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Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

«Liquidità delle forme vegetali»: recensione a "Lo spettro visibile" di Antonio Francesco Perozzi

Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022), seconda antologia poetica di Antonio Francesco Perozzi, già autore del romanzo Il suono della clorofilla (L’Erudita, 2017) e della raccolta Essere e significare (Oèdipus, 2019), ha un titolo ossimorico: lo spettro (umano, animale, pianta, atomo), per definizione ectoplasma fantasma ombra impalpabile, si fa qui entità concreta – visibile, appunto. Pur essendo un titolo tematico e non rematico, Spettro visibile richiama fin dal principio le quattro unità che dominano nella raccolta: universale, animale, vegetale e minerale. Siamo dinnanzi a una vera e propria cosmologia di memoria classica, priva tuttavia di scopi teleologici, sospesa in un fluttuante e incessante divenire eracliteo: assente ogni forma del divino, il libro si snoda in sei sezioni coese ma anche autonome l’una rispetto all’altra (Catabasi normale, Dalla soglia, Lo stato animale, Inquiete, Unità rocciose distinte, Chema).


La prima sezione del volume – Catabasi normale – è orchestrata sul motivo del macroscopico e dell’indefinito: i suoi titoli (Caduta, Fondale, Miriade, Notturno, Visione, Diurno, Viandanza) sono già sufficienti a suggerire questa idea di leopardiana vaghezza quasi interstellare – un moto discendente, in Fondale e Caduta e uno cronologico, in Notturno e Diurno – sulla quale Perozzi gioca anche a livello di modelli e fonti intertestuali:


E so per ora: non andartene docile.

Avere un quaderno e cioè: questo è il silicio,

la massima componente, starci dentro sempre.

Cioè: si rimane dimenticando

di misurare l’ossigeno, capitando oltre

la vetta delle sterpaglie grazie all’ossigeno.

(La viandanza, 1-6)


Il primo verso richiama esplicitamente una nota poesia di Dylan Thomas, Do not go gentle into that good night, nella quale il poeta gallese incita il padre morente a non arrendersi allo spegnersi della luce e al sopraggiungere delle tenebre mortuarie. È possibile che Perozzi abbia in mente l’uso che di questa poesia, in un contesto indefinito e universale, simile a quello proposto nei suoi versi, ha fatto il regista Christopher Nolan mostrando, nel suo film Interstellar, in sottofondo ai versi di Thomas, galassie profonde e buchi neri.

Nella seconda sezione, Dalla soglia, l’autore passa al secondo anello della costruzione universale del cosmo – quello terreno, il nostro – richiamando, forse consapevolmente, certa poesia didascalica settecentesca, la cui fortuna ispirò autori del primo Novecento – si pensi alle Epistole entomologiche di Guido Gozzano – ma organizzando i regni con una dispositio quasi darwiniana:


Quella che indossi è l’animale,

un sicuro esaurimento di risorse

fiutate prodotte assunte con l’uso

delle mani del pensiero spesso.

Poi c’è la vegetale, un demonio

che trattiene sopendo la linfa e un segreto,

cava spuma dai metalli e sta

tutta la vita da una parte.

Il resto è minerale o agita

i frammenti della realtà antartica,

non solo: vortici dietro il cristallo

nascosti chiamarli chema oppure Dio.


Ha scritto Del giudice nell’introduzione alla raccolta a proposito dello stile dell’autore:


Lucreziano, fenomenologico, il DNA della scrittura di Perozzi contiene informazioni genetiche della poesia didascalica e della filosofia del Novecento; è imparentata con la poesia di F. Ponge, M. Moore, G. Stein e in Italia Pier Luigi Bacchini. Questi presupposti agiscono nella microstruttura e negli interstizi del testo.


