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«Ogni luce ha la sua ombra»: recensione a "Quel che il lampo ha da dirti" di Luigi Nacci

  • Immagine del redattore: Alessandro Pertosa
    Alessandro Pertosa
  • 10 nov
  • Tempo di lettura: 4 min

C’è sempre un punto da cui si parte, e non è mai l’inizio. È una fenditura, un lampo che apre la notte e la divide in due: da una parte la perdita, dall’altra la luce che resta a vibrare nelle pupille. Quel che il lampo ha da dirti di Luigi Nacci (La Gialla, Pordenonelegge – Samuele Editore, 2025) nasce dentro quella fenditura. È un libro che non racconta: accade. Non costruisce una biografia, ma un attraversamento. È la cronaca poetica di un uomo che, dopo aver camminato tanto – per sentieri inesplorati o su tratturi di montagna, nelle città affollate e lungo il crinale di ignoti destini — comprende che la poesia non è un luogo di arrivo, ma un modo di restare in viaggio.

Il titolo, folgorante, è già un programma estetico: il lampo come istante di conoscenza certo, e allo stesso tempo anche come potenza esplosiva e dissolvente.

La poesia di Nacci non illumina per chiarire: illumina per scomparire. Si muove come un chiarore breve tra le rovine del vivere quotidiano.

Luigi Nacci Copertina Alma Poesia

Dal Prologo – Avrai poche cose ma quelle le avrai – il tono si stabilisce: un inventario funebre e affettuoso, una liturgia dell’abbandono. Le strofe si ripetono come un mantra domestico, un testamento ironico e struggente. Dentro quella anafora c’è la sapienza di chi ha accettato la perdita come condizione naturale dell’amore. Ogni elenco di oggetti – tovaglie, lampadine, mappamondi smagriti – diventa reliquia e corpo, emblema di una sopravvivenza minima e al contempo ostinata.

Poi la voce si apre al mondo: Eravamo poco più che ombre è la sezione delle incarnazioni e degli incontri. Qui la poesia assume la forma del reportage lirico, attraversa Bruxelles, Trieste, Pécs, Srebrenica, Parigi, Milano.

Ogni incontro è una scheggia di umanità in transito: Mohamed, Faruk, Maria la zingara, Sandokan. Figure marginali, erranti, che portano in sé il peso della storia e il dono del racconto. Nacci non li osserva da lontano: cammina con loro. È un poeta che non contempla, preferisce partecipare; la sua lingua si sporca di dialetto, di stranieri, di vino e di silenzio.

C’è dentro questo cammino una fiducia arcaica nella parola come gesto d’ospitalità: «Mangiate ché il viaggio è lungo», dice il vecchio alla mensa dei poveri. Ed è una poetica intera, nascosta in quella frase: la poesia come nutrimento comune, come atto di compassione.

Con Passa come una luce – nella seconda sezione del libro – la scrittura muta ritmo e temperatura. La voce diventa oracolare, imperativa, sapienziale. Si susseguono imperativi che sembrano dettami di una mistica laica: esci di casa all’ora sbagliata e parti, entra nel bosco in punta di piedi, datti intero alla tempesta. Qui Nacci trasfigura il viaggio concreto in cammino interiore: il viandante si fa profeta, l’uomo si fa terreno di passaggio tra la vita e la morte. È una poesia che sembra scritta da chi ha attraversato il corpo per giungere all’elemento originario.

Il poeta triestino – già autore del bellissimo Viandanza e Trieste selvatica – torna dunque alla poesia dopo anni di prosa, ma la sua voce porta con sé tutto ciò che la prosa gli ha insegnato: ritmo narrativo, senso dello spazio, orecchio per la materia del mondo. La sua poesia è concreta come pietra, eppure risuona come fragile preghiera.

Dal punto di vista formale, Nacci lavora per sottrazione. Il verso libero diventa modulazione di respiro; la punteggiatura si dissolve per lasciar scorrere la voce come corrente continua.

C’è un’oralità antica, quasi sciamanica, che ricorda certi passaggi di Zanzotto o di Claudio Damiani, ma senza imitazioni: Nacci ha trovato la sua cadenza. Ogni poesia è un passo, ogni passo una visione. Non si cerca la perfezione stilistica, ma l’essenza di un gesto che coincide con l’essere vivi. È la lezione di chi ha imparato a scrivere camminando, e dunque a far coincidere il ritmo del verso con quello del respiro.

Nel finale, l’Epilogo, il tono si chiude su una nota biblica e catastrofica: «Ora che tutto è deciso / l’aria si è fatta più spessa».

Il mondo sembra disfarsi sotto il passo del viandante, ma proprio in quell’estinzione si compie la rivelazione: il lampo ha detto ciò che doveva dire. È una poesia della fine, certo, ma anche dell’inizio continuo: «Se non troverai la strada di casa / costruirai la tua casa sulla strada». Il movimento non è più fuga, ma forma del ritorno.

In questo senso Quel che il lampo ha da dirti è un libro di confine tra il lirico e il narrativo, tra il canto e l’andatura, tra la carne e il vento.

Nacci attraversa l’umano con lo sguardo di chi sa che ogni luce porta la propria ombra, e che la salvezza, se c’è, consiste nel riconoscere la fragilità che ci costituisce. La sua poesia non pretende risposte, ma chiede attenzione; non promette un altrove, ma ci restituisce alla realtà, dove «c’è molta morte e ci vuole tenerezza».

Alla fine resta un sentimento di limpida malinconia: quella di chi, pur sapendo che «non c’è alternativa alla vita», continua a scavare per cercare l’oro, la parola, la cura. E in quel gesto ostinato, in quella fedeltà al cammino, Nacci riconsegna alla poesia la sua verità più antica: non la salvezza, ma la meraviglia di essere ancora in viaggio.


Luigi Nacci, Alma Poesia

Luigi Nacci vive a Trieste, dov'è nato nel 1978. È insegnante, giornalista e guida ambientale escursionistica. Ama mettersi in cammino con uno zaino e andare fuori sentiero, soprattutto nei margini a est e ovest d'Europa. Ha teorizzato la «filosofia della viandanza» e l'ha messa al centro della sua vita, scrivendo, riscoprendo antiche vie o immaginandone di nuove, accompagnando piccoli gruppi a camminare nei boschi e ideando rassegne e incontri. Dopo alcuni volumi di versi ha pubblicato i saggi narrativi Alzati e cammina (Ediciclo 2014), Viandanza (Laterza 2016), Trieste selvatica (Laterza 2019) e Non mancherò la strada (Laterza 2022). Nel 2021 ha curato Spirito libero e sangue caldo, l'autobiografia di una donna rom, per Ediciclo. Per la stessa casa editrice dirige la collana «La biblioteca del viandante». I dieci passi dell'addio (Einaudi, 2024) è il suo primo romanzo.

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