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  • Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

I Ponti di Alma: "Miglior acque. 33 poeti neozelandesi e italiani rispondono al Purgatorio di Dante"

Proponiamo alcuni testi, in lingua originale e tradotti, tratti da "Miglior acque. 33 poeti neozelandesi e italiani rispondono al Purgatorio di Dante" (Samuele Editore, 2022), con la curatela di Marco Sonzogni e Matteo Bianchi e in memoria di Clive James (1939-2019) e Bianca Garavelli (1958-2021).


Al termine della raccolta è possibile, tramite un QR Code, ascoltare i 33 interludi musicali di Ordite Carte (33 per 33), composti dal Maestro Vittorio Zago come accompagnamento dell’edizione neozelandese e ora anche di quella italiana.

Sono stati eseguiti il 30 gennaio 2021 presso l’auditorium e Salone dell’organo del Conservatorio di musica Giuseppe Verdi di Como.


Steven Toussaint

Hillside


Recall the first day of our tenancy. It rained that morning. We taxied up in cool September steam. Our neighbours brokered tea And fatal gossip and a fishy towel While we waited for an agent with the key, The kind of easy dealing people loved Before disease shied us. Behind the parcelled garden, muntjacs hoofed The scarp where Roman settlers once made midden, A public kitchen tiled with rescued shards Of early leaves, the chestnuts first to redden Here and fall, then as now. Coughing hard Into their hands with pleasure and in synchrony The sculling crew across the terrace toked. A student flat. We would succeed a family. And three yards down, whose manicure evoked My Yank imaginings of English hedge, A poet lived, dying, we later learned. The muntjacs caught our eyes and wouldn’t budge. The rowers since moved on. The poet mourned The crowded island he had not believed ‘Accessible’. We trade antipodes Perpetually, it seems. Then we arrived On a deserted shore that never sees A man who sails its waters and yet knows How to return. We tabulate the risks, Step out into the autumn leaves we chose And kiss our daughter through our cotton masks. Cyclists pass with slow morality, Conscience lately consciousness of farce. Double-parked, Removal vans have locked a classic hearse Against the curb, retired and unmarked.


Traduzione di Leonardo Guzzo

Collina


Ricordati il nostro primo giorno in affitto. Pioveva, quel mattino. Venimmo in taxi nell’umida frescura di settembre. I vicini ci fornirono di tè, chiacchiere fatali e una salvietta coi pesci, in attesa dell’agente con la chiave, il genere di cose che allietava i semplici prima che il morbo ci isolasse. Dietro i lotti di giardino i cervuli pestavano il pendio dove un tempo i coloni romani impilavano rifiuti, il pub era ammantato dei resti raccolti di foglie precoci, che i castagni rosseggiano per primi qui e si spogliano, adesso come allora. Tossendo forte dentro i pugni, ebbra di piacere e in sincrono, la ciurma ondeggiante sul terrazzo fumava spinelli. Una casa di studenti. Facevamo famiglia. E tre metri più in basso, la manicure come fosse l’idea di una siepe all’inglese nel mio cervello yankee, viveva un poeta, morente, scoprimmo dopo. I cervi ci incantavano senza battere ciglio. S’erano intanto mossi i marinai, piangeva il poeta l’isola brulicante che non aveva creduto “accessibile”. Scambiamo, sembra, ininterrottamente antipodi. Poi arrivammo a una deserta proda che mai vide uomo solcare le sue acque e sapere la via del ritorno. Studiamo i rischi, mischiarci alle foglie d’autunno la scelta, baciare nostra figlia oltre le maschere di cotone. Ciclisti scorrono con lenta dignità, coscienza recente cognizione di farsa. I camion del trasloco lasciati in doppia fila hanno bloccato un vecchio carro funebre. Dismesso, senza insegne.


Kay McKenzie Cooke

Shifting ground

Leaving home yesterday, through green,

we travelled past silos, hawthorn hedges

and daffodils drowning in cocksfoot, our destination

the city where we met, whose heart lies broken,

tended to only by steel cranes—Invercargill,

with clawing diggers scrabbling at ground,

piling up earth for blunt-nosed trucks to haul away.

Meanwhile, as its citizens await the new

and gleaming centre, caravans sell coffee

beside old shop fronts held in limbo by iron struts

and where an arrangement of street art on hoardings

keeps up spirits. As if guided by a ghost

through this shifting ground of a strewn past,

I took photos of what remained: the sign

for the Copper Kettle and trees in blossom,

only stopping to allow people room, one woman

saying, ‘No, you’re right, love. Go ahead.’ Lost

in thought, too shy to ask a question, left alone

behind my guide, I went on past that long line

of the ones who weep at their own song, who weep

at all that has disappeared into today with us here

now, taking your mother for a Sunday drive

from her rest home in Gore, out to Mandeville,

to our right the Otamita Stream floating brown and flat

under willows and ahead the Hokonuis with mist

clambering over rocks like lost places, lost time

or last night’s memories of us both in Orepuki Tavern

and Corina telling me that a gold mining company

has hammered pegs into my grandparents’ old farm,

then as we left there, stepping over the rough grass

where a railway line once ran, feeling under our feet

how tangible its absence as if it wasn’t lost at all

but still there, a steel vein running through the town.

