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  • Immagine del redattoreMario Saccomanno

Nota di lettura a "L’etica dell’acqua" di Giuseppe Manitta

Il termine polvere è indubbiamente paradigmatico nella poetica di Giuseppe Manitta. L’importanza è tale al punto che si può affermare che la sua raccolta L’etica dell’acqua (Avagliano Editore, 2021) graviti attorno alle numerose e concatenate declinazioni che, di questo vocabolo, di volta in volta, offre nei suoi componimenti.

Per tracciare un’interpretazione del testo che possa avvalorare quanto appena affermato occorre, in primo luogo, sottolineare come ogni poesia assuma l’aspetto di un’orma di un percorso assai più ampio. L’attracco conclusivo è segnato dalla cura e dalla comprensione di poter dimorare compiutamente nella propria limitatezza e nella modestia che avvolge ogni concreto possedimento umano.

Per immettersi in questo movimento graduale, che spinge verso l’identificazione e l’unità, occorre essere in grado di riconoscere come l’uomo, assieme alla complessità dei suoi pensieri e della sua arte, non sia nient’altro che – volendo accodarsi al racconto biblico – un ammasso di polvere a cui Dio ha voluto dare un alito di vita.

È chiaro che l’azione di comprensione iniziale, nonché la volontà di afferrare i tratti di questo soffio vitale, non risultano essere per nulla semplici e immediati. Da qui, si intuisce il gravoso senso di separazione che contrassegna ogni individuo. Del resto, Manitta pone proprio questo aspetto come preludio della silloge. Così, nelle prime pagine, cioè nel Trittico dell’abbandono, risultano già evidenti le tematiche decisive che contrassegnano le seguenti sezioni del testo. Infatti, l’autore le riassume acutamente con l’immagine della sabbia, da leggere come un’uguaglianza capace di inglobare al suo interno ogni differenza. Ancora, in questi primi affreschi poetici si fa già sentire il peso della correlazione inevitabile tra polvere e sangue.

In merito al primo aspetto basta riportare questi versi per comprendere lo strappo che Manitta cerca di ricucire senza tregua: «Forse la sabbia ha capito, / tutta uguale e sempre diversa. / Sarebbe assurdo tornare nell’utero, / ma è forse l’unico incanto». Inevitabilmente, sul tema della sabbia – e, dunque, dell’uguale e del diverso – occorre, seppur brevemente, soffermarsi. Per farlo si può far cenno ad altri versi emblematici che riassumono un aspetto fondamentale de L’etica dell’acqua: «Quando si rinasce sulla sabbia / è morire lentamente senza identità».

Dunque, la sabbia può essere un appiglio per l’esistenza o un macigno da cui diventa quasi impossibile emanciparsi. Questa conformazione chiaroscurale si riscontra in diverse parti della raccolta. La differenza è dettata principalmente dallo sguardo che accompagna l’intera ricerca. A quello orizzontale che scalfisce perlopiù l’ultimo istante, si oppone la visione e l’agire verticale, spirituale e salvifica, che rimanda a un percorso graduale e decisivo che, come si vedrà, sfocia nella collettività.

La psicologia del profondo, che connatura l’attività poetante di Manitta, mira a indagare le radici, ad attraversare il buio, a sondare le strade meno battute («la verità sta negli angoli»). Il tutto è compiuto affinché si possa dare un valore proprio a quella polvere di cui si diceva in apertura.

In altri termini, il tentativo ininterrotto compiuto dall’autore, che diventa anche e soprattutto una sorta di invito per i lettori, è quello di essere in grado, per dirla con Erri De Luca, di «scegliere di cosa» essere polvere. Da qui, l’altro aspetto, il legame tra polvere e sangue, che diventa, in ultima analisi, la relazione tra la polvere e quell’acqua che si legge nel titolo della raccolta. Questo avviene in quanto, così come sottolinea Marco Sonzogni nella Nota posta a conclusione della raccolta, nella tradizione lirica italiana (e non solo) l’acqua si è spesso fatta sangue.

Di più: il fluire dell’acqua è anche metafora di quella società liquida e mai ristagnante che migra sempre verso una nuova dimensione. Ecco perché quel pulviscolo incessante che contiene in sé ogni individuo va di pari passo col brulicare sempiterno della comunità. Di conseguenza, Manitta mostra come ogni singolarità si componga gradualmente per e con l’altro. Così, la topografia personale realizzata dall’autore – esercizio quotidiano di cui la poesia ne è limpido riflesso – sfocia inevitabilmente nella mappatura dell’altro e dell’intera collettività.

