Nota di lettura a "Miei lari" di Paola Loreto
- Daniele Giustolisi
- 9 minuti fa
- Tempo di lettura: 5 min
Un album, delle foto. È tutto ciò che rimane, che resta. Di chi, andando, ha lasciato in
un’istantanea la sua forma del mondo. Ritornare a quelle pagine, sfogliarle. Parlare in
un dialogo muto con chi guarda, una volta e per sempre, da una estate iniziata e mai
più finita. Qualcuno dice “Bisogna lasciare andare”. Una bella frase, suggestiva, vera.
Ma falsa, un bluff. Chi la dice non sa cosa dice. Ma poi, lasciare andare esattamente
cosa? Dove? E perché? Paola Loreto chiarisce la questione:
Portiamo addosso / questi marchi evidenti / impressi a fuoco, nella carne
D’altronde, nel suo ultimo libro Miei Lari (Marcos y Marcos, 2024), la sorella
Marina “assassinata” più di trent’anni fa, il padre Paolo scomparso nel 2017, così
come la madre Anna nel 2019, diventano, appunto, numi tutelari a cui si chiede non
di andare ma di restare, di custodire la vita che continua, di proteggerla, vegliarla.
È il primo grande movimento del libro. C’è la morte, certo; ineluttabile, inaggirabile.
Addirittura tragica. Che è sempre perdita del nome proprio, la sua pronuncia
irripetibile, la sua stagione svanita (quella primavera da ragazza / aveva senso
solamente nel corpo). Ma cosa farne di una perdita? Cosa farne di una famiglia
dissolta? (Adesso non c’è più nessuno / qui). È la domanda impossibile a cui il titolo
del libro sembra dare una possibile risposta. I morti possono diventare fantasmi,
ingombri, velo nero sugli occhi, oppure essere “Lari”, divinità a cui appellarsi.
Diventano, cioè, sacri, separati da tutto il resto, aprendo la vita a un senso ulteriore
per chi resta e a essi si affida per continuare a viverla (sarebbe ora / cominciassi a
pensarmi / un po’ tu / a tenermi un po’ in vita).
Ma è un movimento affatto pacifico, perché i morti non smettono mai di morire,
sbattendo in faccia tutto il reale della perdita, della loro mancanza irriducibile. C’è
però la poesia, che può tentare di dire questo reale innominabile, che si sconta solo
vivendo, nella sopravvivenza. Paola Loreto lo fa con la delicatezza disarmante di chi
deve aver attraversato molte tempeste e nebbie prima di aver scritto una sola parola di
questo libro.
Dire la morte, scrivere per ricalibrare, per rimettere a fuoco la propria vicenda,
attraverso quella modalità miracolosa del senso che dona l’autentica poesia. Se lo
chiede l’autrice nell’epigrafe iniziale:
Perché questo immaginarie storie / per dire il momento più vero?
Perché, come ci suggerisce la stessa Loreto attraverso l’invenzione del personaggio di
Ada (Non sa, Ada, chi è. Sa il sole / che buca le foglie), con l’immaginazione, che
lavora sempre e solo sui significati dell’esperienza, si può arrivare al cuore più nudo e
autentico delle cose che, misteriosamente, a volte, chiamano il nostro sguardo, come
per essere salvate da quel nulla che un attimo dopo le avrà per sempre.
È il secondo movimento possibile del libro, quello etico. Se nel primo il lutto diventa
un “affidarsi” a chi non c’è più, elevando chi scompare alla dignità luminosa di un
nume tutelare a cui appellarsi per continuare a vivere, nel secondo c’è il passo
ulteriore di chi resta e decide cosa farsene di quella vita che continua, scegliendo
l’unica risposta etica possibile alla morte, ovvero la volontà di vita, il vivere la vita
che continua, il vivere una vita radicalmente piena.
È quello che sembra caratterizzare la sezione più decisiva e commovente del libro
“Album”, in cui lo sguardo alle foto di famiglia, degli scomparsi, si sottrae a una
mera contemplazione melanconica, ma, semmai, mette in moto il senso di un’eredità
da conquistare (Dove corre la linea della somiglianza?); un lascito che apre proprio
alla vita che, nonostante tutto, vuole vivere, non rinunciando alla benedizione / del
sussistere / della meraviglia.
