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  • Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Gli Inediti di Francesca Mazzotta

Nella nostra società capitalista occidentale il tempo di inizio dell’adultità viene continuamente procastinato, rimandato a un momento altro. Specificamente in Italia pare esserci una genetica e storica inclinazione a questo attardarsi, esemplificata anche dall’età minima, altissima rispetto agli standard di altri paesi europei, in cui ci si accinge a lasciare il nido per costruirne un altro, da soli o in compagnia; anche la ministra Fornero qualche anno fa, mentre dichiarava un nuovo aumento della tassazione, ci accusò di essere “bamboccioni”.

E ora che la gestione della pandemia, tra chiusure e aumento del caro vita, ha causato un ritorno da mamma anche di molti tra coloro che avevano provato a costruirsi altrove un futuro, la questione del quando la fase adulta possa avere inizio torna al centro del dibattito.

E vi fa ritorno anche in relazione all’incremento spropositato di ricorsi alla cosiddetta body modification, espressione con la quale si designa l’insieme delle pratiche attraverso cui intervenire sul proprio corpo, dai tattoo alla chirurgia estetica, dai piercing al body painting, solo per citare alcuni esempi.

Il corpo, fallacemente equiparato nella sua componente estetica alla persona tutta, diviene il capro espiatorio del tentativo anacronistico di fermare il tempo, di estendere a oltranza l’era della giovinezza, erroneamente ricondotta in via esclusiva alla spensieratezza, ai grandi slanci, all’ardore smisurato. E sebbene sia anche questo la gioventù, senza dubbio essa è pure il tempo dei dolori atroci, dell’incertezza, della faticosa composizione identitaria.

Francesca Mazzotta, in queste riuscitissime prose poetiche, osserva la questione da dentro, riconsegna al transito da una fase all’altra della vita la visione complessa con cui sempre il fenomeno andrebbe indagato, unisce stati d’animo e raziocinio e restituisce un’immagine generazionale articolata e composita. Trenta lune, lavoro inedito di cui riportiamo qui alcuni estratti, assegna alla fine dei vent’anni il ruolo spartiacque tra un prima e un dopo, rievocando la necessità di riti di passaggio oggi assenti o svuotati del loro significato. Facendo di ogni spazio un luogo interiore e muovendosi agilmente tra ambiente domestico, scenari urbani e un altrove lontano, Mazzotta dà voce a paure e retroscena di quelli che da fuori qualcuno etichetta semplicemente come traslochi, cambi di professione, interruzioni di relazioni e lo fa con una scrittura consapevole e patemica, capace di trovare il giusto connubio tra sostanza e forma, infilandosi perfettamente tra vita e poesia.



Trenta lune


1. Chiudere le porte


Chiudere le porte, svegliarsi supini sulla sabbia bagnata. Distendo le mani facendo aderire i dorsi a terra, piegando le dita a conchiglia. Shavasana dice l’insegnante di yoga sul monitor del pc. Partire dai piedi è fermare il passo. Mi concentro sulle sensazioni negli alluci: una foglia secca che si sbriciola, diventa polvere. Salgo ai polpacci. Sento annodarsi le fatiche di un correre alla cieca, inseguendo l’ombra. Torno alla sabbia. Al rumore del mare, e per un attimo sto bene. Sento i gabbiani stridere. La luce che mi beve gli occhi, li schiude con un bacio materno. Intorno a me la spiaggia si popola di altri corpi, intonsi nella luce. Non mi vede nessuno.

Alcuni bambini fanno il bagno vicino alla riva. Si schizzano. Un ragazzo e una ragazza avvinghiati su un telo tra la sabbia e il sole hanno pulsioni animali - vorrebbero fare l’amore qui, adesso. Il venditore di cocco urla col sorriso di latte di un bambino. Cammina spedito. Urla cocco fresco e sembra che canti una buonanotte al mare. Ma è giorno. Ritorno sul tappetino tra la spina dorsale e il parquet. Salgo alle ginocchia. Rivedo un amore grande, il più grande, il primo, il secondo? Alcune parole che vibrano. Quando gli dissi che da ubriaco era più simpatico. Lui replicò che lo era sempre stato, poi la vita l’aveva reso paranoico. Salgo alle cosce, al bacino, mi fermo alle vertebre lombari. Qui qualcosa si blocca. Un aspirapolvere al piano di sotto spezza l’incantesimo. E cado di nuovo nella buca terrosa di un giorno normale, ferito dalla paura.


Sbuccio un uovo sodo nel lavandino. Non riesco a fare leva sul guscio, l’albume si infrange e temo che fuoriesca il tuorlo liquido. Il guscio è troppo sottile, le unghie premono goffe. Butto via tutto, ricomincio.


Ricordi il periodo liceale, il tempo del conformismo, del gilé double-face rosablu, la prima sottile linea di matita nera sotto gli occhi. Avril Lavigne, gli walkman. Le attese del bus sui viali negli inverni acuminati, la strada coperta di brina. I foglietti con cui barare alla versione, le ricreazioni e le ossessioni: dimagrire, simulare corpi immacolati, conquistare quello carino della terza B. Ricordi le corse sulla sabbia, la caccia alle conchiglie col buco. Tuo padre che ti cerca lungo la riva. Sei una bambina scappata dal giardino e finita sulla spiaggia. Sei una donna che rivede se stessa come una bambina scappata dal giardino. Chiudere le porte è quel padre che ti viene incontro di fretta sulla sabbia, esplode in un sorriso, in un pianto. Padre che ti ha ritrovato, che esplode e ride, che piange e si rompe. È tutta la sabbia rimasta tra l’alluce e l’indice in quel secondo, l’impossibilità di scandire gli elementi, le parti. Il giardino abbandonato.


