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  • Immagine del redattoreMario Saccomanno

Nota di lettura a "Schermi della risacca" di Stefano Iucci

Nella raccolta poetica Schermi della risacca (Il Convivio Editore, 2019) di Stefano Iucci vi è un continuo tentativo di oltrepassare il confine insopprimibile dell’esistenza. Si tratta di uno sforzo inevitabilmente notevole che prende corpo tramite un articolato processo dimostrativo che pone i risultati, di volta in volta goduti, dinanzi al moto sferzante del presente.

Dunque, il procedimento poetico innestato dall’autore mira a smascherare in primo luogo l’inesattezza degli elementi, finanche di quelli costitutivi. È indubbio che provare la correttezza e la validità di molteplici enunciati significa infrangersi spesso contro il principio di identità, il quale sancisce il bisogno che una cosa sia concretamente se stessa.

Così, è il ritrovarsi dinanzi a questo divieto logico che, nelle composizioni racchiuse nella silloge, fa sì che il sentimento dominante risulti essere spesso quello dell’angoscia, da intendere principalmente, per dirla con Heidegger, come consapevolezza di una finitezza data dalla scoperta dell’«essere per la morte». Del resto, così come sottolineato da Mauro Fabi nella prefazione al libro, il percorso tracciato da Iucci non lascia dubbi e consiste nello scavare «nella profondità dei sentimenti e sul dolore della perdita» attraverso un «continuo riferimento al vuoto, all’abbandono, a ciò che poteva essere e non è».

Agendo in modo siffatto ogni poesia apre a una nuova riflessione che mira alla cognizione sempre più accurata della conoscenza del proprio essere e del proprio agire sul presente. Di sicuro, non si tratta di un operare persuasivo. Infatti, le domande che l’autore dissemina nei suoi versi sono spesso pregne della consapevolezza di essere tinte da colori secchi e spogli.

Così, le cose sensibili azionano molteplici similitudini e le esperienze giornaliere ridestano sovente il ricordo. Da qui, si comprende con più facilità come in Schermi della risacca il flusso della realtà acquisisca un ruolo decisivo e di come il riscontro venga continuamente affiancato al tema della memoria. Del resto, i ricordi, affidandosi alle parole dell’autore, sono sempre lì che aspettano «in fila indiana».

A questo punto occorre chiarire come nei componimenti immergersi nel tempo e renderlo atto poetico non risani mai del tutto dalla minaccia del disfacimento della memoria. Risiede in questa cesura incolmabile quella sfida erculea di superare gli orizzonti posta in apertura. Dunque, si tratta di un cancellare che non lascia scampo: «L’erba che taglio non rinasce, anche il germoglio che resiste / se vive si nasconde e non ce la fa, non esce». Questa forbice che recide finanche i volti più cari e che fa sfociare il ricordo nella «nebbia di sempre», per rimandare a uno dei celebri Mottetti montaliani contenuti ne Le Occasioni, potrebbe essere una condizione tale da immobilizzare definitivamente l’atto della conoscenza.

In effetti, è quanto potrebbe apparentemente sembrare in più punti della silloge, soprattutto in una sezione, Riflessioni di una settimana, in particolare in alcuni versi: «Quando ci alziamo potremmo non alzarci, / dice Hume, quando chiudiamo gli occhi potrebbero / rimanere aperti in uno spasmo fisso, / quando moriamo, potremmo non morire sempre o invece / persino rinascere ogni giorno».

Eppure, imbattersi nell’empirismo humeano non è un arrestarsi definitivo dinanzi al riscontro di non trovare appigli nel quotidiano. Al contrario, si tratta di un sempiterno atteggiamento di pensiero che pone l’esperienza come unico criterio di ogni evidenza. Da qui, Iucci mostra come immergersi a capofitto nel sensibile sia indispensabile poiché è nell’individualità di ogni dato che risiede l’accesso al sapere. Da questo modo di porsi dinanzi al presente, nella raccolta ne scaturiscono la consapevolezza della mutabilità («pensavo di esserci»), il peso della fuggevolezza («la foto invecchia, diventa tempo») e l’ineluttabilità («In fondo a tutto c’è uno sguardo, un toglierci dagli occhi»).

