Nota di lettura ad "Appunti precolombiani" di Guido Galdini
Ci sarebbe da domandarsi, dopo la lettura di Appunti precolombiani di Guido Galdini (Arcipelago Itaca, 2019), quale sia la natura di questa America così precisamente convocata sulla pagina, se di metafora o parabola si tratti, o di appena un pretesto per gettare uno sguardo affilato in direzione della contemporaneità più stretta e familiare. Perché questo «primo quaderno» di scritti «prevalentemente aforistici», come recitano rispettivamente sottotitolo e premessa d’autore, gioca spesso su due sponde, affidandosi ad anacronismi calati strategicamente a raffreddare, straniare o capovolgere con l’ironia una materia altrimenti serissima: la distruzione delle civiltà precolombiane a opera degli invasori europei.
Galdini non nasconde mai la sua sincera commozione per quanto, di quei popoli, è andato perduto, ma anziché modulare la propria voce sui toni di una reprimenda ormai fuori tempo, decide di mantenersi un passo al di qua del suo stesso materiale, di esplorarlo con la dedizione del cartografo e dell’etnografo (con tanto di piccolo glossario in coda al volume) e, in esso, di cercarvi delle brevi illuminazioni, dei momentanei cortocircuiti che dal tempo leggendario di Cortés e Moctezuma proiettino il lettore nel suo presente, o al più nel suo recentissimo passato. Come nella prima lirica, ad esempio, in cui il destino di distruzione di Tenochtitlàn (l’attuale Città del Messico) è fatto dialogare con il medesimo destino di Persepoli e Dresda, la prima rasa al suolo da Alessandro Magno, la seconda dai bombardamenti anglo-americani della Seconda Guerra Mondiale. Ma si veda anche la prassi, tipica della raccolta, di abbassare l’illustre a una quotidianità banale e dimessa («al grand’Inca non era concesso / d’indossare due volte la stessa veste: / [...] / nella sua onnipotenza non poteva / nemmeno permettersi di possedere / il proprio maglioncino preferito», p. 35); oppure, e non senza punte di amarezza, di ricercare in aneddoti del passato prefigurazioni della nostra attuale civiltà («i Lacandòni, chiusi nel loro mondo, / [...] / si recavano in pellegrinaggio alle rovine / [...] / celebrando i riti dell’incomprensione / nel loro compito ambivalente / di ultimi fedeli e di primi turisti», p. 50).
Con una predilezione per testi brevi o brevissimi, il cui lessico elementare, parimenti a una versificazione distesa che guida il lettore verso epigrafi fulminanti, fanno pensare ai Frisbees di Giulia Niccolai o all’impostazione gnomico-ironica di certo tardo Antonio Porta, o persino di Valentino Zeichen, questi Appunti si snodano lungo epoche e luoghi diversissimi, dall’Europa alle Americhe, dal Cinquecento dei colonizzatori al Novecento degli aviatori, mantenendo però saldo il proprio punto di vista su quei popoli (e sui discendenti di quei popoli) che della modernità conobbero il lato più brutale e incomprensibilmente violento. Non a caso, una delle parole-tema più frequenti è proprio «incomprensione»: quella degli spagnoli di fronte alle lingue e alle usanze precolombiane, ma anche quella dei precolombiani di fronte ai responsi dei loro stessi dèi; oppure, secoli dopo, alle rovine del loro passato, rese ormai mute dall’altrui opera di conquista.
Per riprendere la domanda di partenza, allora, dovremmo considerare questo gustoso libretto come un palinsesto di cartigli da un non-luogo e da un non-tempo: da un’America ancestrale che si riversa fatalmente sul nostro presente di occidentali, non meno assediati da un’ultramodernità impazzita e del tutto incomprensibile a noi stessi.
Dresda, Persepoli, Tenochtitlàn,
e tutti gli altri nomi
riconsegnati alla polvere,
ci fanno sospettare che sia impossibile
convivere troppo a lungo
con il ricatto della bellezza;
verrà sempre qualcuno, prima o poi,
a liberarci da questo peso:
la rovina è stata la rovina o la costruzione?
*
la notte combattevano soltanto a luna piena
perché l’oscurità non li potesse nascondere
alla caduta del comandante si disperdevano
come uno sciame al soccombere della regina
al tempo della semina del mais
abbandonarono l’assedio di Cuzco,
era più urgente
la battaglia che li attendeva nei loro campi
d’altra parte, nello Yucatan le guerre
iniziavano a ottobre, dopo avere concluso
tutti i lavori agricoli della stagione
la civiltà che gli abbiamo portato
è riuscita finalmente a distoglierli
da queste ingenue abitudini primitive.
*
un missionario basco predicava
nella sua lingua natale
agli indi del Petèn nel Guatemala,
e veniva perfettamente compreso
per Serge Hutin, noto trasvolatore
dei segreti di massima diffusione,
era un chiaro segnale
dell’origine atlantidea dei due popoli;
noi, di più scarno orizzonte,
ed ancor più modesta genealogia,
propendiamo che sia invece un esempio
dell’universale e indelebile incomprensione
che ovunque si diffonde a prima voce
tuttavia non è saggio intristirsi
per l’evenienza di tali contrattempi,
neppure quando si spengono le vocali
e il silenzio diventa una prigione:
non capire di non capirsi,
quale modo migliore di evitare
le conseguenze di essersi capiti davvero.
*
giunsero i Maya assai prossimi
alla costruzione di un arco di volta,
ma non seppero far altro che ammassare
muri sempre più spessi, in modo tale
che s’incontrassero al vertice
per completare il soffitto
cosa fu che impedì loro di aggiungere
la discrezione della chiave di volta, il tassello
che scarica la spinta sui suoi lati,
deludendo la gravità?
non fu forse nessun altro motivo
che uno scrupolo del loro spirito attento,
la preoccupazione di non alleviare
con troppa astuzia il peso dell’universo.
Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953), dopo studi di ingegneria, opera nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012), Gli altri (LietoColle, 2017), Leggere tra le righe (Macabor 2019) e Appunti precolombiani (Arcipelago Itaca 2019). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. Ha pubblicato inoltre l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018).
Comments