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Intervista a Massimo Morasso

Questa è l'intervista che Alessia Bronico & Alessandra Corbetta hanno fatto a Massimo Morasso; il dialogo si chiude con un inedito che Morasso regala ad Alma e a tutti i suoi lettori.


Massimo Morasso

Massimo Morasso è nato a Genova e qui vive. Nel 2001 ha scritto la Carta per la Terra e per l’Uomo, un documento di etica ambientale che è stato sottoscritto da poeti e scrittori di quarantotto nazioni, e persino da cinque premi Nobel per la Letteratura, si legge nella sua biografia. Tocca, in largo anticipo sui tempi, un tema di bruciante attualità. Quanto è importante il tema ambientale nei suoi lavori e cosa l’ha mossa a parlarne? E, a suo avviso, in quanti lo impiegano, attualmente, come specchietto per le allodole senza sposarne davvero la causa? (A.B.)


Parto dalla seconda delle domande, alla quale è più facile rispondere. Direi, parlando in generale, che oggigiorno il tema ambientale è sulla bocca dei poeti sornioni. Lo stesso vale, con le debite eccezioni, per i poeti che stanno guardando alla scienza come a un ricostituente possibile della loro parola. La circostanza non sorprende. Da sempre, la poesia inautentica si aggioga al carro dei tempi, e gioca a farsi cassa di risonanza di “tematiche” alla moda o all’ordine del giorno, inoculando nella lingua dosi di buon senso imbellettato.

Più di vent’anni fa io ho co-ideato e diretto il primo science center in Italia interamente dedicato alle tecnologie ambientali, e da un ventennio sto lavorando per il Festival della Scienza di Genova, la più importante manifestazione di divulgazione scientifica a livello europeo, ma nei miei libri il tema ambientale non è quasi mai esplicito, e ciò innanzitutto perché la poesia, per me, ha poco a che fare con la didattica o la didascalia, queste vie brevi del discorso dei poeti che non hanno un gran mondo interiore e, perciò, riflettono quello di fuori, a portata di vista. È del tutto evidente, infatti, che oggi il tema ambientale ha un’importanza cruciale: se mai fossimo chiamati a riassumere in uno i problemi che connotano l’epoca nostra, dovremmo dire che quello ambientale è il tema per eccellenza. Io non ne discetto in versi, come fanno gli eco-poeti, e non ammicco con dovizia di metafore per esempio alle leggi dell’albero in relazione al suo contesto biotico, o all’eventuale empatia di un qualche frustolo di corteccia con l’universo mondo che gli abita intorno. L’ho posto al centro, però, di un grande progetto di civiltà della parola. Quello che mi portò, fra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, alla stesura della Carta cui hai accennato, un documento di taglio ecosofico che concepii come strumento di mediazione fra la comunità poetica internazionale, ai massimi livelli, e la società civile: nell’idea che gli esperti della parola intensa, i poeti, potessero (possano) valere, se non altro, come testimoni e “testimonial” almeno un po’ credibili di un impegno collettivo globale.


Lei scrive raramente in versi, lo dichiara in alcune interviste, eppure ha pubblicato diversi libri di poesie, ne cito alcuni senza seguire l'ordine cronologico: L’opera in rosso, La caccia spirituale, Viatico e altre. Non le chiederò quando ha cominciato a scrivere poesia, sappiamo che è domanda sgradita, semmai: perché ha smesso? A parte qualche inedito in riviste e antologie non dà alle stampe poesia da qualche anno. (A.B.)


