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  • Immagine del redattoreSara Serenelli

Le Giovani Interviste di Alma: Sara Sermini

Continuiamo con Sara Sermini il nuovo spazio "Le Giovani Interviste di Alma", dedicato alla messa a fuoco del pensiero e della poetica di giovani autrici e autori talentuosi.


I primi sette appuntamenti saranno dedicati alle poetesse e ai poeti inclusi nel Quindicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos 2021).



La tua silloge Diritto all’oblio contenuta all’interno del “Quindicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea” (Marcos y Marcos 2021) pone i lettori e le lettrici dinnanzi a una sfida già dal titolo. Come ricorda anche Antonella Anedda nella prefazione alla tua raccolta, l’espressione “diritto all’oblio” è un “termine, giuridico, che indica il diritto da parte di una persona a non essere più ricordata in relazione ad alcuni fatti che l’hanno riguardata in passato”.

Dunque il diritto di essere dimenticati, e già in questa prima accezione il titolo della raccolta risulta essere denso di significato, allusivo ed evocativo al contempo. Ma c’è sicuramente di più: è possibile leggere dietro a questo titolo uno dei tuoi giochi linguistici, il rimando a una condizione esistenziale, a un destino condiviso? Quello che intendi donarci attraverso questa tua poesia è un oblio “vivente” come quello di Zanzotto del quale poni emblematicamente in esergo alla poesia di apertura l’haiku “…oblivion, yet living oblivion. / …oblio, ma oblio vivente”?


In un certo senso è un gioco sull’io che si ‘batte’ per il proprio diritto all’oblio, pur essendo ironicamente destinato ad andare diritto all’oblio. Questo sì, però non era mia intenzione ‘sfidare’ chi legge; se c’è una lotta è col linguaggio.

Le poesie raccolte nel Quaderno mettono in gioco, dal punto di vista linguistico, esperienze del tutto comuni come la malattia e la fragilità corporea. Si tratta di vissuti privati e politici che condizionano il presente non in prima battuta su un piano psicologico, non in profondità dunque, quanto su un piano ‘superficiale’, letteralmente sul piano della superficie corporea. L’attenzione alla dimensione sensibile della malattia è affiancata alla ricerca di una lingua che possa tradurre verbalmente l’esperienza percettiva. Ho cercato di osservare i modi di adattamento del corpo fragile alla realtà, nell’oblio vivente di sé che si cerca di compiere quando l’io è fatto di carne ammaccata e richiede continue attenzioni. E poi ho provato a trasformare questi esercizi di osservazione in termini di linguaggio. Scrive Virginia Woolf in On being ill, il suo saggio sulla malattia: “[we] cannot separate off from the body like the sheath of a knife or the pod of a pea”. Questo è invece molto spesso il desiderio di chi vive una lotta interna al proprio corpo, nella consapevolezza di non potersene separare “come il coltello dal fodero o il seme dal baccello” (cito in un testo questa immagine). Ho provato a incorporare nella scrittura questa impossibilità anziché tematizzarla; è una scrittura-corpo in stato di vulnerabilità acuta o cronica che rielabora il dato sensibile. Forse Diritto all’oblio è non solo il diritto ad essere dimenticati, ma anche a dimenticarsi di se stessi.


I versi incipitari di Parentesi bastano già da soli a evidenziare il profondo lavoro e la intensa riflessione che, attraverso la tua poesia, proponi sulla lingua, le sue potenzialità e i suoni. Qui i segni grafici delle parentesi passano a rappresentare e a indicare differenti stati del pensiero che affronti anche con una certa vena ironica. Con maestria riesci a tirar fuori, da ciò che per sua natura la lingua porta con sé, una serie di accostamenti arguti. Quanto e in che modo, a tuo avviso, l’aspetto metalinguistico contribuisce a determinare il senso della tua raccolta? Reputi l’ironia un elemento importante della tua pronuncia poetica? Queste componenti sono da intendersi come presa di distacco o di avvicinamento alle realtà e alle tematiche che abbracci con i tuoi versi?