Si tratta di compiere un salto non da poco, che include forti tratti utopici che vengono sorretti da quello sguardo verticale di cui si è discusso. Significa riuscire a far «parlare i cocci» che, montalianamente, delimitano il confine. Eppure, in ultima analisi, è proprio questo il tratto distintivo del percorso umano: la morale che diventa istituzione, etica. Così, realizzando questo aspetto si riesce finanche a «nascondere la polvere / nell’illusione del fondale», si giunge ad avvalorare ogni tassello, ogni slancio compiuto singolarmente.



S’affossa l’orlo della pozzanghera

al passo di sciami variabili,

quasi una corruzione che scorre

in proiezioni e noi una di loro.

Eppure sempre informi.

A casa, lasciarsi attraversare dagli oggetti

(penna, cucchiaini, un posacenere,

e, perché no, coltelli e forchette) significa viverli

e non concedere all’asfalto la conquista

della propria sagoma. Gioco di prospettive:

stare sospesi al balcone fino alla resa,

all’acqua verticale che purifica

la vista e le ortiche

sulla strada senza scacchiera.


*


Non so fare parlare i cocci

sul muro da scavalcare. Oltre

ci sarà l’inferno o la beatitudine:

una sequenza di tracce incastrate,

le insegne del gelo, atomi alla rinfusa.

Sì, forse ci sarà la casualità della Creazione

o l’aria che si spegne

e affolla di riflessi il cammino. Forse

è l’assedio dei nomi

che fa male, e non rende vittoria

e rovescia il sonno.

Bisogna provare tre volte (come la Trinità,

come i chiodi di Cristo, tre anche loro)

a scrivere la parola salvezza.

Ma l’omega no, non è segnata.

Non so fare parlare i cocci

e il muro resta da scavalcare.


*


Bisogna muoversi per sganciare la pietra

e rintracciare i granelli oltre il muro.

Si dovrebbe fare una dieta

con vento in polvere e frullati di profezie.

Sì, proprio un misto di cronache senza nomi e date.

Tralasciamo la nostalgia del perdono, però

oggi la città è diversa,

dall’ultima gelata abbiamo scomposto i sorrisi,

troppo pericoloso farli – bruciano dalle radici –.

In questa non somiglianza

impariamo la negligenza della storia.

Meglio stare seduti e aspettare

che il muro crolli, poi prendere i resti,

aggiungere un po’ di sabbia e costruire

lo stordimento dei sensi.

Bisogna rispettare gli affanni del gioco

– facciamo una partita a una sola mano –

per capire che siamo un mittente senza destinatario.

Se scavi nell’ignoto ti accorgi che gli somigli.


Giuseppe Manitta è nato a Seriate (BG) e vive a Tivoli (RM). Partito da interessi leopardiani, ha esteso le sue ricerche da Boccaccio al Novecento. Si è occupato del petrarchismo cinquecentesco di Antonio Filoteo Omodei, del quale ha individuato le «Rime» in un codice vaticano di prossima pubblicazione in edizione critica. Tra le pubblicazioni principali si ricordano: “A partire da Boccaccio” (Mursia, nona edizione nel 2020); “Noi e il mondo. La novella italiana da Pirandello a Calvino” (Mursia, terza edizione nel 2011); “Giacomo Leopardi. Percorsi critici e bibliografici (1998-2003)” e “Giacomo Leopardi. Percorsi critici e bibliografici (2004-2008)”, nonché miscellanee su Boccaccio e Carducci, con Il Convivio Editore. Per “Mihai Eminescu e la «letteratura italiana»” (Il Convivio, 2017) il Presidente della Repubblica Moldova gli ha assegnato il Premio Eminescu per meriti culturali. Di poesia si ricordano “Gli occhi non possono morire” (Italic Pequod, 2018) e “L’etica dell’acqua (Avagliano, 2021). È il direttore della rivista accademica “Letteratura e Pensiero” e collabora a varie riviste specialistiche tra le quali “La Rassegna della Letteratura Italiana”. Ha curato le indagini bibliografiche su Leopardi per il “Laboratorio Leopardi” dell’Università La Sapienza di Roma. È critico letterario del quotidiano “Conquiste del lavoro”.

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