Un’osservazione quanto mai giusta: la poesia di Perozzi oscilla, come detto, tra il macroscopico e il microscopico, senza perdere tono o incorrere nel clichè, ma conducendo un’analisi della Natura lucreziana, modulata sul ritmo endecasillabico. La riflessione scientifica, quasi asettica e ospedaliera – radiografata, quando necessario – è anche motore di implicite e inaspettate riflessioni sulla poesia stessa, come nel caso di Anomalia della dentizione + morte:


andasse qualcosa storto nell’odontogenesi

sarebbe compromessa l’intera postura.

esistono delle fasi e la quantità

dei denti non è casuale. ad esempio

nei rettili sono tutti di forma

più o meno uguale, subconica.

i mammiferi invece hanno i molari.


In chiave metapoetica, è possibile vedere l’odontogenesi come metaforica nascita della poesia stessa, la cui «intera postura» è mantenuta dalla posizione corretta di ogni singolo dente – sillaba, parola, verso. Ogni elemento deve rimanere ben saldo al suo posto perché l’intera costruzione lirica possa stare in piedi.

Infine, bisogna mettere in luce come la poesia di Perozzi affondi le proprie radici nell’ecopoetica e, più in generale, nella letteratura ecologica ed ecocritica, ma senza rendere esplicito un impegno didascalico. L’umanesimo vegetale di Perozzi – disegnato tramite l’utilizzo di termini chimici e fisici, precisi ed enciclopedici – è avulso da una qualsiasi volontà militante, diversamente da quanto accade, per esempio, in Green poems di Lino Angiuli o in Cenere o terra di Fabio Pusterla, ma ha come solo scopo il ritratto quasi scientifico di una Natura in costante evoluzione, immersa in un tempo fluido, volta a una palingenesi del cosmo fisiologica e spontanea:


Ovunque


Purché siano molte, o fittissime.

Tra i vari generi di rampicanti troviamo

le edere e il glicine. Però la storia

vegetale gronda ovunque e bisogna

scavare a fondo prima che il granito

la estenui o annulli o sollevi.

È l’abitudine delle costole

a impedire una piena comprensione

dei funghi. Progetto: eliminazione

dell’orientamento; attesa; una lenta

regressione al minore; spargimento.

Purché sia una volta, e per sempre.


Nel sul «progetto», Perozzi sembra suggerire una volontà di fusione quasi panica con la dimensione circostante, volta a una «piena comprensione dei funghi» e soprattutto votata all’«eliminazione / dell’orientamento», ovvero alla totale libertà del discorso poetico, non inquadrato in alcun schema didattico.

Come ha scritto Del Giudice:


Le idee fungine, ora mangerecce, ora muffe, vivificano nel sottobosco del testo. Il tempo, ad esempio, in questo libro, è un’idea a forma d’elica o fisarmonica. Le dilatazioni e le coagulazioni del tempo giocano con le ipotesi generative del mondo, così l’atto creativo riassume in sé strati temporali.


La dimensione a-temporale, a-storica, pre-umana alla quale allude Del Giudice è ben percepibile nella raccolta e fa si che nessuna mutazione avvenga nella realtà naturale all’interno del libro: in poche parole, nessuno sviluppo sensibile accade e dunque alcuna fine cosmica è presagibile all’orizzonte. Solo la chiusa di Liquidità delle forme vegetali sembra tradire una qualche futura Apocalissi che forse, in un’altra raccolta o in un altro tempo, verrà a sradicare quanto costruito in questi versi:


«Che recita fare, quale

ecosistema sabotare?».


Antonio Francesco Perozzi è nato nel 1994 e vive a Vicovaro, in provincia di Roma. Attualmente insegna nella scuola secondaria. È autore del romanzo Il suono della clorofilla (L’Erudita, 2017) e delle opere di poesia Essere e significare (Oèdipus, 2019) e Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022). Suoi racconti, articoli e poesie sono apparsi in riviste, giornali e blog. Gestisce a sua volta un blog di scritture, La morte per acqua.

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