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  • Immagine del redattoreMartina Toppi

Nota di lettura a "Il peso della neve" di Rosa Riggio

Misurare è un tentativo umano come tanti di dare un confine alle cose. Misuriamo i chilometri percorsi per raggiungere i luoghi verso cui siamo diretti, il tempo impiegato dal nostro corpo per mostrare i segni dell’invecchiamento, la quantità di soldi necessari a saldare un debito. Misuriamo il peso delle cose ogni giorno, senza rendercene conto: diamo etichette, stiliamo liste, compiliamo registri e conserviamo memoria di quello che è accaduto. Eppure, non tutto si può misurare e a volte ci sono eventi capaci di sciogliersi in pochi secondi pur lasciandosi dietro un peso incommensurabile. Così è la morte: un evento che mai appartiene al presente, ma sempre al passato, un passato effimero eppure immutabile, cui ci è difficile dare voce.

Rosa Riggio ne Il peso della neve (La Vita Felice, 2016) non si arrende però di fronte a questa indicibilità e prova strenuamente a dire quella morte capace di cambiare per sempre la vita di chi resta.


In segreto si dissolve l’onda

rallenta sul lembo dell’universo

sfiora un’acqua scura.


Una metamorfosi dei secondi

il collasso del vento, poi

corpo, pesante, stelo.


È un tempo di vetro

quello che si allontana

lo vedo cadere

come una noce


in un cesto vuoto.


Si apre così la raccolta di Riggio, con il fermo immagine di un «tempo di vetro», quello in cui la morte è passata a lasciare il proprio segno. Siamo con lei iniziando il viaggio nei suoi versi, camminando in un paesaggio dove la neve ha coperto di bianco ogni impronta e intorno a noi ogni cosa è tempo sospeso, fattosi vetro, silenzio impenetrabile. È un tempo esanime che il verso di Riggio prova a rianimare, ma la «metamorfosi dei secondi» è ormai passata, perduta in un frangente che non può più essere il qui e ora e che lascia la sensazione di una staticità irreversibile che torna incalzante ancora e ancora grazie al lessico materico di cui sono intessuti i versi dell’intera raccolta, capace di far percepire al lettore tutto il peso di questa neve così bianca che si posa sui nostri corpi.

Così – scrive la poetessa – «Un colpo di reni e il passato / retrocede nel tempo» mentre il corpo che resta dopo lo sconvolgimento della morte è fatto di materia inerme, pesante da trascinare: «marmo di buona qualità», «poche ossa fragili dentro un fragile niente», un volto che scompare in «scaglie di vento”, «mani di pietra».


Io sono corpo

e il mio corpo è cosa preziosa

avvolta dal freddo e da sete

trasparente

quando si placa nell’onda

sopporta il suo peso

silente.


Alla graniticità del passato si contrappongono però i continui turbamenti del presente, che è ora onda e ora vento fatto di «foglie che volano lontano» ma che nella sua corsa verso un tempo nuovo, un tempo altro, trova nel ricordo della morte un’ancora: «Gettavi un’ancora nel vento / portando la resa dei conti nelle mani / al termine di un viaggio incompiuto». La morte che è stata sa appesantire anche ciò che ancora è e che per sua natura dovrebbe essere leggero. Perché, come scrive Riggio, «il ricordo è un inchiostro» che si espande a macchia e non può essere cancellato, semmai circumnavigato creando nuovo spazio su cui scrivere.

La poesia di Riggio, intrisa di «atomi», «molecole», parole che dicono di che cosa siano fatte le cose, si fa così chimica precisa di come la morte di chi amiamo impatta sulla nostra vita. Una chimica della neve che racconta la composizione esatta del dolore, cercando di trovare una ragione, senza mai chiederla in maniera esplicita. Inevitabile, ma necessaria, la morte nella poesia di Riggio è come la successione dei fiocchi di neve che cadono dal cielo: ciascuno diverso dall’altro, precisi e cristallizzati in pochi secondi di pura perfezione, così leggeri, eppure capaci di silenziare il mondo intero.