Traduzione di Renata Morresi

Luogo Mobile

Partendo da casa ieri, attraverso i campi verdi,

siamo passati davanti ai silos, con le siepi di biancospino

e i narcisi sommersi dai pascoli, destinazione

la città dove ci incontrammo, che giace col cuore a pezzi,

accudita solo da gru d’acciaio: Invercargill,

con le scavatrici ungolate che raspano il suolo,

che ammassano terra per i camion camusi da portare via.

Nel frattempo, mentre i suoi cittadini aspettano il nuovo

centro scintillante, i caravan vendono caffè

accanto a vecchi negozi tenuti nel limbo dei ponteggi di ferro

dove una installazione d’arte di strada su dei cartelloni

rallegra gli spiriti. Come se guidata da un fantasma

per questo luogo mobile d’un passato sparso,

faccio foto di quel che resta; l’insegna

del Copper Kettle e gli alberi in fiore;

mi fermo solo per far passare qualcuno, una donna

che dice «No, hai ragione, amore. Continua». Mi perdo

nei pensieri, troppo timida per fare una domanda, rimasta sola

dietro la mia guida, proseguo oltre la lunga fila

di coloro che piangono alla loro stessa canzone, piangono

a tutto ciò che si è dissolto nell’oggi con noi qui

adesso, mentre portiamo tua madre per il giro della domenica

dalla sua casa di riposo a Gore, fino a Mandeville,

sulla destra il fiume Otamita che scorre piatto e bruno

sotto i salici e davanti le Hokonuis con la foschia

che si arrampica sulle rocce come posti perduti, tempo perduto

o il ricordo della notte scorsa, noi due all’Orepuki Tavern

e Corina che mi parla di una compagnia mineraria in cerca d’oro

che ha fissato pali nella vecchia fattoria dei miei nonni,

poi sulla strada del ritorno, calpestando l’erba incolta

dove una volta si allungava la ferrovia, sentire sotto i piedi

la sua tangibile assenza come se non fosse affatto perduta

ma ancora presente, una vena d’acciaio che pulsa attraverso la città.


Vincent O’ Sullivan

Dante gifts McCahon the Southern Cross

Cantos back, as you would know

Better far than we do, maestro,

How Easter morning, your leaving the Inferno,

The freshest sky yet seen

By Europeans blazed its four

Nails of the Southern Cross, hung between

One sphere and another. New stars pour

Their brilliance. La prima gente, our first

Parents, looking up amazed at what they saw,

Attention gazing out to vast

Creation’s fling, its endless rise.

(With ‘all the world before them’, as Eden’s cast

So soon confirmed.) This

Is where their story crosses into ours,

The stars we claim, their distant bliss.

A painter centuries further on devours

The myths that still persist, their dimmed delight.

Their tilting points to places where loss scours

Across our hills, our coasts, where light

Is love invading emptiness.

Dante’s quattro stelle deck the night.

Each image Colin calls demands Confess,

Each stroke he makes, tells Now!

Only the soul’s commitment bears the stress

As bridges might, as northwards all things flow,

As Kupe journeying to the final Cape,

The Stations each man walks, past ‘yes’ or ‘no’,

Into the arc of art’s sustaining hope,

Drawing as ever on the gathering night,

Raised as though paint itself the saving rope:

He drew me to the light,

And his attentions, generous and warm,

Have brought me up this hill that sets you right.

Traduzione di Massimo Gezzi

Dante dona la Croce del Sud a McCahon

Diversi canti fa, come saprai

molto meglio di noi, maestro,

la mattina di Pasqua, la tua partenza dall’Inferno,

Il cielo più limpido mai visto

dagli europei scintillò i suoi quattro chiodi

della Croce del Sud, sospesa

tra l’una e l’altra sfera. Nuove stelle riversano

la loro lucentezza. “La prima gente”, i nostri avi,

si stupirono, volgendo gli occhi in alto,

lo sguardo che spaziava sul vasto

moto della Creazione, la sua ascesa senza fine.

(Con “tutto il mondo davanti a loro”, come la cacciata

dal Paradiso ben presto confermò). Qui

la loro storia si intreccia alla nostra,

e stelle che noi rivendichiamo, la loro beatitudine remota.

