Nota di lettura a "Sul banco dei pesci" di Carlotta Cicci
Hominem pagina nostra sapit ovvero “le mie pagine sanno di uomo”, affermava con forza Marziale in uno dei suoi più celeberrimi epigrammi (Epigrammata X, 4) al fine di dichiarare la propria ostilità nei confronti della poesia mitologica e nel frattempo rimarcare quanto invece la sua di poesia ponesse particolare attenzione per la realtà “minore”, quella della vita di ogni giorno della Roma di allora. Seppure per motivazioni profondamente diverse, mi sembra si possa far valere questa stessa affermazione anche per le pagine poetiche di Sul banco dei pesci di Carlotta Cicci (L’arcolaio, 2022). Una pagina densa di umanità, versi che pungolano nel profondo, chiodi e puntelli che arrivano a destinazione con la forza che sola sa avere la poesia che si è scavata la strada nell’autenticità del sentire la vita. Un’autenticità che viene chiaramente e intensamente percepita da chi si appresta a leggere la raccolta: Alberto Bertoni parla difatti a ragione, nella prefazione al libro,0. di «centralità della poesia intesa come esperienza testuale da compiere assieme, autrice e lettori». Un’esperienza realmente condivisa, poiché Cicci riesce a parlare universalmente, a toccare e raschiare nel fondo dell’esperienza umana offrendocela nuda da tanti luoghi diversi, da differenti prospettive. La sua voce è la voce di un esordio riconoscibile che ha già la forza di parlare a tanti, scevra da eccessi di biografismo o autoreferenzialità. Una voce onesta che si muove nella ricognizione poetica tra interno ed esterno, tra il sublime e l’orrido, «tra sublime / e immondo». Categorie queste ultime attraverso le quali si può, a mio avviso, leggere l’intero dispiegarsi della raccolta nella sua variegata dinamicità. Al centro l’essere umano, con i suoi pensieri, il suo corpo, le sue tragedie, le sue brutture inguardabili e indicibili, il suo drammatico esistere, la sua fremente e dilaniata attitudine a tradire, latitare, avvelenarsi: orrido appunto, sudicio e immondo. Eppure al contempo sublime, insopportabilmente bello mentre accoglie la vita, invincibilmente miracoloso quando «arriva una grazia / innaturale / un’immanenza». Sublime umano eternamente vergine, parola quest’ultima che ritorna plurime volte all’interno dei versi della raccolta, quasi a dirci che venuti al mondo vergini, vergini restiamo per sempre, fino alla fine, sempre nuovi a noi stessi, estranei agli altri e al mondo, sempre passibili di essere colpiti e sorpresi da qualcosa di sconosciuto e irripetibile e dunque irrimediabilmente esuli in cerca di asilo, nel disperato tentativo di ritrovare il nostro viso scomparso e riconoscerlo «tra i percorsi delle mani / forse sul banco dei pesci / tra qualcosa che ricordi l’argento». Fuggitivi, superstiti e clandestini tentiamo di misurare ciò che di più sacro esiste contandolo e toccandolo con la nostra peritura materia: Cicci individua nel corpo l’unità di misura per soppesare la vita e lo strazio che non riposa. Sono righi di sangue, schiene, vene, tendini, piedi, mani, denti, ossa, plasma, labbra e di agonie «nel fondo della testa». In ogni parte del corpo si legge, si sente, si vive il fluire pulsante della vita contraddittoria e tenacemente invadente. Un corpo che ripercorso e riletto ci ricorda che siamo animali come i lupi, gli uccelli e i cani: “bestie caute” che abitano i versi di Cicci non meno carnefici e non meno innocenti dell’uomo. Cicci confessa: «io non credo», «ho perso il rosario», «sono senza religione». Una rinuncia a ogni atto di fede, una negazione dell’immanenza sembrerebbe; eppure nel frattanto che viene rinnegata, la sacralità del vivere è messa al centro e percepita con forza da chi legge e da chi si immerge nei versi di questa poesia. Una «poesia religiosa nel senso antropologico e non confessionale dell’epiteto», come fa giustamente notare Bertoni nella sua acuta prefazione. Grazie a l’incedere dei versi, bisturicamente cesellati, e all’alto grado associativo delle immagini scolpite, Cicci ci libera dall’adamitica argilla riconsegnandoci alla nostra traboccante avventura umana fatta di «destini / frontiere / battesimi / risarcimenti / traduzioni / congedi / strazi / rimpianti / carezze».
Mi copro di argilla
colgo urti
apro le gambe
congiungo cose lontane
chiodo scoglio violenza rosso
fisso gli incroci
sul mio polso
accendo quiete
trattengo il fiato
sorveglio il freddo
senza tregua
inseguo vertigini
come un uccello cieco
che mangia il vuoto
sono preistoria
*
Incarno un colibrì
occorre renderlo fratello
ma ho perso il paesaggio
ho perso l’acqua
il sangue mi è sfuggito
tutto è già accaduto
anche tu domandi
mentre spietata
perdo vigore
mi lecco le ferite
chiedo asilo
tra sublime
e immondo
*
È una sera gelida
cammino sui bordi
di una città sorda
che non ha mai visto
un uomo vergine
tra pilastri di ferro
e plastica ovunque
nel tempo
di una luna prudente
come un insetto sensuale
richiudo il sigillo
io non credo
*
Disfare
invitare
baciare
eclissare
girare
ringhiare come una cagna
senza pietà senza antidoto
nel disastro di ogni cosa
sentinella capace soltanto
di ululare
voglio qualcosa
che penetri e lavi
che mi trafigga la nuca
che spezzi corde ai polsi
che accolga il sapore
del piombo o dell’estasi
Carlotta Cicci poeta, fotografa, videomaker nata a Roma nel 1984, dal 2016 vive e lavora a Bologna. Ha curato riprese fotografia e montaggio di vari video dedicati a eventi istituzionali e culturali tra Bologna e provincia oltre a realizzare diversi format video per web e TV. Dal 2016 ha lavorato in progetti documentari selezionati in vari Festival che hanno ottenuto riconoscimenti internazionali. Suoi i progetti fotografici : M-MILANO , R-ROMA, T-TRANSITO, V-Voci del mio viso. Attualmente cura e realizza con Stefano Massari il Format videopoesia zona|disforme (per info completa www.disforme.net) Nel mese di luglio 2022 pubblica la sua opera prima in poesia: Sul Banco dei pesci (L'arcolaio editrice) con prefazione di Alberto Bertoni.
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