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  • Immagine del redattoreMario Saccomanno

Nota di lettura a "Liriche terrestri" di Diego Conticello

Sono i nomi, i simboli grafici, i significanti a permanere, a ramificare, a «rifiutare di piegarsi», a «fare luce». È questo l’orizzonte entro cui muoversi – il volere opporsi a un assunto, «la distruzione delle cose» – che Diego Conticello mostra a chiare lettere sin dalla prima composizione della sua raccolta Liriche terrestri (Industria & Letteratura, 2022).

Per farlo è necessario che il reale si ponga non come limite, ma solo come «fascinosa / varianza / d’un impossibile altrove». Proprio questa mutevolezza è l’elemento che deve essere indagato costantemente affinché si possa comprendere a fondo come alcune variazioni siano soltanto apparenti – e, dunque, vuote di significato – e altre, al contrario, reali, decisive.

In questo processo multiforme e incessante, che non è mai pago dell’ultimo orizzonte in cui prende corpo, l’alterità assume una posizione di massima importanza. Ne conseguono diverse commistioni che scandiscono i versi che conformano la silloge, proposte dalle vedute di un soggetto – il cui sguardo è sotteso in qualche modo sin dal termine liriche che si incontra nel titolo del libro – imbevute ovviamente di tutte quelle sue percezioni e rappresentazioni che si succedono senza tregua nella coscienza.

Così, i vari versi mirano a giungere «al porto delle vite» e danno modo di comprendere il bisogno di fondere il lato individualistico a quello storico-collettivo. Pertanto, le composizioni contenute nelle due sezioni speculari di Liriche terrestri (Le radici del senso e Il senso delle radici) mettono in luce la reciproca dipendenza delle parti in un tutto che le ingloba. Quanto delucida Conticello è il reverbero, l’eco che lascia una singola azione sulle altre. Da qui, ne consegue una solidarietà che assume i tratti di un vero e proprio dovere, di un bisogno che spinge a cercare a più riprese soprattutto laddove proprio ogni tipo di accordo appare offuscato dalle trame più illogiche del presente.

Per avvalorare quanto appena affermato ci si può affidare alla poesia intitolata La cicatrice della terra, dedicata a Laura Liberale – una delle numerose dediche nel testo che compongono un fitto entroterra tramite cui l’autore può costruire dialoghi fruttuosi.  In particolare, si può far leva sui versi conclusivi dove si legge: «(ma c’è ancora chi non percepisce) / la rara connessione del tutto // quello che si poteva essere, / quello che si doveva divenire, / forse ciò che si è sempre stati».

Dunque, l’universale si rivela e si invera nei particolari. Inoltre, offre la speranza di ricamare quei legami che risultano essere appigli fondamentali. Va da sé che, in questo processo, affidarsi all’alfabeto poetico è un elemento decisivo. Pertanto, come sottolinea sapientemente Antonio Devicienti nell’Introduzione, è opportuno far notare come la scrittura di Conticello si tinga di «una luminosità e un’ariosità, una libertà di pensiero, una saldezza compositiva, una sapienza lessicale che costituiscono tutte radici ramificatissime e non solo telluriche, ma anche aeree e acquatiche».


Diego Conticello, Copertina, Alma Poesia

La distruzione delle cose

 

Riflessi,

nuovamente piegati

soggiogati buoi/bestie

alla morsa del tempo,

al buio come morte.

 

La distruzione delle cose.

 

E i nomi lì a rifulgere,

rifiutare di piegarsi,

 

di nuovo fare luce.

 

 

La cicatrice della terra

 

a Laura Liberale

 

Nella dimora delle nevi

ad ogni versante

delle bianche piramidi

sgorga perenne una lingua

che allenta la sete

del mondo,

la vista migliore

a non potersi godere.

 

Solo alle oche indiane

– tozzi palmipedi –

è dato il privilegio fragile,

il sangue delle altezze,

l’ipossia al limite

della sofferenza

svela e spalanca

la sepoltura celeste,

calda ascensione,

il silenzio delle molecole

che innesca e rinnova altra vita.

 

Anche il cesello

d’un’infima risaia

è vetrata gotica,

pastoso pantano

dove spunta labile

l’incurante lucentezza

del loto.

 

Persino le api

difendono il fuco

con onde unisone

cucite

sui fianchi dei dirupi

a preservare nettari

da avide mani

– una volta elìtre –

perché meglio a tali altitudini

s’intende (ma c’è ancora chi non percepisce)

la rara connessione del tutto

 

quello che si poteva essere,

quello che si doveva divenire,

forse ciò che si è sempre stati.

 

*

 

Sta a noi

 

Come le infestazioni

del ficodindia

proliferare

persino sui tettimorti,

 

sopperire al vuoto,

riempirlo col guizzo

che rialzi queste nostre vite

ammansite,

 

mettere le spine – se necessario –

degnarsi

per preservare quel poco di dolcezza

che ci cresce in corpo.

 

Il frutto squisito della mente,

la duramadre

vista oltre la scorza.



Diego Conticello, Alma Poesia

Diego Conticello è stato tra i fondatori del sito collettivo di critica Carteggi letterari. Ha pubblicato un saggio di critica letteraria dal titolo Lucio Piccolo. Poesia per immagini “nel vento di Soave” (con F. Valenti, 2009) e alcune sillogi poetiche: Barocco amorale (2010), Le radici del senso (2015), ‘U puccieddu (2018). Suoi saggi, recensioni e diverse poesie sono apparsi su varie riviste letterarie e lit-blog. Alcune sue poesie sono state tradotte in spagnolo, francese, polacco e greco moderno.

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