Secoli dopo un pittore divora

i miti che persistono, la loro gioia oscurata.

La loro giostra punta verso posti dove la perdita si aggira

Per le nostre colline, le nostre coste, dove la luce

è amore che invade il vuoto.

Le “quattro stelle” di Dante addobbano la notte.

Ogni immagine che Colin convoca ordina Confessa!,

ogni tratto che spande dice Ora!

Solo la dedizione dell’animo sopporta la tensione

come i ponti, come tutte le cose che fluiscono

verso nord, come Kupe che viaggia verso l’ultimo Capo,

le Stazioni che ogni uomo attraversa, oltre il sì o il no,

Fino all’arco della speranza che sostenta, nata dall’arte,

disegnando come sempre sulla tenebra che incombe,

sbalzato come se il colore fosse la corda che può salvare:

mi ha condotto fino alla luce

e le sue attenzioni, calde e generose,

mi hanno portato su questo colle, che ti fa giusto.


Elizabeth Morton

Dasein for a Divine Comedy


Let’s begin in the middle. not as children of mountains,

not as gullies and gutters and the parataxis of rainfall.

Let’s begin as laterals of a delta whose will is to wet,

whose torturous vision grips the peatbanks like a vein.

Let’s begin, already in a dark wood, already braying

our manifest paths into the squally nights.

We will remember them – days small as candles,

the yellow flood of fields and horses, the patter of a magpie

over the hills we worshipped in another time.

Let’s eat bread soup in slight buildings,

our ghost skins stretching to accommodate a litany of crimes.

Let’s covet the sound of stars spangling outwards, a miserable

dumb and cold end to the movie we thought would finish

with sunsets. Let’s hold our guts to their promises.

Let’s drink Chianti, and toast a regularity of bother,

revere the villi and mucosa like the brute animals they are.

i almost got the words out. o small supper,

purpling pears and chicken wings, universe that knows itself

through grief. i saddled the dark. With confidence reborn,

this time i got the words out. ‘how do they get thin

when there’s no need of nourishment?’ o snack and spuntino,

little appetiser and finger food, the blunt side of a knife.

the ghosts of folk we knew still dig for potatoes,

still watch their rods and fishing floats for a sign

that things end with sunsets. Let’s begin in the middle.

Let’s arrive half-baked and jaded and waiting for the light

to green for ghosts with skin still in the game.

i’m a small man in the midriff of journey that points down.

this is the part where the sun sets and i’m doomed.

this is the part where the kettle and skillet and table

bow to ancestors we could not own. this is a comedy

of descent. the settling of sun on the red napkin.

the penultimate meal. Mezzo.


Traduzione di Rossella Pretto

Dasein per una Divina Commedia


Si principi nel mezzo. non come figli dei monti,

non come rivoli e rogge e paratassi temporalesca.

Si principi ai lati di un delta la cui volontà sia di bagnare

sia vista che strozzi crudele le rive torbose come una vena.

Si principi, già in una selva oscura, macinando già

le nostre vie manifeste in notti tempestose.

Li ricorderemo – giorni brevi come candele,

giallo diluvio di campi e cavalli, cicaleccio di gazza

che in altro tempo venerammo sui colli.

Si mangi zuppa di pane in fragili edifici,

la pelle dei nostri spettri tesa a ospitare litanie di crimini.

Si aneli al suono delle sfere che centrifughe sfavillano, epilogo

miserabile, idiota e freddo al film che si pensava finisse

coi tramonti. i nostri stomaci rispettino le loro promesse.

Si beva Chianti, e si brindi alla ripetitività della noia,

si riveriscano villi e mucose quali i bruti animali che sono.

ho quasi emesso le parole. o piccola cena,

pere violacee e ali di pollo, universo che sé stesso conosce

attraverso il dolore. ho sellato l’oscurità. Con fiducia rinata

stavolta ho emesso le parole. ‘Come si affinano

quando non c’è bisogno di cibo?’ o snack e spuntino,

piccolo antipasto e stuzzichino, il lato smussato di una lama.

Spettri conosciuti scavano in cerca di patate,

fissi a canne e galleggianti in cerca del segno

che tutto termina coi tramonti. Si principi nel mezzo.

Si arrivi mezzi cotti e sfiniti e in attesa che scatti

il verde per spettri con pelle ancora in gioco.

Sono un piccolo uomo nel mezzo del cammino discendente.

ecco il punto in cui il sole tramonta e sono dannato,

il punto in cui il bollitore, il tavolo e la padella

si voltano agli avi che non potremmo avere. È una commedia,

questa, della discendenza. un residuo di sole sul tovagliolo rosso.

il penultimo pasto. Mezzo.








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