Per il bene della poesia, credo che oggigiorno stia diventando opportuno favorire e praticare, anche in prima persona, una sacrosanta astensione dalla parola cosiddetta poetica. Io sono sazio di versi, e sono piuttosto incline a deprimermi per gli esiti espressivi della torma dei poeti medi, cioè, a mio avviso, per le migliaia di non-poeti che si credono poeti. La mia attuale visione della poesia, della sua natura profonda così come della sua funzione socio-politica, per così dire, non corrisponde se non molto marginalmente a quelle più in auge nella società dei poeti, dalla quale mi tengo volentieri a (non disattenta) distanza. Detto in modo semplice, io so benissimo cos’è la poesia autentica, e non capisco, perciò, dove vogliano farla andare. Tanto che mi sto indirizzando, mio malgrado, verso una prognosi storica infausta del futuro della poesia. Ormai non mi fido più dei versi, né, tantomeno, di chi ne fa e, per il fatto stesso che ne fa, ritiene di fare cose mirabili. Faccio sempre più fatica a pensare che i versi siano la misura ritmica di una parola veridica, addizionata d’intensità semantica e di un salutare surplus di luce intellettuale rispetto a quella che percorre la lingua d’uso. Nel complesso, leggendo tanto i cosiddetti maestri quanto le “generazioni nuove”, i versi mi appaiono sempre di più, e con sempre maggiore evidenza, come dei grimaldelli in semilibertà del pensiero facile, destrutturato e senza nerbo, che si mette in maschera e si dà un’aria formale – foss’anche quella dell’antagonista irriducibile, o dell’araldo finto-umile dell’understatement – per simulare qualcosa di essenziale. E inoltre, per me, parlando con franchezza, non credo di aver molto altro da dire, in versi, più di quanto non abbia già detto nei “diversi libri” ai quali hai fatto cenno. Nelle nove sezioni del Portavoce c’è un intero destino d’autore, e più di un cosmo architettato sulla soglia di un ricettacolo mentale sospeso tra io e non-io, tra moto discendente e moto ascensionale della coscienza. C’è tanta roba, come si dice oggi, ed espressa in vari modi, lungo una tastiera espressiva che va dal frammento di passo prosastico al poema lungo d’ispirazione visionaria. Per cui, ormai, io me ne sto volentieri nel mio cantuccio, tentando di resistere alle residue tentazioni della Musa. Ho un ultimo libro di versi racchiusi in un file, che ho finito nel 2020, e che è quasi del tutto inedito. Se altri versi venissero, per pubblicarli vorrei che fossero all’altezza stilistica del mandato ideale che affido alla poesia lirica – la quale, a quanto vedo, non si è affatto estinta, ma ha cambiato forma, ed è l’argine, friabilissimo, di resistenza della parola poetica alla deriva della parola comunicativa. Io non credo di potermi avvicinare ulteriormente a quell’altezza piena di profondità e, purtroppo, intorno a me scorgo pochissimi – per non dire quasi nessuno – in condizioni di genio per farlo. Sai, io sono un poeta o, forse, un ex-poeta, che continua a leggere e rileggere gli inni e le odi di Hölderlin per esempio, o in tedesco, o volentieri tramite Vigolo. Mi capirai, come spero…


È anche saggista e traduttore: che rapporto esiste tra queste diverse forme e in che modo convivono? Esiste una contaminazione tra le parti? E, lei, in quale si trova più a suo agio, in quale sceglierebbe di restare? (A.B.)


Non c’è contaminazione, ma connaturalità. La scrittura a cadenza saggistica, la poesia e la traduzione sono tre colate di un medesimo magma, per dirla in metafora. Da molti anni, quasi tutto ciò che vado scrivendo è il frutto di una meditazione in atto. Scrivere, per me, è rimuginare poeticamente. Anche quando lo faccio en travesti, traducendo poesia – che è come dire, tentando di “fare l’impossibile”, posto che le mie traduzioni non sono mai traduzioni di servizio. È nel rovello stesso del linguaggio carico di senso, che io mi sento più a mio agio, all’apice di me, insieme meditante e meditato.



Ne L’amore, il silenzio e la bellezza (AnimaMundi 2020) lei scrive:


L’amore aiuta a vivere, a durare,

l’amore annulla e dà principio.

(Mario Luzi)


Amatus sum, ergo sum. Volendo cercare una legge che comprendesse tutto il creato, ho trovato questa. L’essere amati precede. Solo nel ricevere e nell’essere riconosciuti può scaturire l’amore come possibilità di essere al mondo (“L’amore aiuta a vivere, a durare,”), e l’essere al mondo è l’unica forma d’essere che per ora ci è dato conoscere. L’amore ci libera dal giogo dell’individualità (“l’amore annulla”) riportandoci al modo in cui si è amati al principio da un altro (“e dà principio”).


Cos’è amore per Massimo Morasso, e quanto in questo libro lei tenta di rispondere alle domande fondamentali della vita? (A.B.)