Il lavoro che ho compiuto è proprio sul linguaggio. Le parole sono mappe, che permettono di sgusciare fuori dalle parole stesse. È in gioco il pensiero che, chiamato in causa dall’esperienza corporea, tenta vie di fuga, strategie immaginifiche per allontanarsi temporaneamente dal corpo. L’io prova ad affidarsi alla ‘sicurezza dei nomi’ (ai nomi delle erbe, per lo più medicinali, a termini inerenti la sfera corporea o della memoria, termini che vengono smembrati), ma il corpo ha il sopravvento. L’esperienza sensibile sovrasta continuamente ogni tentativo di definizione. Non si tratta di mettere in atto quel processo di ‘metaforizzazione’ della malattia giustamente contestato da Susan Sontag, piuttosto di esporre il processo di reazione di fronte alla realtà precisa dei fatti, davanti al referto. Sulla pagina, esposte, ci sono le fragilità del corpo e del pensiero. Il testo è pieno di erranze linguistiche, alle quali corrispondono altrettanti tentativi di fuga più o meno scoperti. La vulnerabilità è dunque interna al testo, ed è esposta. La fuga è una pratica di resistenza (e non di resilienza), un modo per far fronte, esponendosi. L’ironia è fondamentale, ma non è un artificio retorico, credo piuttosto che sia dentro alle parole.


Tra gli aspetti più interessanti di Diritto all’oblio c’è di certo una sorprendente tecnica compositiva che da un lato fa ricorso a linguaggi settoriali quali quello medico, giuridico, scientifico e soprattutto quello botanico (la tua raccolta potrebbe essere definita anche come un erbario nel quale, lo sottolinea Antonella Anedda nella prefazione, fiori e piante “concretizzano stati mentali diversi”) e al contempo un plurilinguismo che porta con sé anche una avvincente polifonia; dall’altro spicca una strategia etimologica che dà spesso avvio al discorso poetico, salvo poi spostarsi su un altro piano, più personale seppur con parsimonia. È anche grazie a questa strategia che riesci a conservare quella distanza-prossimità che ci coglie di sorpresa di cui riferisce Anedda? C’è la volontà di osservare il pensiero nel suo farsi e disfarsi, nei suoi cedimenti e nelle sue illuminazioni, nella sua ineluttabile metamorfosi in oblio?


Forse ho in parte già risposto a questa domanda. Quanto alle lingue... mi interessa soprattutto l’aspetto orale e performativo, il ritmo del parlato. Mi muovo tra le lingue, come molte persone. Negli ultimi anni ho vissuto soprattutto fuori dall’Italia, sperimentando la povertà del mio inglese e del mio francese. Così come del mio italiano. Sono cresciuta sentendo parlare dialetto lombardo e tranese, in una casa in cui i libri erano soprattutto in russo (ma è una lingua che riesco appena a leggere, senza capire pressoché nulla). Se scrivo in più lingue è perché a volte il pensiero si fa (o disfà) in un luogo e ne porta traccia. L’essere tra lingue diverse permette anche di prendere le distanze da se stessi.


Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti.

Qual è la tua posizione a riguardo? Come vedi il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?


Mi interessa come fenomeno. Mi interessano le questioni legate alla visibilità e soprattutto all’invisibilità, ai meccanismi di potere che regolano entrambe. Mi interessano le problematicità e le contraddizioni del linguaggio empatico (anche nella sua variante cinica), che caratterizza il discorso critico che si svolge sul web e che contribuisce alla costruzione del “profilo” di poeta/critico (sui social soprattutto). Mi interessano le tendenze del linguaggio e la creazione di categorie di pensiero alle quali il web dà risonanza e dentro le quali prendiamo posto più o meno scomodamente. Alcune parole chiave del mercato culturale hanno presa sul linguaggio poetico e vengono usate anche perché sono continuamente ripetute, fino a svuotarle di senso o a mutarle di segno. Sono parole importanti ma che spesso macerano nello stesso calderone capitalista che ha interesse a diffonderle. Cerco di osservare questi fenomeni “di travaso”.

Certo, il linguaggio della rete influenza la poesia; quello del web è però un linguaggio rapido e che può non avere tenuta. Ciò che mi interessa di più è forse il cortocircuito tra la dimensione visuale e linguistica che si crea sul web, la sua tensione immaginifica.


Siamo nel 2021, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurito: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo.

Alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout-court e in riferimento anche alla conta che sempre viene fatta di autori uomini e autrici donne presenti in lavori corali come quello di cui il tuo Diritto all’oblio fa parte, come inquadri l’argomento e qual è la tua opinione a riguardo? Soprattutto, prevedi un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo?


Posso dire la mia esperienza. Personalmente cerco di tradurre il pensiero di matrice femminista in una pratica politica e poetica, dunque etimologicamente attiva. Questo equivale a una presa di coscienza del proprio posizionamento nel mondo e nell’individuazione, certo, di molteplici traiettorie. Alcune di queste si dispiegano, per me, sul piano della ricerca letteraria, traducendosi nella scelta di percorsi motivati anche da un impegno estetico e politico, il quale spesso muove anche la mia partecipazione al dibattito critico.