Gli sguardi, le pose, i gesti immortalati per sempre, come quelli dell’adorata sorella
(Nessuno che fosse aperto al mondo / come Mari), possono diventare allora anche
alta testimonianza della gioia, spingendo chi resta a non aver più paura di aprirsi a un
desiderio[che] / non si guarda più alle spalle.
Ci sono libri costati letteralmente vite, verrebbe da dire, di cui si sarebbe fatto
davvero a meno di scriverli. E quando capitano tra le mani occorre stringerli ancora
più forte come bussole, nelle loro parole-magnete in grado di toccare davvero il cuore
di chi legge. Come quelle che l’autrice dedica alla madre, che sembrano indicare
forse, enigmaticamente, l’unica e inaudita meta possibile di ogni dolore:
[...] Sei come quando sono / aggrappata alla roccia, in alto, / e sto patendo, ma la roccia mi porta / leggera e mi dice che non è / un patire: è un amare.

Il cuore affranto
è la certezza che il giallo
di quella primavera da ragazza
aveva un senso solamente nel corpo.
Faceva l’alba e credevi
che il giorno sarebbe più lungo
più avventuroso. (L’orizzonte
più ignoto). Sceglievi
tra il piano assolato e l’ombra
in anfratto riposto, privato.
Ma l’estate finisce.
Tutte le estati fanno un’estate sola
e il senso è in miniatura,
lo stesso, incompiuto.
*
Adesso i tuoi vestiti
son diventati miei davvero.
Li ho buttati quasi tutti
e ho tenuto i meno matti.
Non i più rotti, svasati, cangianti
ma quelli scollati o colorati
che stringono il mio corpo:
i neri mescolati al grigio
e al lilla, l’orologio hip
col cinturino in pelle, usato.
Mi hai dato una nozione esatta
di quello che vogliamo, la ricetta
segreta per gustare la vita.
Sapere chi sono senza chiedere
permesso ti pareva così ovvio
che non hai pensato a dirmelo
in tempo perché ti fossi grata
che avevi capito, da sempre,
prima di me. Per fortuna
ci sei stata, vistosa,
a tacchi a spillo e minigonna
che intonavano anelli
alle orecchie e labbra rosse.
*
Sei quieta e contenta
come non sei mai stata
alla fine della vita.
Dici tanti di quei Sì
tutti convinti e compresi
per dire che sei giunta
alla meta, e non ti spiace.
Hai i movimenti misurati ed essenziali
degli anziani, che non hanno più nulla
da sprecare e più nulla da investire.
Ti aggiri nell’orto
ti inchini alle colture
alle erbe alle piante ai fiori
per prendertene cura
come speri qualcuno
stia facendo con te.
Guardi vicino e vedi
così tanto oltre. Oltre
questo caco, questo fico,
queste ortensie e questi gigli
oltre la salvia e l’erba cipollina
la canasta e i grasselli
la melissa e i mughetti
le felci ancora attorte
e l’alto lauro che separa,
finalmente, dal male
che hai accolto
con fede e con dolore
per serbarlo nel cuore,
farne concime.
Sei come quando sono
aggrappata alla roccia, in alto,
e sto patendo, ma la roccia mi porta
leggera e mi dice che non è
un patire: è un amare.
Sono forse i tuoi capelli
poco bianchi o è forse la tua pelle
così fresca a tradire la tua età
per una ragazzina che in valle
circolava con le treccine e il broncio,
in bianco e nero, sfumato seppia.

Paola Loreto è nata a Bergamo e insegna Letteratura americana all’Università degli studi di Milano. Ha pubblicato case | spogliamenti (Aragno 2016), In quota (Interlinea 2012), La memoria del corpo (Crocetti 2007), Addio al decoro (LietoColle 2006), L’acero rosso (Crocetti 2002), le plaquette Spiazzi dell’acqua e Ascesa (pulcinoelefante 2008 e 2018), e Avola (Volo) (Il ragazzo innocuo 2018), le sillogi Conoscenza della neve («Poesia», gennaio 2012) e Transiti (Almanacco dello Specchio Mondadori 2009), oltre a una silloge di poesie sulla montagna (premio Benedetto Croce 2003) e numerosi testi in rivista e in volumi collettanei. La sua poesia è stata tradotta in inglese, spagnolo, portoghese e polacco. Una plaquette è stata pubblicata negli Stati Uniti a cura di Lawrence Venuti (houses | stripped, Toad Press 2018).
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