L’io non esiste, in sé. È il prodotto di una relazione. Tale relazione originaria è una relazione d’amore. Voglio dire che c’è sempre un tu, c’è sempre un altro che viene prima di noi, il quale, generandoci, ci porta a essere ciò che siamo, e ciò che diventiamo. Senza amore, senza la giuntura metafisica di questo demone creante, semplicemente non c’è vita, o perlomeno non c’è vita umana. L’amore, per me, è un sinonimo della continua generazione del vivo nel riflesso di una coscienza spirituale.

In L’amore, il silenzio e la bellezza ho provato a fare un po’ d’indagine sul mistero in cui immagino che affondino questi tre “trascendentali”, praticando uno dei modi del mio pensiero vagabondo, che si muove con interrogante naturalezza a zonzo fra poesia, estetica e teologia. Scrivendo quel librino, non credo di aver tentato di rispondere alle domande fondamentali della vita, quanto, piuttosto, di aver osato metterne a fuoco qualcuna sotto la lente d’ingrandimento veritativo della parola intensa.


L’ultima sua pubblicazione saggistica, L’obbedienza, da poco uscita per le Edizioni Feeria, riposiziona il focus sul tema del destino, facendolo in maniera tutt’altro che scontata ma, anzi, braccandolo da diverse angolature, dove quella letteraria e quella poetica hanno un ruolo assai significativo.

Se obbedire è, innanzitutto, ascoltare chi ci sta di fronte, in un tempo tale è quello a noi contemporaneo, che oscilla tra il silenzio omertoso e il chiacchiericcio assordante, come è possibile tendere l’orecchio all’altro e in che modo il prestare ascolto può coniugarsi con le nostre libertà individuali?(A.C.)


La sapienza d’ascolto è la precondizione dell’apertura del cuore. Chi ascolta apre. La chiave che apre la porta del cuore è la parola giusta – che può aprirla, però, soltanto passando, per così dire, per la serratura dell’ascolto. E tuttavia, anche se questo è vero, occorre che noi si faccia attenzione non solo a cosa ascoltiamo, ma anche a come ascoltiamo, e che ci si predisponga a prestare per davvero ascolto. Ecco, questa del “prestare ascolto”, al di là del silenzio omertoso e del chiacchiericcio assordante, è un’espressione che nella mia mente finisce sempre col disegnare un’immagine visiva di un essere umano che ascolta: una persona, che a me piace vagheggiare leggermente protesa verso chi parla, magari con gli occhi socchiusi nel tentativo di concentrarsi e non distrarsi, come faceva dialogando con me la mia professoressa di letteratura tedesca e poi amica Anna Lucia Giavotto Künkler, quando si parlava, fra di noi, di certe sottili questioni rilkiane, o delle intuizioni vertiginose di Novalis. Anche in questa nostra triste sera del tempo la persona che ascolta “presta” sé stessa, presta un suo spazio di accoglienza interiore, offre ospitalità e suscita la responsabilità di chi le sta parlando, poiché muove la sua libertà, e lo chiama a una relazione. Nonostante tutto e quasi tutti, io credo che ancora oggi l’ascolto sia un gesto d’amore, che può riuscire a creare inaspettati legami.


Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti.

Qual è la sua posizione a riguardo, anche in riferimento ai testi che ha donato al volume di studio Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla Rete (Puntoacapo Editrice, 2021)? Come vede il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web? (A.C.)


Io mi sento così fervidamente, convintamente anacronista da non temere nulla di negativo dal web, in relazione, quantomeno, alla poesia. La rete, in fondo, almeno per adesso, è una piattaforma, cioè a dire un contenitore, cioè a dire, insomma, un nuovo spazio abitabile della parola. Uno spazio massivo, con tutto ciò che di buono e di malefico tale aggettivo comporta. In linea teorica, io non vedo come una scatola possa condizionare la forma di ciò che essa va e andrà, nel tempo, a contenere. Se, quando non esisteva ancora internet, io, in una biblioteca, mi fossi imbattuto in libercoli irricevibili di poeti di sottobosco e li avessi presi per dei capolavori, o, comunque, per delle prove letterarie con le quali avessi immediatamente ritenuto opportuno, o addirittura doveroso, confrontarmi, il problema non sarebbe stata la biblioteca (negli scaffali della quale avrei potuto agevolmente compulsare Dante, o Tasso, o Leopardi, o appena ieri, che so, si parva licet, Campana, Montale, Luzi o chi per loro) ma il mio senso estetico, il mio gusto. Non è la rete che sta rovinando la poesia, e non è la rete che salverà la poesia. L’apparenza della poesia la stanno rovinando, piuttosto, i poeti pessimi, e i tantissimi mediocri, e i critici indulgenti e senza orecchio. Se qualcuno salverà la poesia, saranno soltanto i poeti autentici – poche persone fra le centinaia di migliaia che scrivono in versi.