Se penso alla poesia, non so dire se la mia scrittura sia femminile. Se questo significa assegnarle delle caratteristiche specifiche di genere, tenderei a dire di no. Se per ‘femminile’ si intende più semplicemente ‘scritto da una donna’, potrei dire di sì, ma occorre altro per caratterizzare (anziché categorizzare) una scrittura.

Quello che posso dire con più certezza è che il pensiero femminista entra obliquamente nei testi che scrivo. Ad esempio, il discorso sulla malattia, al quale accennavo prima, si nutre della riflessione di donne, proprio perché la medicina le ha da sempre ‘trascurate’. Basti pensare al lavoro necessario che si sta compiendo, ancorché lentamente e con continui ostacoli frapposti dal mercato (patriarcale, sì) della cura, nell’ambito della cosiddetta “medicina di genere” (di transgender medicine si parla invece pochissimo). Ed è un lavoro portato avanti soprattutto da donne. In questo senso i numeri contano. Mi interessano dunque questi numeri, ma non le schematizzazioni di genere che ricorrono anche in ambito letterario. Non amo molto questo continuo definire per schierarsi e armarsi, fa parte di un linguaggio che rifuggo. In generale mi stanno scomode le etichette, anche se a volte servono per prendere posizione. E prendere posizione non significa restare immobili, ma muoversi a partire da lì, da un punto, scrollandosi di dosso le definizioni. Se dunque riesco a delineare il pensiero femminista su un piano teorico, non saprei usare termini precisi per definire una scrittura come la poesia, di fatto una cosa imprendibile.


Ti chiedo di scegliere da Diritto all’oblio tre testi e di riportarli qui per le lettrici e i lettori di Alma.


Catharanthus roseus

Sono soltanto fiori. Trabocchi

di fiori e fiorisci

nella sicurezza dei nomi.


Nome comune: pervinca del Madagascar.

Apocinacee. Famiglia delle Apocinacee:

piante dicotiledoni. Se ne

ricavano due alcaloidi

–– dacci oggi

vincristina et vinblastina a

nucleo indolico monoterpenico.

Amen.


Sullo schermo, splendida,

l’immagine istopatologica:

rosa e viola

come i petali della pervinca.


FUGA


radice BHUG [dal greco PHUG, latino FUG] piegarsi, curvarsi, evitare

sanscrito bhug’-a-ga che va per curva, il serpente

bhug’-as braccio e proboscide


Chi fugge si piega,

accetta le linee curve,

il rischio del serpente in scorza di bruco.

A fatica traccia vie d’erba.


Chi fugge si piega,

come l’acqua,

cambia piano il percorso,

fa l’amore coi sassi.


Lemna minor


Green means ‘to grow’, as grass.

Il colore dell’acqua stagnante:

iniziamo da lì.


Verde que te quiero verde, eppure,

there’s grass on the grave:

nessuno l’estirpa, il suo rizoma

si espande e si estende

above the mealy-mouthed me

(parola melmosa)

Green rhymes with grey

in questa città di catrame,

sulle lenti d’acqua dei canali.

On the grey grates of crisis

I see (Got it – not)

the curve of time,

the blessing cross

einer Revolution.


Tourner le tournetable,

ça fait de la musique:

L’ho raccolta in mezzo al prato

l’ho raccolta nel mio giardin

Margherita è un nome dorato

Margherita è il nome di un fior.


«Si può senz’altro opporre

al plusvalore del capitale

un plusconcetto della vita».

Plus-life is green as grass.

I strive again in the velar vertigo.

Verde que te quiero verde

fricative fricassée.


Sara Sermini (Varese, 1986) vive attualmente tra Milano e Parigi. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università della Svizzera italiana con un progetto intitolato Dare voce. Poetiche e pratiche di povertà nell’Italia del secondo dopoguerra. È stata Visiting doctoral researcher presso University College London e ora è Visiting research fellow presso l’Université Paris Nanterre. Ha dedicato una monografia alla figura e all’opera di Amelia Rosselli: «E se paesani /zoppicanti sono questi versi». Povertà e follia nell’opera di Amelia Rosselli (Olschki, 2019). È autrice di una raccolta di poesie intitolata Diritto all’oblio, in parte pubblicata nel Quindicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2021).

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