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  • Immagine del redattoreEmanuele Andrea Spano

«’sta fadiga de inventass tutt’i dì,»: recensione a "qohèlet rejected" di Daniele Gaggianesi

Non sarebbe più da parlare del rapporto tra dialetto e poesia, in fondo perché non esiste una “questione dialettale”, nonostante tanta critica negli ultimi decenni abbia rilevato l’esistenza di una trama sotterranea, di un filone interno alla letteratura, come troppo spesso è stato derubricato, rifiutandosi tante volte di accettare nel novero della letteratura “vera” le numerose voci che hanno fatto del dialetto il loro mezzo di espressione. Non sarebbe da parlarne anzitutto perché vale, quantomai oggi, l’assunto secondo cui ogni poeta sceglie ed elegge la propria lingua, e poco importa quale sia e quale siano le sue ragioni, né il vincolo che lo lega a quell’idioma, mentre sempre andrebbe valutato ciò che fa di quella lingua, il modo e l’intelligenza con cui modella quella materia, l’effetto che sa trarne.

Eppure trovandosi al cospetto di questo libro di Daniele Gaggianesi, qohèlet rejected (Schena Editore 2020) si resta stupefatti dalla potenza espressiva di quella lingua che ingloba e respinge al tempo stesso, in un movimento incessante fatto di attrazione e repulsione, altre lingue e altri linguaggi, modellandoli in un pastiche multiforme ed esplosivo che rasenta talvolta il cortocircuito, ma che alla fine si sgonfia e si appiattisce, quasi fosse vittima di quel “vuoto” che in qualche modo racconta. E si è tentati di chiedersi, contravvenendo a quanto detto prima, cosa abbia spinto questo poeta a eleggere proprio quel dialetto milanese, così distante per certi versi dalle lingue distorte e sincopate di certa modernità, a denominatore comune, a fondo, nell’accezione migliore del termine, su cui inscenare lo scontro tra tanti elementi apparentemente discordi. Non certo un nostalgico e anacronistico conflitto tra tradizione e modernità, quanto piuttosto proprio l’efficacia espressiva, l’immediatezza linguistica di quel dialetto su cui è possibile innestare l’inglese disgregato del linguaggio informatico – ma anche quello logoro e un po’ fasullo delle reclame commerciali, dei telefilm americani, dei finti tecnicismi di ogni sorta e tipo – un linguaggio alto, abilmente celato dietro la parvenza di registro basso, che pare a tratti dominante, e addirittura il non linguaggio degli emoticon e della comunicazione smart e veloce. Un cortocircuito, come si diceva, spesso corteggiato, ma mai condotto fino all’esasperazione, che si alimenta di una trama di contrasti continua.



Già il titolo, di per sé, è giocato sul contrasto, quello incontrovertibile tra sacro e profano: qohèlet rejected. Da un lato l’evocazione di uno dei libri più affascinanti e sapienziali della Bibbia, destinato a divenire la struttura di questa raccolta, e dall’altro quell’aggettivo inglese, al limite tra tecnicismo e linguaggio basso, che quasi lo nega e lo sporca, solo apparentemente privandolo del suo significato più profondo. Qohèlet che è anche, secondo un meccanismo antifrastico insistito, il nickname del personaggio, rivelato sotto la censura impietosa delle “x” che lo camuffavano, ma che resta sempre quel testo biblico, con tutto il suo carico filosofico e la sua valenza ormai quasi profetica, capace di raccontare impietosamente e senza orpelli la nostra desolante contemporaneità.

Il contrasto poi è quasi inevitabile nella struttura: da una parte l’espediente, squisitamente narrativo, dell’opera apocrifa, la premessa sotto forma di lettera alla madre del sedicente criminale informatico, macchiatosi di un non precisato reato, che porta a galla quella riscrittura così paradossale del Qohèlet, e dall’altro la poesia, il poemetto frantumato e dilatato, suddiviso in dodici parti, tanti quanti sono i capitoli del testo cui si richiama.

