Nota di lettura a "Il mare beve me stesso" di Francesco Cagnetta
Il mare beve me stesso di Francesco Cagnetta (Arcipelago Itaca, 2021) si colloca in uno strano ma affascinante limbo. Se da un lato il martellamento ossessivo sulla parola chiave «dolore», che ritorna in quasi ogni componimento, genera sul lettore un senso di asfissia, di sprofondamento labirintico, dall’altro le iterazioni angoscianti di questo termine sembrano condurre a una definizione via via più precisa del dolore stesso. O, meglio, delle sue condizioni.
Divisa in tre sezioni, ciascuna delle quali introdotta da un’immagine che sembra seguire quello stesso percorso di progressiva messa a fuoco (La conoscenza del dolore, un corridoio male illuminato in fondo al quale si intravede un albero investito di luce abbagliante; Dolore familiare, alcuni balconi di condominio ripresi dall’alto in basso; Verbo chiuso, una persona su una spiaggia), questa raccolta colpisce per il suo stile asciutto, oggettivo, quasi inventariale, bene esemplificato dalla lirica eponima, in cui quel «mare» che «beve me stesso / e tutte le mie colpe», rende poi all’io nient’altro che «nervi scoperti / cicatrici retrovisori / un dolore che galleggia» (p. 27). L’interrogazione esistenziale, in altri termini, sembra arrestarsi su un piano di realtà ridotto a una manciata di dettagli minimali, di gesti irriflessi (come in alcuni incipit fulminanti: «Al cambio stagionale cadono i capelli / e bisogna cambiare il filtro al lavandino», p. 22; «Si muore di solitudine / quando non si è fatto il bucato», p. 39). D’altra parte, il «dolore», vero pensiero dominante, si fa ora «carne» (p. 26), ora presenza incorporea che si impossessa di cose gesti parole: «Ciascuno giustifica il proprio dolore / nelle gesta dell’altro / [...] / nei tormenti dei bicchieri / [...] / nel sale della pasta» (p. 55). Un paesaggio da wasteland, si potrebbe dire, eppure reso senza alcun intervento immaginativo dell’io lirico, solo attraverso una recensione continua di dettagli esplosi, di micro-situazioni come frammenti isolati di una totalità non più intelligibile.
La seconda sezione, forse la più riuscita, declina questo procedere franto e interrogativo in una chiave più autobiografica. Emergono qui le figure dei genitori, soprattutto del padre; emerge un «nido familiare» (p. 60), turbato però dalla presenza minacciosa e mai del tutto messa a fuoco del trauma («La notte tremavi / tanto che dovemmo / separare il letto di papà», p. 73; «Per pranzo hai preparato i cavoli / che qualcuno aveva raccolto / [...] / Nella pentola sono scoppiate / le vene e pure gli occhi», p. 74). Emerge una quotidianità ritmata dalla noia degli «schermi» (p. 64), in cui il tempo sembra ripiegato su di sé, il «dolore» una presenza ormai implicita che «ci abita dappertutto / con le sue domande» (p. 62).
Seppur chiudendosi su una sezione brevissima e in generale un po’ debole, la terza, che con uno scarto inaspettato ci presenta un io lirico arroccato in se stesso e quasi a sua volta oggettivato, incapace di comunicare («Davanti a un muro bianco / so esattamente cosa dico / dove voglio arrivare», p. 91), questa raccolta è una solida prova di scrittura, decisamente riuscita nel suo complesso. Cagnetta ha il merito di aver composto un libro inquieto e, come si diceva, sospeso tra l’inseguimento labirintico di un dolore sempre presente ma mai pienamente descrivibile, e una volontà oggettivante e definitoria mai abbandonata, nemmeno di fronte alle situazioni più perturbanti. È una poesia, questa, che interpreta al meglio l’idea di letteratura come atto di conoscenza del reale.
Alzai la testa, chiusi gli occhi per uscire
e il dolore era già lì, impresso sulla faccia
al casello del primo fiato.
A quel tempo parve cauto, previdente,
– un rumore al mercato della voce –
lento si annunciò, si fece preghiera
e necessità, misura del limite,
cordoglio in prima persona.
Allora pensai che il dolore fosse chiuso lì,
tutto in una tasca e che bastasse
gonfiare le vene fino a cento
mancare l’appuntamento
sottrarre il corpo al suo feroce abbraccio.
Fu così che imparai a contare i secondi
e la salita, a contare solo sulle dita.
*
L’inganno è la sola verità che conosco
quando nel silenzio delle porte chiuse
a tavola con la propria fame
i denti cambiano rumore
cadono i quadri
e la lingua si riappropria di versi
che credevo estinti.
*
C’era un castello nel letto dei miei cari
due fari, dovevi saltare le mura
non cadere nella fossa delle mani
stare attenti ai movimenti
ai soffi tiepidi del naso
quando mio padre si girava di tre quarti
e parlava senza peso.
Il sonno lo aveva leggero.
E mia madre stava sempre uguale
nella stessa posizione del dolore
sembrava di contare le ore
di stare in una tomba egizia
l’occhio aperto sul tempo,
sul battito del silenzio.
Il sonno lo aveva leggero, pure lei.
Allora io temevo che si svegliassero
che facessero capolino
e mi portassero al posto,
al mio posto, al rango del cuscino.
A quel tempo volevo solo che dormissero,
ovunque dormissero, che mi lasciassero esplorare
il corpo quando il dolore era un puntino sulla pelle
e si poteva ancora giocare.
*
Hai misurato il tempo del bucato
hai bucato il cesto della lavatrice
mostrato l’insolenza dei panni sporchi
che tornano a risplendere
come se nulla fosse successo
come se non ci fosse prova,
alcuna traccia di colore
nessuna impronta di dolore.
Francesco Cagnetta, nato nel 1982, vive a Molfetta (Ba), è un avvocato. Alcuni dei suoi testi sono stati pubblicati e recensiti in rete su blog letterari come Neobar, Zona di disagio, Poetarum Silva, sulla Rivista il ClanDestino e sulla Rivista Letteraria Anterem; altri testi sono apparsi nelle seguenti antologie: “Trittico d’esordio” a cura di Anna Maria Curci, Cofine Edizione (2017); “Come una mezzaluna nel sole di maggio – ricognizione della poesia pugliese 1975- 1994”, Fallone Editore (2017); “Dalla fine del mondo – Poesie per Francesco”, Luce e Vita Edizioni (2018); Enciclopedia della Poesia Contemporanea (2020), Fondazione Mario Luzi; Antologia della Poesia Italiana Spagnola 2020 (Volume 2) – Ciesart Edizione Internazionale Barcellona. Nel 2020 esordisce con “Pianeti di Carne”, Edizioni Transeuropa – Nuova Poetica, segue “Il mare beve me stesso” edito nel 2021 da Arcipelago Itaca. Finalista di diversi premi, tra cui menzione d’onore al Premio Montano 2018 e 2019, Premio Don Luigi di Liegro 2020, Premio Internazionale di Letteratura Città di Como nel 2021, Poeti Oggi 2022.
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