2. Girare le chiavi


Gli ingranaggi possono incantarsi, girare a vuoto in circoli viziosi, intopparsi e rendere le cose un’ossessione che si abbatte sulla stessa parete di gabbia, di vetro, di terra anchilosata. E non la rompe. C’è questa peste che incanta e rattrappisce i meccanismi. Quest’incanto che non incanta, ma costringe. Perché questo fa l’incanto sugli ingranaggi. Le persone incantate sono alate, trasognate, leggere. Gli ingranaggi incantati restano rasoterra, non conoscono lo slancio. Non volano. Girano a vuoto, in basso, soffiano brezze infernali che si autoalimentano, beccano le prede innocenti lungo il fiume. Mangiano. Rispondono alla logica meccanica istintuale delle bestie di ferro, bestie di ferite.


Torni in te, capisci che sai di poter tornare. Per esempio adesso lo ricordi. Ricordi di aver posato le chiavi di casa sulla mensola vicino al letto, ieri notte. Era tardi. Il suono di un motore prima di addormentarti, ricordi, dopo aver posato le chiavi sulla mensola. Il tonfo della saracinesca del Kebab Mesopotamia, sotto casa, è stato l’ultimo rumore di ferro che hai sentito. Poi, poco dopo la saracinesca, anche la vetrina degli occhi si è oscurata. Hai pensato al Nilo, al Tigri e all’Eufrate. Ti sei chiesta se nelle mani del kebabbaro perdura un granello di quelle terre, un detrito di memoria, quali sono i suoi fiumi. Sei caduta in un sonno senza sogni, in posizione fetale. Quali sono i tuoi fiumi?


Ho chiuso tutte le porte della vecchia casa. La vecchia casa è perfetta nel suo silenzio di cera lasciata freddare. I mobili lustri che resteranno per i prossimi inquilini sembrano nuovi. Le stanze dove ho perimetrato i nostri cuori sfibrati, la camera da letto, il bagno e la cucina, il ripostiglio, il salotto col divano azzurro - tutti gli spazi sono intonsi, sono pronti. Sono loro che mi rigettano, ma con discrezione. Il loro è un congedo reverenziale. Lo percepisco dalle simmetrie che adesso mi fanno sentire un’estranea in casa mia. Un’estranea nella mia vecchia casa.


3. Spingere l’uscio


La tua è una luna piena e bianchissima, in un cielo così muto da sembrare il frutto di un sogno. Dormi. Dormi tranquilla su un’amaca sotto un’alta sequoia e rifiorisci dall’ombra. Oppure, appollaiata sul divano, leggi qualcosa di complicato sul diritto, fai le tue ipotesi e raggiungi le tue conclusioni. Rifletti, vivi. Sei bellissima in una sala parto mentre piangi per il dolore per cui sei nata: dare la vita. Dare la gioia, la vita, contagiare con la forza di un ridere che somiglia ai cancelli spalancati nelle terre marine, agli ulivi verdi lungo una strada sterrata e semplice.

Sai, ho visto un famoso documentario sull’amicizia tra un uomo e un polpo femmina. Pare che i polpi abbiano la propria sensibilità distribuita sulle migliaia di ventose sui tentacoli. Avvinghiandosi agli scogli, alle alghe, ai sassi del sottomare, sentono tutto, gioiscono, soffrono. In una scena del documentario l’animale si raggomitola sul petto dell’uomo, mentre sta sospeso sott’acqua. Lui resta immobile, con la maschera e il mento inclinato osserva la creatura che gli occupa la pelle dello sterno. Il suo cuore sotto umano e sopra animale è custodito dal mare.


Da quando sei sparita ti interpello spesso. Quando mi sento scoraggiata e ho paura o penso che potrei fare meglio e chiedo tanto agli altri, mi ricordo di te. Mi chiedo e mi rispondo come reagiresti tu. È sempre una risposta assolata e chiara, forzuta come un braccio di donna pieno di volontà. Braccio che spinge tutti gli usci chiusi delle case, si fa strada per i corridoi silenziosi mentre gli altri dormono, spalanca le finestre ed esce. Si sporge nel giardino, sistema i vasi con le rose. Accarezza le foglie e i tronchi ruvidi e scuri. Si passa una mano sul turbante blu, lo raddrizza. Poi con l’indice raccoglie una lacrima di gioia di cui non ti eri accorta.


Francesca Mazzotta è nata a Firenze nel 1993. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica all’Università di Bologna con una tesi sul poemetto novecentesco e è attualmente dottoranda all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2015 ha vinto il premio di poesia Elena Violani Landi e nel 2016 il premio InediTo – Colline di Torino, grazie al quale ha pubblicato la sua raccolta d’esordio Reduci o Redenti. Nel 2018 ha pubblicato il prosimetro Umbratile e nel 2021 per Passigli Editori Gli eroi sono partiti, opera finalista al prestigioso premio letterario Giuseppe Dessì.


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