Le Giovani Interviste di Alma: Stefano Bottero
Aggiornamento: 17 giu 2022
Continuiamo con Stefano Bottero il nuovo spazio "Le Giovani Interviste di Alma", dedicato alla messa a fuoco del pensiero e della poetica di giovani autrici e autori talentuosi.
Nella prefazione a Poesie di ieri (Oèdipus, 2019), tua raccolta di esordio, Biancamaria Frabotta sottolinea, tra le altre cose, la peculiare visione cronologica che sviluppi in questo lavoro, nel quale il passato, più che qualcosa di vissuto in un tempo altro, sembra tramutarsi in un momento mai esistito e il futuro è così lontano da non potere essere messo davvero a fuoco. Si genera, quindi, una concezione tendente al nichilismo, in cui né la memoria né il progetto sembrano essere possibili e tutto si schiaccia su quell’iperpresente ben codificato sociologicamente da Mauro Ferraresi.
Da dove deriva questa prospettiva e verso cosa conduce? In che tempo si colloca quello “ieri” del titolo? La poesia, rispetto a questa disamina, è orologio capace di tenere in qualche modo il ritmo o è assenza di coordinate temporali?
Non so dove conduce. Biancamaria mi ha intravisto giovane – prima sull’orlo del baratro, poi, due anni dopo, in caduta. Le chiederei di aiutarmi a rispondere alla tua domanda ma non posso. Da diversi giorni, non posso.
Ancora meno so da dove deriva. Lei la riconduce al movimento assurdo della memoria, unico ieri ad esserci concesso. Il libro termina con il momento primo: le circostanze di dolore, di spavento, che seguono alla nascita. Scrivendo, ho guardato a quella morte prima come margine da raggiungere nel chiedermi il motivo di così tanta assenza, presente. Lo hai notato con accuratezza: la messa a fuoco viene meno. È forse una delle ragioni del libro. Alla tua ultima domanda, comunque, risponde la sezione A ritmo del nulla. La poesia è promessa disattesa. Fallisce nella scansione, nelle coordinate. Se riuscisse sarebbe Dio – esperienza del mare.
Altri due elementi pulsano con forza dentro Poesie di ieri: il primo, strettamente correlato al nichilismo, è l’assenza, alla quale un’ampia gamma terminologica fa riferimento; il secondo è la contaminazione con altre forme d’arte, come a dire che la poesia non è figlia solo della poesia. Entrambi questi aspetti sono funzionali alla formulazione di risposte rispetto ai grandi interrogativi che tu sollevi in questo lavoro e, infatti, non sono mai rappresentati nella stasi ma sempre in un’ottica dinamica, come se l’analisi di ciò che siamo e di ciò che ci circonda non possa essere condotta stando fermi ma proseguendo ininterrottamente il moto. È proprio questo incedere senza sosta che si trasforma, nella raccolta, in quesito, domanda aperta che tu rivolgi certamente al lettore ma, prima di tutto, a te stesso. Nella nota di lettura che avevo scritto qualche tempo alla tua opera, avevo provato a sintetizzarle in «ciò che è stato, è trampolino o zavorra di quello che sarà? Il ricordo di noi ci tiene su lo specchio o lo frantuma davanti ai nostri occhi, togliendoci la possibilità di osservare il nostro divenire? Che ne sarà della grande poesia del Novecento?». Aggiungo adesso: la figura della bambina, che spesse volte ritorna nei tuoi versi, è ricordo perduto, fantasma che ricerchiamo nel presente o entità che speriamo di incontrare nel futuro?
Ti chiedo di rispondere a tutto.
La bambina è identità disforica trascorsa. È amata amante, perdita.
Al mio rapporto con la stasi puoi sovrapporre il termine preghiera. È il centonovesimo degli Aforismi di Zürau – non è necessario muoversi ma restare, sedersi alla scrivania, ascoltare. Il velo cade. C’è una tensione, in Poesie di ieri, tra questa consapevolezza e l’essere trascinati, ineludibile. Il movimento – il sentimento delle corde sulla pelle quando intorno il freddo, il traffico, le dita che mancano, scorrono.
Ho riletto la raccolta per rispondere alla tua domanda – ti rispondo fatica. Ho scritto dell’assenza, del niente, perché in questo annegavo. Ho scritto di un nichilismo contaminato a poco a poco dall’alcohol – nella quarta sezione, la progressione è dichiarata in maniera manifesta. E ho impiegato cinque anni a trovare le ragioni critiche che mi consentissero una forma per scriverne. Lirica e non lirica – i materiali dell’arte di cui ti stessa dici. A un certo punto ho avuto dei tagli sulle braccia.