Siamo nel 2022, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurita: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo.

Anche alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout-court, come inquadra l’argomento e qual è la sua opinione a riguardo? Soprattutto, prevede un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo? (A.C.)


Spero di non deluderti confessando che la questione del gender in poesia non m’interessa. Credo di comprendere, e di condividere, almeno in parte, le ragioni di chi l’ha posta in uno dei centri della sua attenzione, ma a me l’argomento non riesce proprio ad appassionare. Benché, lo riconosco, risponda perfettamente allo spirito dei tempi. Più in generale, io non riesco a soffermarmi sulle questioni (pur nobilmente) politiche che gravitano intorno alla poesia, e al gesto poetante, senza farmi prendere presto dal tedio. Per pudore intellettuale misto a rispetto della parola, tendo a non avere, o quantomeno a non esprimere, opinioni in senso ampio sociologico sulla “res” poetica. E inoltre, non sono mai stato disposto a farmi deconcentrare, e dunque disorientare, entrando da parvenu nel cosiddetto dibattito. Suppongo che l’interpretazione di un testo scritto, o addirittura di un’intera personalità autoriale, tramite la “chiave di volta” della dialettica maschio-femmina possa riservare intriganti sorprese. Beato chi le ha, e sa metterle con intelligenza a disposizione della comunità dei letterati... Lontanissimo dall’attribuire dignità a ogni espressione, anche larvale, di bullismo omofobico, io me ne infischio di sapere se la Silvia di Leopardi è per davvero un anagramma atto a celare pulsioni un tempo inconfessabili, per dirne una.

Potrà forse interessare qualcuno, e avere qualche tangenza con la tua domanda, sapere che io ho scritto molto come donna, mettendomi per anni nei panni psichici di Vivien Leigh. A nome della quale (visto che lei scrittrice, se non di molte lettere, non era) mi sono preso la briga di scrivere anche qualche libro, in versi e in prosa. Il mio enorme rispetto per l’universo poetante femminile l’ho condensato in Scheda editoriale per un libro inesistente, un paio di pagine del mio Mondo senza Benjamin che prendono spunto da Il libro delle ottanta poetesse, una crestomazia ideata ma mai portata a compimento da Cristina Campo, oltre mezzo secolo fa. Lì, abbozzando l’indice, secondo me, di una possibile antologia mondiale della poesia femminile dall’inizio del ‘900 ai giorni nostri, ho scritto che la voce femminile è “sempre disposta a costruire continuità e rapporti” e che nella sua multiforme identità “mette in gioco le forze più potenti della creatività e della razionalità umana”. Non ho dubbi sul fatto che il futuro, anche in poesia, sia donna. Di recente ho conosciuto di persona un paio di poetesse palesemente eccellenti, Rita Dove e Ana Blandiana, e anche delle autrici più giovani che fanno ben sperare.


La consuetudine delle interviste di Alma è quella di andare a frugare nei cassetti di ogni autore per scovare un inedito.

Nei suoi ne ha uno da condividere con noi? Gliene saremmo molto grati. (A.C.)


Sono io a ringraziarvi per l’ospitalità, e per questa richiesta. Scelgo un testo che dà conto esemplare della mia visionarietà negativa: dieci versi concepiti “in interiore” che quietamente minacciano gli amabili colpi d’occhio della poesia visiva:


Come una luce stenta che da dentro

tenda al suo Zenit fra le pieghe

della mente e in fondo all’anima,

dove la fiaba della mia esistenza

racconta di una strenua spoliazione, temo

di non sapere reggere al paesaggio.

Che crolli il sole e sorga il nero

e, dopo, il chiaro del vuoto, e indaghi Dio

nell’osservanza della sua rinuncia

l’occhio allenato alla dissoluzione…


La videopoesia è a cura di Francesco Destro.


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