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  • Immagine del redattoreMario Saccomanno

Nota di lettura a "La teoria del transatlantico" di Carlo Tosetti

Nel secolo scorso, il rivoluzionario e poeta greco Alexandros Panagulis – che lottò energicamente contro la dittatura militare istaurata in Grecia nel 1967, al punto da diventare il simbolo della resistenza – scrisse una poesia emblematica intitolata Il progresso.

In pochi versi, composti nel 1972, quando aveva già trascorso quattro anni di prigionia, Panagulis si soffermò sulla nascita di una schiavitù moderna avente tratti ben distanti da quella crudezza che aveva marcato il passato. A suo dire, l’oppressione regnante era regolata soprattutto da un agire apatico e nocivo rinvenuto con semplicità nella maggioranza degli individui. Questo modo di comportarsi scaturiva da un’ideologia ancora dominante, quella del progresso. Infatti, nella parte conclusiva del componimento si legge: «Ma è nato / un nuovo genere di schiavi / schiavi pagati / schiavi saziati / schiavi che ridono / schiavi che vogliono / rimanere schiavi // Questo è il Progresso».

Per passare in rassegna alcuni degli aspetti principali che emergono dalla lettura del poema La teoria del transatlantico (Edizioni Cofine, 2022) di Carlo Tosetti può risultare proficuo tenere in mente proprio quanto affermato da Panagulis. Pertanto, si può analizzare il testo a partire da quelle derive ideologiche che si verificarono con toni assai nitidi nel Novecento e che, nella loro natura multiforme, contrassegnano ancora il presente.

Del resto, non a caso le composizioni incluse dall’autore nei sette libri in cui è diviso La teoria del transatlantico hanno come sfondo principale quel secolo breve segnato in primo luogo dai due conflitti mondiali che, senza alcun dubbio, sgretolarono vari convincimenti ottocenteschi. Di sicuro, ai primi del Novecento, la fiducia (se non la sicurezza) di essere ormai prossimi a una nuova era che avrebbe garantito un benessere illimitato all’umanità risultava essere una credenza ben radicata in vari individui e influenti pensatori. La storia avrebbe fatto il suo corso e, presto o tardi, l’uomo avrebbe potuto godere dei frutti della scienza e della tecnica.

Già da quanto affermato si comprende come l’allegorica rappresentazione della comunità umana messa in scena da Tosetti poggi in primo luogo su due elementi principali: la storia e l’individuo. Per cercare un terreno in cui possa ramificare il difficile equilibrio tra le parti, l’autore mette ben in luce le difficoltà conseguenti a un modo di pensare al progresso come crescita smisurata.

In Tosetti c’è il vigoroso rifiuto di un telos provvidenziale che risulti capace di giustificare derive e brutture della storia. Per dirla col Montale di Satura, non è possibile pensare lo scorrere degli eventi «come una catena / di anelli ininterrotta».

Per questo, il transatlantico descritto da Tosetti, tinto degli umori variopinti su cui, di volta in volta, pone l’attenzione, porta in grembo le sembianze di quel treno carducciano de L’Inno a Satana che procede inarrestabile nel suo paradossale essere tanto bello quanto orribile.

Così, la nave, che galleggia «sopra ogni altro male», divora qualsiasi rimostranza che si discosta dalle convinzioni che diventano dogmi, dai punti di partenza che si fanno assiomi e finisce per assumere le sembianze di un vero e proprio idolo.

Dunque, l’azione di Tosetti è da inquadrare in quella fitta scia di autori che hanno insistito a lungo sui risvolti negativi della modernità. In merito, si pensi, giusto come esempio, a Tolstoj, Thoreau, Dumas o a Dickens. Infatti, di sicuro, nelle loro produzioni, a più riprese, risulta impellente il bisogno di affacciarsi con nuovo piglio sulla natura per recuperare quel modo di vivere accantonato a favore di una strada segnata dell’incessante produzione e da una teorica perfezione.

Ancor di più, in chiave poetica, può bastare far cenno all’imprescindibile Terra desolata pubblicata nel 1922 da Thomas Sterns Eliot in cui viene mostrata una Londra piegata dalla nebbia e dal fumo di una quotidianità industriale.

Come contrapposizione a questo novero di autori si pensi al Manifesto del Futurismo, che, accanto alla polverizzazione della sintassi classica, elogiò proprio le ciminiere da cui si sprigionavano quei fumi industriali che impregnavano totalmente il vivere cittadino. Si trattava a tutti gli effetti del simbolo del progresso, percepito come necessario. Pertanto, ogni altra cosa erano aspetti secondari, che potevano essere sottaciuti. A ben vedere, è proprio quello «strepitare elettrico d’insonni / macchinari» che procede imperterrito senza alcuna preoccupazione verso cui Tosetti espone i suoi numerosi dubbi coi suoi versi.

Del resto, la composizione che apre il quarto libro de La teoria del transatlantico esprime perentoriamente proprio questo aspetto: «Dice la teoria del transatlantico / che cammini un mastodonte per i grandi / numeri a favore e anche quando il male / intacca delle cellule, s’avvale / il colosso dell’utile prodotto / e tiri dritto senza pencolare».

A conclusione, va sottolineata come qualsiasi presa di posizione è sostenuta da un interesse particolare anche nei riguardi della forma che prevede per ogni composizione una sestina di endecasillabi con rima baciata al terzo e quarto verso. Sono tutti tasselli che permettono a Tosetti di mostrare in chiave poetica come il flusso del progresso, nelle sue infinite sfumature, continui a lasciare una scia capace di disseminare innumerevoli conseguenze di cui, giocoforza, occorre carpirne i tratti.



Libro I, V


Ben prima dell’avvento dei motori

– Le navi a kerosene – si viaggiava

a vela in preda a bizze di correnti

o le bonacce, irrispettosi venti.

Vano il conto di scorte da imbarcare,

galleggiavamo in preda a sete e fame.


Libro I, VI


Sola nemica è la catastrofe, ora:

l’iceberg, sbronzo un capitano nella

tempesta rara e l’isola neonata

– vulcanica germoglia inusitata –

assente dalla mappa. Ciò che affonda

alfine un transatlantico è la storia.

Libro IV, VI


Albizia è nave moderna, in cucina

non vi è la mano corriva a spelare:

macchine tagliano meglio dell’uomo,

frullano, impastano, il caso – mai domo –

l’unico piatto imperfetto l’assegna

a un tavolo ricco, a un crucco pignolo.


Libro VII, I


Non è il tutto la somma delle parti:

un probo marinaio in sofferenza,

un pezzo guasto che non sia il motore:

nulla cambia dell’apparente ardore

d’opulenza che solchi a trenta nodi,

dell’inganno d’un lusso che consoli.


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