Lo zeugma è quella figura retorica dove, da un unico predicato, dipendono due costrutti o complementi diversi, dei quali solo uno gli si adatterebbe propriamente. Bezoar, invece, è la concrezione che si forma nell'apparato digerente dei ruminanti e ritenuta, nella medicina orientale e medievale, efficace come contravveleno.
Due termini scelti non a caso perché, per te, da qualche tempo a questa parte, rappresentano altro rispetto alle definizioni qui proposte.
Ti andrebbe di raccontarci cosa e, a partire da lì, provare a descriverci, in senso più ampio, cosa concretamente potrebbe o dovrebbe fare la comunità poetica odierna per far sì che la poesia esca dalla posizione periferica in cui si è/è stata relegata?
Zeugma è il nome che insieme ad Alessandro Anil e Sacha Piersanti ho dato allo spazio neonato e autogestito della Casa della poesia di Roma. Bezoar è la prima rivista cartacea di cui sono redattore, pubblicata da Giulio Perrone Editore e diretta da Giorgio Ghiotti. Sono due realtà a cui ho iniziato a lavorare negli ultimi due anni. Per me si tratta di questo, in definitiva – di lavoro. Le motivazioni che spingono a questa attività sono molteplici e di ordine diverso, come per tutti i lavori – emotive, biografiche, etiche, politiche, in una certa misura dettate dal caso. Zeugma e Bezoar hanno in comune una cosa: sono entrambe delle realtà materiali. Con i poeti e le poete di entrambi i gruppi di lavoro ho condiviso, fin dall’inizio dei progetti, la necessità di una proposta culturale che seguisse un corso diverso da quello dell’immaterialità digitale. Necessità che sembra essere socialmente condivisa, a giudicare dalla positività delle risposte che abbiamo ricevuto.
Non so dire cosa dovrebbe ‘fare’ la collettività poetica per invertire la tendenza alla marginalizzazione sociale – come invece potrebbe chi, con più cognizione di me, si occupa da vicino di sociologia della letteratura. In generale, credo che nei momenti di crisi sia sensato mettersi in ascolto. Per i poeti e le poete questo significherebbe prestare più attenzione alle strade che consentono di entrare in dialogo con la totalità sociale, evitando le rassicurazioni degli autoisolamenti intellettualistici o maledettistici.
Negli ultimi anni più di un poeta italiano è stato in grado di raggiungere questo nella propria opera. Penso, ad esempio, a La casa esposta di Marco Giovenale, a Tutti gli occhi che ho aperto di Franca Mancinelli, a Per diverse ragioni di Domenico Brancale, a Historiae di Antonella Anedda. Il fil rouge che unisce questi libri di poesia è una qualità poetica contemporanea nel senso più piano del termine – quello dell’inserirsi in un dibattito in corso con la forza della messa in crisi – in equilibrio tra gli estremi della banalizzazione e dell’impenetrabilità intellettuale. Come poeta, opere come queste sono per me via da percorrere.
Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti.
Qual è la tua posizione a riguardo? Come vedi il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?
Tra le carte di mia nonna ho trovato qualche settimana fa un quaderno di poesie composte da sua madre. La mia bisnonna è stata un’operaia nel milanese dell’inizio del Novecento – persona di estrazione culturale, economica, umile. Nel suo quaderno di versi intravedo la risposta alla necessità interiore di uno scrivere inteso come esprimere. Dare vita a un contenuto – quello dell’Io – grazie nell’oggettificazione estetica della poesia. Credo sia una necessità antropologica, non diversa dal graffiare con una pietra, sulla parete di una caverna, delle linee per autorappresentarsi.
Dico questo nel rispondere alla tua domanda perché credo che la rete non sia niente di più di quello che è: una rete. Cattura e sussume le necessità interiori, personali, dello scrivere. Non credo sia un dispositivo neutro, politicamente – ma nulla lo è davvero. Le persone componevano versi prima della rete, continueranno dopo il suo spegnimento. Non penso abbia senso imputarle la responsabilità di una presunta degradazione contemporanea delle scritture poetiche – essendo essa, in definitiva, un contenitore.
