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Immagine del redattoreEmanuele Andrea Spano

«Pur sempre un’amnesia»: recensione a "Nostantropia" di Gerardo Iandoli

Il titolo – e il sottotitolo – di quest’ultimo libro di Gerardo Iandoli, Nostantropia. Videogioco a scarsa risoluzione, uscito per Arcipelago Itaca sul finire dell’anno scorso, rivela all’apparenza già molto del carattere e della direzione di questa poesia, spingendo il lettore, prima ancora di iniziare a sfogliare le pagine, a domandarsi quale sia il senso ultimo di quell’hapax che il poeta ha scelto e, magari, quanto lavoro sulla lingua e sulla scrittura debba attendersi da una raccolta che porta un titolo tanto pesante.

Sarebbe facile cercare di sciogliere quel sintagma, scomponendolo nei suoi elementi fondamentali. È vero: c’è il nostos e c’è l’uomo e l’umano, ma il nostos già di per sé è parola che apre a una miriade di sfumature di significato: il viaggio, la lontananza, il ritorno, l’esilio e che certo ci evoca un universo linguistico e culturale profondo. E poi c’è quella vicinanza, avvertibile almeno da chi scrive, con la parola “nostalgia”, che invece, per quanto abbia a che fare con quella distanza di cui si diceva, raggruma il suo senso nella parte finale, nel dolore, nell’idea di uno smarrimento, di una perdita, nella solitudine di chi, appunto, è lontano.

Ecco, se è vero che davanti allo scenario evocato dai versi di Iandoli che scorrono pagina dopo pagina senza soluzione di continuità, costruendo mattone dopo mattone un universo muto e meccanico, un senso di solitudine ci pervade, è altrettanto vero che quel dolore, quella mancanza non è scritta in queste poesie, ma è una sensazione piuttosto che ristagna in chi legge. Non c’è compiacimento o commozione, non c’è il senso di un percorso di disumanizzazione, di una scomparsa dell’uomo, c’è un mondo che fatichiamo a collocare, un sistema in cui a prevalere sono suono sordi o stridenti, bip meccanici, in cui le materie, i materiali si combinano e si sfiorano producendo un attrito che si attutisce e quasi si disperde in un universo concavo, vuoto in cui anche le coordinate spaziali sono azzerate. La vita è congelata e cristallizzata fin dalla sua origine, il pianto del nascituro presto si tramuta in un fischio, e il pianto stesso diviene un pezzo di quella catena di montaggio, il prodotto di ingranaggi che si muovono: l’idea stessa della maternità, del gene umano pare assorbita in una partitura esatta in cui tutto accade, senza deviazioni, per una logica di causa ed effetto, senza sbavature, come se una enorme macchina invisibile riportasse tutto alla precisione del calcolo.

Eppure in questo universo sterile restano dei residui, degli scarti: il bacio, che pure prevede una geometria, un intersecarsi di piani, lascia spazio alla «foga», al «perdersi di senno», l’amore, per quanto appaia ridotto al «rumore dei segnali / in interferenza» è pur sempre un’«amnesia / dove lo sguardo rifiuta la caduta». Un’amnesia, appunto, uno sfuggire a quel sistema senza memoria e riconoscere la possibilità di una caduta, di una deviazione rispetto al percorso forse, o forse una “interferenza”, per tornare a quanto diceva in precedenza, un’interferenza momentanea dentro un sistema computerizzato che procede assecondando un percorso già scritto e consequenziale.

Forse, dico, perché ciò che maggiormente stupisce di questa raccolta, e che certo non è frutto di un calcolo casuale, è la libertà che il poeta lascia a chi legge, senza la presunzione di fornire una soluzione definitiva, una destinazione. Il poeta costruisce un mondo attraverso la sua lingua, un mondo in cui affiorano materiali plastici, consistenze siliciche, formazioni rocciose, in cui gesti sono accennati, e il lettore li ricompone in un suo universo, figlio di quel mondo, eppure totalmente nuovo e per certi versi irriconoscibile.

Che cos’è allora il videogioco, quello del sottotitolo? Siamo noi gli attori inconsapevoli di quel videogioco, spiati e osservati in continuazioni da telecamere invisbili, da webcam – al netto di qualsiasi implicazione ciecamente orwelliana – o è il libro stesso a essere un videogioco che in qualche modo possiamo impugnare e manovrare? Che cos’è allora la poesia? Iandoli ne esce, obbligando ancora una volta il lettore a compiere un gesto – quello di capovolgere il libro – senza darci una risposta, con un divertissement più serio di quanto sembri. Se la poesia diventerà un desiderio di tanti, allore forse servirà un chip per comprenderla, ma quel chip potrebbe sostituire il cervello umano. A quel punto la poesia sarà dovunque, ma dell’uomo che cosa ne sarà? Iandoli non risponde, e d’altronde una risposta non serve.



Gerardo Iandoli, Alma Poesia, Copertina

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