Ma la trama dei contrasti è ben lungi dall’esaurirsi, se fin da principio tutto nasce dal conflitto tra un dentro e un fuori: il dentro, quello claustrofobico della stanza in cui il protagonista agisce e vive, il fuori quello del mondo che ci giunge a tratti dal rumore incessante dei clacson, nella sua ridda di voci disturbante. Quel dentro, in cui si è seppelliti, da tutelare e proteggere dal fuori, dallo sguardo indiscreto che ci spia dalla finestra, dai flash degli autovelox che ci attraversano e ci colpiscono. E allora bisogna rompere quella finestra, frantumarla perché lo sguardo non ci trovi e ci attraversi; bisogna conservare quel dentro che oramai è diventato un universo incomprensibile di circuiti fino a sentire uno per uno i threads che ci percorrono. Quel fuori di cui ci restano memorie scomposte e talvolta tragicamente premonitrici, come la discarica, in cui andava con lo zio a scaricare il polistirolo, quella discarica che ci racconta di altre discariche abnormi fatte di elettrodomestici esausti, dei pezzi di quel mondo di fili e cavi, quella discarica che infine siamo noi, così fatti di «sangh de chì, ròbba elettrica de sù» affogati nel silicio. Un contrasto che diventa in fondo conflitto tra vita e morte, ma quella vita e quella morte non hanno più il valore alto su cui discetta il saggio nella sua riflessione, ma hanno perso ogni consistenza e spessore, se esistiamo solo nei social, se moriamo per effetto del ghosting, se la vita è solo un riflesso stanco di quell’esistenza virtuale in cui solo ci riconosciamo. Reale e virtuale, vero e falso possono confondersi, annientarsi tra loro, l’immaginario spalancato dalle nostre nevrosi può diventare una realtà in cui confidiamo ciecamente; le allucinazioni, le visioni possono popolarsi di fantasmi oscuri e il discrimine tra ciò che esiste e ciò che è pensato azzerarsi.

Ecco allora che il vuoto, quella vanità di tutte le cose di cui si accorge il saggio del Qohèlet, prende il sopravvento, e quel vuoto genera e distrugge e ci ingoia senza che neppure ce ne rendiamo conto, «tuscòss l’è on boff» come constata, in apertura di tutto il saggio, o ancora «sont on boff, on strenud» come torna a dire alla fine del poemetto, per voce e per mano di qualcun altro, annientandosi e scomparendo esso stesso in quel «nagòtt de nient» che prima riconosceva in tutto il mondo che lo circondava.

Una circolarità perfetta che lascia aperto l’interrogativo più pressante e inquietante sul senso di tutto, sul senso di noi stessi e del nostro passaggio, sul senso stesso della vita umana. Ecco che la lingua, quel dialetto che ha accolto e inghiottito tutte le tracce e i detriti di quel mondo allucinato che ci respira attorno, pare spegnersi anch’essa, ridursi alla sua forma più basica ed essenziale. Così quegli «scampanamen de clacson» nei quali anche nella trama del dialetto si può avvertire una forma di resistenza all’erosione del linguaggio della contemporaneità, si spengono nel «frin fran» nel “din dòn dan» regrediscono a una forma pregrammaticale, così l’autore, il personaggio, l’alter ego e il suo contrario e ogni figura che prende parola su questo scenario desolato, scompaiono nella trama dell’opera, si eclissano nel nulla, proprio quando prendono consapevolezza della loro vacuità, della loro insignificanza.

Un esercizio, quello sulla lingua, sulla parola, sul significante e sul suo rapporto sempre incerto con il significato, che non è pura acrobazia, nonostante di acrobazia in senso buono se ne avverta tanta, ma lavoro sulla materia in senso più assoluto, sulla nostra materia, sul nostro essere al mondo e su quanto e come quel mondo possa azzerarci fino ridurci a un soffio.


Daniele Gaggianesi, classe 1983, è nato e cresciuto a Corsico, alle porte di Milano.

Dopo il liceo scientifico, si è diplomato come attore alla Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi e ha conseguito la laurea in lettere moderne presso l'Università degli Studi di Milano.

Accanto al lavoro di attore, porta avanti un progetto di ricerca poetica in milanese, dove usa il dialetto per creare un effetto straniante rispetto alle tematiche della metropoli e della civiltà occidentale contemporanea.

Nel 2017 ha vinto il premio “Arcipelago itaca”, indetto dalla casa editrice omonima, con cui ha pubblicato la mia prima raccolta di poesie Quand finìssen i semafor - Quando finiscono i semafori (2018), volume per cui ha ricevuto il Premio Tirinnanzi 2019.

qohèlet rejected, pubblicato ad aprile 2020 da Schena Editore, è vincitore del Premio Testori.

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