ultima sezione, passando inevitabilmente attraverso quella “predazione”, che racconta di un processo di bestializzazione dell’uomo che ormai ha rivelato la sua natura ferina e ha smarrito definitivamente la sua componente di civiltà. Tuttavia le tenebre paiono avvolgere fatalmente ogni sezione e non si registra neppure un accenno a un qualche stadio di grazia precedente, né sotto forma di nostalgia, né in opposizione a una forma di imbarbarimento subentrata dopo, semmai le tre sezioni sono a loro modo una diapositiva della persistenza di quell’oscurità, del prevalere del buio sulla luce.

L’assenza di un’evoluzione, o involuzione, di un qualche movimento, la paralisi che tramuta ogni gesto, ogni azione in una coazione aberrante, o peggio in una coazione a ripetere, l’immobilità asfittica e stagnante che Nibali racconta sono forse i tratti precipui di questo libro e al tempo stesso quelli che tramortiscono il lettore che si trova catapultato in una dimensione catatonica e ripugnante.

Si diceva del pantano, prima, e quel pantano, fatto di feci, di merda, quel pantano dove gli uomini paiono disintegrati e ridotti a un cumulo di ossa e sangue, a un telaio vuoto in cui le viscere pulsanti restano l’unica traccia di vita, è forse la definizione più calzante all’universo costruito dalla scrittura di Nibali. Un pantano che la lingua, le parole rendono ancora più viscido e insidioso, sotterrando ogni consequenzialità, ogni nesso apparente, ammassando immagini decise, taglienti, travalicando coscientemente i confini della scrittura. Quei tecnicismi, quelli della botanica, della biologia che balzano fuori dal dettato, rendono questo terreno ancor meno praticabile e tragicamente scivoloso, e non rispondono alla necessità, tanto novecentesca, di raccontare l’inesprimibile, di dare ordine a un disordine, quanto alla volontà di mostrare l’intreccio sozzo della realtà umana in tutta la sua inestricabilità. L’ordito, per certi versi quasi oscuro, cela una moltitudine di riferimenti e rimandi che la poesia ha ingoiato e digerito, lasciandoci soltanto un tetro sentore di decomposizione che pare aleggiare dovunque: Nibali ci risparmia il cronachismo fine a se stesso, l’autopsia del reale e ci caccia direttamente dentro quelle budella fatte di parole, di immagini, di simboli svuotati, di miti disintegrati e fatti a pezzi. Emergono allora tracce di luoghi – Ragalna e Maletto – da quella geografia etnea di cui recupererà l’idioma e la voce; pezzi di riti quasi tribali, di rituali, di cerimonie religiose, di scritture sacre masticate, visioni quasi apocalittiche e presagi, richiami alle alluvioni e ai terremoti, resti, insomma, su cui domina il balzo agghiacciante della leonessa che azzanna la gru o la ragnatela tessuta dalle mandibole del ragno. Emergono tratti della “bugonia” di virgiliana memoria, che ci svelano lo scenario più allucinante tessuto dalla poesia di Nibali. Gli insetti che nascono dalla carcasse, la vita che si origina dalla morte, dalla faccia più raccapricciante della morte stessa, ci rinvia a quell’intreccio di vita e morte che si ripete ossessivamente nel sottotesto di questo libro: la nascita come squarcio del ventre, come ferita che apre e dilania la madre, come rottura di quella placenta, che forse, scrive, non abbiamo mai veramente aperto, il mescolarsi di “sangue” e “sperma” che ci rivela il fondo più oscuro dell’animo umano, il suo volto ferino, l’istinto all’unione e alla sopraffazione che diventano una cosa sola.

Se è vero, insomma, che non si vuole qui valutare l’imbarbarimento della civiltà, il suo declinare verso un crepuscolo secondo una curva netta e definibile, è altrettanto vero che si affaccia l’ombra della tecnologizzazione, della digitalizzazione, della spettacolarizzazione fatua della nuova comunicazione di massa, eppure quel «serpaio di cavi» che c’è entrato dentro e sta quasi sotto la nostra pelle si mescola con una rappresentazione dell’uomo quasi primordiale, un uomo regredito, senza saperlo, a uno stadio primitivo e per certi versi bestiale.

Sarebbe da chiedersi ora quale sia il ruolo di quel dialetto siciliano, scelto non solo per l’ultima ed eponima sezione, ma anche per il titolo dell’intero libro, quella lingua ruvida e affilata che ci traghetta dichiaratamente dentro il buio e, al netto di improbabili questioni nostalgiche o campanilistiche, al netto della necessità di raccontare un universo che avrebbe senso, e luce, solo attraverso quell’idioma, non resta che interrogarci sulla visione stessa della poesia di Nibali e sul suo modo di concepire la scrittura, per provare a comprendere. Quella lingua infatti è al tempo stesso l’estensione di quel plurilinguismo che caratterizza la sua poesia e la sintesi, incarna la possibilità di una lingua alternativa, pura, non corrotta, ed è una lingua dell’anima, dell’interiorità che parla con un tono quasi oracolare, spingendo la poesia di Nibali oltre i confini castranti di quella palude.


Giuseppe Nibali è nato a Catania nel 1991. Si è laureato in Lettere Moderne e in Italianistica a Bologna dove è stato membro del Consiglio Direttivo Centro di Poesia Contemporanea dell’Università. Giornalista Pubblicista, è direttore responsabile di Poesia del nostro tempo e curatore del progetto Ultima. Collabora con Le Parole e le cose, La Balena bianca e con il magazine Treccani. Ha pubblicato i libri di poesia: Come dio su tre croci (Edizioni AE, 2013), e Scurau (Arcipelago Itaca, 2021). Per Italo Svevo Edizioni è appena uscito il suo romanzo d'esordio, Animale.

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