A conclusione occorre sottolineare come il fine dei versi contenuti in Schermi della risacca non è quello di riportare didascalicamente i risultati del vissuto e di questo agire giornaliero. L’alfabeto poetico non corrisponde nemmeno soltanto a un mero ornamento. Al contrario: i procedimenti linguistici, riversati nelle poesie che formano ogni sezione del testo, continuano a tutti gli effetti il percorso indagatore, basato sempre sul dubbio, unico elemento che permette di scavare a fondo nel presente, nel dolore e finanche nella perdita.



Nello spazio che ho visto ho cancellato le forbici


Nello spazio che ho visto ho cancellato le forbici

È l’ombra del reciso, del taglio.

Se escludo cancello il negativo.

Il riflesso nero di un’immagine,

l’arcobaleno, quello che c’era prima del colpo.

È il movimento per sempre che scompare, non c’è più.

L’erba che taglio non ricresce, anche il germoglio che resiste

se vive si nasconde e non ce la fa, non esce.


Lo spazio che resta è tenerti qui


Grani di rosario senza preghiere,

tempo che si sfalda nei centimetri.

Il trenino sferraglia e lascia un grido

di ferro dove abitiamo per un po’,

all’oscuro di chi chiama e reclama

uno spazio, un po’ di vita.


Lunedì


Lo so amico cosa vuoi dirmi questo lunedì mattina che tira

a tramontana. Me ne accorgo quando esco da casa, fa freddo

e tutto mi parla di te e di me, storie che si incrociano a perdere.

Che tu ci sia o no non importa, so che mi segui

mentre con un gesto scontato metto in moto la macchina

e questa – è un miracolo parte ogni mattina. Mi viene in mente

al liceo il pensiero di Hume, l’empirismo radicale,

come non sia possibile avere la certezza che ogni volta

un fenomeno si ripeta allo stesso modo.

Quando ci alziamo potremmo non alzarci,

dice Hume, quando chiudiamo gli occhi potrebbero

rimanere aperti in uno spasmo fisso,

quando moriamo, potremmo non morire sempre o invece

persino rinascere ogni giorno.

Anche di fronte a noi nulla è detto che appaia di nuovo

e anche quel nulla non sappiamo se è nulla o tutto.

Che fare dunque? Affidarsi ai gesti soliti, alle azioni consumate

dagli anni oppure sperare in un vuoto, quel diaframma che si crea

tra noi e le cose, così da nuotarci in questo vuoto e senza ossigeno

provare a risalire in superficie e poi verso gli uccelli che nel cielo di piombo

ci guardano e non sono visti? Ma la strada è finita

e una vertigine prende: sono io che parlo? O un’inconsistenza

che non risponde a nulla se non al desiderio di esistere nonostante tutto?

Voglio dire che è un brivido quello che conta, le dita

che raspano, forse ci vuole poco davvero. Ma non sappiamo,

il gesto si ripete e non c’è risposta. Meglio parcheggiare

la macchina, nello stesso posto, ancora un’altra volta.


Stefano Iucci, giornalista, vive e lavora a Roma. Ha curato due libri di racconti per Ediesse: “Il lavoro e i giorni” (2008, con Mario Desiati) e “Consiglio di classe (2009, con Angelo Ferracuti). Sempre per Ediesse ha pubblicato nel 2018 “L’Europa tra Trump, Putin e Xi. Conversando con Sergio Romano. Nel 2017 per i tipi del Seme Bianco è uscita la sua prima raccolta di versi, “Tutto all’improvviso è immobile”. Sue poesie sono apparse su “L’Immaginazione”, Manni editore.

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