Morire è uno stato latente

un potente accadere di niente come neve

mai calpestata.

Non so dove finisce

la neve, il corpo, l’odore

perché lo spazio inganna.


Vasi di coccio. Foglie.

Un angelo di terracotta.

Poi i passi di chi va mentre resta

e la luce, che sfibra la terra.


Le ore, senza nessuno.


Quando viene la sera

è un campomatto,

nessuno che si ribelli.


Nessuno che tace.


Anche la vita però si intrufola nei versi di Riggio e così gli oggetti in cui il non essere più si incarna si fanno fragili: vasi di coccio, foglie, angeli di terracotta, materia che può essere crepata, venature che interrompono la perfezione della superficie, incrinature sottili attraversate da una luce abbagliante, capace di illuminare le singole molecole: «Ho visto miliardi di molecole / illuminarsi e fuggire». Della materia, ancora una volta, la poesia di Riggio fa uno strumento utile a capire, pesare, misurare l’indicibile: la morte di un padre e la vita che viene dopo.

Ma la materia della vita è altra rispetto a quella della morte: è terra, in movimento costante. Una terra ferita, sì, ma dove le radici ancora possono affondare in cerca di quella linfa che è capace di innestare, anche sotto la coltre fredda della neve, nuove metamorfosi negli atomi in subbuglio. Sotto la superficie della terra la vita si agita per sbocciare, come i crochi, fiori che vincono il freddo annunciando la fine dell’inverno, oppure i gigli, simbolo di una purezza che, a differenza di quella della neve, porta con sé il profumo di ciò che ancora può essere.

Così, nonostante i reiterati e denunciati tentativi di dire la morte – la sezione Parigi della raccolta è caratterizzata da un ritorno incessante sulla volontà della poetessa di raccontare: «Ora racconto ogni cosa. / Ora posso parlarti»; «Ora dico quello che non so raccontare»; «Ma ora parlo»; «Ora, racconto»; «Ma ho deciso, ora racconto» – l’approdo finale non è a una verità nuova, una formula capace di togliere il velo e scoprire il segreto nascosto sotto la neve. I versi di Riggio, sorti dal trauma passato, trovano nel dare voce alla vita passata condivisa col padre il mezzo di comunicazione più efficace per tenerlo in vita oltre la morte. È nel ricordo della vita che la morte sembra allora acquisire un senso e poter entrare a pieno titolo nella poesia, come un croco che buca il lenzuolo, apparentemente impenetrabile, di neve. E noi, viaggiatori sperduti di questa esistenza costellata di domande, nel cuore viola del croco ritroviamo la leggerezza necessaria a toglierci di dosso il peso della neve e continuare così a camminare nella vita.


Saremo sale e vento parte del mare

uno sparire nell’occhio convesso

nascente spirale che cade

un ricordo in molecole

di cose sparse, spaesate.

Quando ero una bambina felice

in girotondo tra i gigli

quando il bianco non feriva

ancora e sfinivo nel caldo

cosa potevo sapere il mio era un cortile di sole

e nient’altro, era questa l’infanzia.

Se adesso disegno quel cerchio

di bene profondo, se mescolo

il sale col miele, non resta

che un cuore di croco

e non spezza l’incanto.


Rosa Riggio, nata a Siderno, in provincia di Reggio Calabria, vive a Viterbo, dove insegna Lettere in un Istituto tecnico. Ha proseguito gli studi in storia dell'arte e si diletta di pittura, crea quadri con la tecnica del décollage. Cura una rubrica di poesia per la rivista “Niederngasse.it”. Ha pubblicato: Un elaborato silenzio (Il Filo, 2005); L'orizzonte alle spalle (FusibiliaLibri, 2014 - ebook LaRecherche 2017); Il peso della neve (La Vita Felice, 2016 - premiato con Menzione, Premio Lorenzo Montano 2017); Prove di resistenza (Gattomerlino, 2021). Finalista Premio Bologna in Lettere 2019 con la raccolta inedita Prove di resistenza (Gattomerlino, 2021).


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