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Immagine del redattoreSara Serenelli

Nota di lettura a "La scorza delle parole" di Alessandra Carnovale

«In poesia» scriveva Adam Zagajewski «si incontrano due elementi contrapposti: l’estasi e l’ironia. Il principio estatico si lega all’accettazione incondizionata del mondo, perfino di quel che vi è di crudele e di assurdo. L’ironia, al contrario, è la rappresentazione artistica della riflessione, della critica, del dubbio. L’estasi è pronta ad abbracciare il mondo intero, l’ironia, invece, calcando le orme del pensiero, mette tutto in discussione, fa domande capziose, dubita del senso della poesia e del proprio stesso senso. L’ironia sa che il mondo è tragico e triste». A voler seguire l’acuta quanto profonda riflessione che Zagajewski propone all’interno di Tradimento, non avrei dubbi a considerare quella de La scorza delle parole di Alessandra Carnovale (Eretica Edizioni, 2018) una poesia dell’ironia. Mi sembra difatti che uno degli elementi più convincenti della pronuncia poetica di Carnovale risieda proprio nello sguardo acutamente e profondamente ironico, nel senso tutt’altro che scontato e banale in cui Zagajewski intende questo aggettivo. Carnovale spiazza e smaschera tutti; infilza la penna negli angoli bui per farvi luce. Non risparmia nulla a chi la legge: non ci permette di guardare altrove, non ci concede il tempo di recuperare il respiro mentre la successione dei componimenti proietta, con un ritmo ora incalzante ora cantilenante, una dietro l’altra diapositive poetiche che se sappiamo accoglierle e ben guardarle ci pungono come spilli.

Tra gli aspetti più interessanti che caratterizzano la raccolta credo vada colto una sorta di cortocircuito, di discrasia, di dissonanza che si innesca a partire dalla collisione tra forma e contenuto, tra la scorza e la polpa dei versi. Da un lato i versi procedono - in buona parte della raccolta - scanditi e cadenzati da tutta una serie di figure di suono (rime, rime interne, assonanze, consonanze, allitterazioni) che fissano sin dalle prime pagine un’impressione sonora precisa e riconoscibile. Un’impressione rassicurante proprio perché si ripete e perché crea sin dal principio l’illusione di familiarità del dettato. Dall’altro però, nascosta sotto la scorza, celata dalla patina poetica c’è la polpa, la verità svestita che non rassicura: la denuncia, la rabbia finanche, per l’uomo e la società che egli struttura. Le morti in mare, lavoratori-prigionieri, principesse decadute, amori di disperati inabili al dialogo, maternità dolorose, città desolate, ipocrisie. Vacante rimane anche il trono divino, persino le figure mitologiche e archetipiche appaiono stravolte, come stravolti siamo noi. Una volta compiuto il passaggio doloroso lungo i versi dell’intera raccolta, reso in fondo meno amaro dalla sezione conclusiva (a tratti onirica) di haiku, ripercorrendo a ritroso il percorso che Carnovale ci offre, il disvelamento appare chiaro: la poesia «insegna che l’incanto / è inganno / e prelude al lutto». E le parole che disvelano l’inganno non possono essere «sericee» o «confortevoli da accarezzare»: esse debbono necessariamente farsi graffio, artiglio, pungolo confitto al cuore.



Scrivere


Non voglio scrivere parole sericee,

confortevoli da accarezzare,

ma ruvide e dure, come setole

di cinghiale

e graffianti, come punta

di diamante;

non frasi musicali

rotonde

e seducenti, ma versi spezzati

e acuminati

come artigli

di predatori voraci.


E ri-destare il lettore

dal suo torpore d’illusione.



A.A.A. Dio cercasi


Dio

è assente.


È sceso una notte

a comprare sigarette.


Nessuno

l’ha più incontrato,

neanche di sfuggita

o per caso.


Non che sia mai stato

di grande aiuto:

sei giorni

ha lavorato

a plasmare, modellare,

preformare

il mondo

a suo piacere; poi

si è solo riposato

e all’uomo

ha demandato

ogni ulteriore travaglio,

malcelando

uno sbadiglio.


Dio

è sparito.


Forse

non è mai

esistito.


Impiegati


Siamo l’esercito

dei mercenari

che ogni giorno

si accalca sui binari

del metrò.


Agghindati tutti uguali:

borse, cravatte, cellulari

e occhiali

un po’ retrò.


Siamo gli assidui frequentatori

di ogni sala riunioni, ostaggi

prigionieri

in celle senza carcerieri,

anonimi

ingranaggi

accecati

dal miraggio

di una felicità

che non c’è.


Siamo l’esercito

dei mercenari,

svenduti

ai saldi

per pochi soldi.


Poetessa e appassionata di ceramica, ha pubblicato le sillogi Come vento sul monte (flower-ed, 2017) e La scorza delle parole (Eretica Edizioni, 2018). È tra I traduttori di “100 Grandi Poesie Indiane' (edizioni Efesto, 2019) a cura di Abhay Kumar. Ha partecipato alle opere collettive Gabbia no, poemetto in terza rima e Amicizia virale Une Entente Secrète in ottave, entrambi scritti durante la pandemia, a cura di Luciana Raggi, Fabio Sebastiani e Maurizio Mazzurco ed editi da Progetto Cultura. Altri suoi testi sono presenti in diverse antologie e riviste online.

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