La mia bisnonna ha scritto le sue poesie su un quaderno mossa da una certa matrice – la stessa che oggi, forse, muove molti a scrivere le proprie su pagine online. La differenza tra i due prodotti è che l’uno trova spazio nel privato – o al massimo nella condivisione familiare; l’altro tende all’assoluto dell’iperconnessione a cui gli ultimi vent’anni ci hanno abituati. Una differenza che dice, più che altro, di molta necessità che la socioeconomia contemporanea induce.
Siamo nel 2021, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurito: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo.
Alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout-court, come inquadri l’argomento e qual è la tua opinione a riguardo? Soprattutto, prevedi un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo?
Proprio perché siamo nel 2022 il discorso non si è esaurito. Siamo nella sua fase acuta – quella in cui la dimensione di riflessione critica sul fenomeno raggiunge le dimensioni di ciò che è popolare. La prospettiva di ricerca femminista in letteratura ha radici che affondano in un tempo ben più vecchio del 2022. Ciò che accade oggi è che quella prospettiva, quella ricerca, quella tensione alla riscrittura dei codici identitari e morali, è sussunta dal sistema del capitalismo e trasformata in merce. L’affermazione di una nuova sensibilità comunitaria sulle questioni del gender è passata e passa alla collettività come prodotto. Una serie tv, una linea di vestiario, un’edizione di X Factor. Poete e poeti contemporanei non sono esenti da questa dinamica di passaggio: fin troppe voci poetiche in Italia presentano prospettive “politiche” che sono, in definitiva, l’ultima trovata di uno status quo dominante, patriarcale e fascista. Lo stesso vale per il dibattito sulla femminilità nell’arte – prova ne sia l’abuso osceno del termine “femminismo” che mi pare facciano tutti coloro che lo usano come sinonimo di assenza di pudore.
Detto questo, nel mondo della ricerca – soprattutto anglosassone e statunitense – negli ultimi anni sono stati pubblicati dei contributi fondamentali. Penso, ad esempio, a quelli di Douglas Vakoch (penso a Literature and Ecofeminism) e Karen Warren ([a cura di] Ecofeminist Philosophy), scomparsa di recente. Sono più vicino a questa dimensione della questione – quella dello studio della teoria transfemminista della letteratura e della critica. Come letterato, percepisco una tensione etica allo studio di questo frangente. È una convinzione che in me ha origine nell’insegnamento, negli insegnamenti, di Biancamaria Frabotta, di cui sono allievo. Ma è un discorso a parte – tu mi chiedevi della poesia italiana contemporanea. Non sono in grado di esprimermi sulle evoluzioni future. Intorno a me, oggi, leggo e vedo molta superficialità.
Grazie a Dio – non mancano persone che si pongono con coscienza e umiltà, anche nel pensarla diversamente da me su diverse questioni, di cui seguo con interesse le riflessioni. Tra i coetanei, più di tutti, Francesco Ottonello e Giorgio Ghiotti.
Ti chiedo di scegliere da Poesie di ieri tre testi e di riportarli qui per le lettrici e i lettori di Alma.
Fammi venire senza toccarmi
delicata di gelsomino,
d’ansia e di debole sussulto
dei numeri della mitologia universale
di lavatrici, di templi.
Voglio per me solo il riposo e la debolezza
e le tue mani sul viso,
che il corpo dia il senso inafferrabile
di specchi
l’uno davanti all’altro.
Ma corteggia il lamento del non avrei mai creduto
e impara a memoria ogni verso
ogni particolare,
ogni addormentarmi
sul tuo corpo di candido difetto,
di confusione mentale.
-
Te ne vai nella routine del tuo male immenso incustodita.
-
ALL’AMU DARYA
Realmente abbiamo perso il nostro posto
senza neanche accorgercene.
La bimba dorme di tiepida vita,
io nell’abbastanza della certezza d’esistere
- nell’inconosciuto sesso.
esprimi te stesso e sarà già un enigma
Legato dalle corde di Itaca,
dalla vita che occorre,
ascolto la mia dipendenza
carezzarmi i capelli,
scioglierne i nodi.
Stefano Bottero è nato a Roma nel 1994, vive a Venezia. Poeta e letterato, è stato allievo di Biancamaria Frabotta, che ha firmato nel 2019 la prefazione alla sua raccolta d’esordio, Poesie di ieri (Premio Città di Como, Opera prima). È redattore delle riviste letterarie «Polisemie» e «Bezoar» e collabora, come traduttore e critico, con «Nuovi Argomenti» (Officina poesia online), «Atelier» e altre realtà editoriali italiane e internazionali. È curatore dello spazio di Zeugma - Casa della poesia di Roma. Si occupa di poesia e incomprensioni.
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