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Le Rubriche di Alma: Alma & Pasolini (VI Appuntamento)

Immagine del redattore: Sara SerenelliSara Serenelli

«Il cuore messo a nudo»: L’Usignolo della Chiesa Cattolica di Pier Paolo Pasolini


Lingua


Fanciulletto perverso con le gemme

dell’Europa terse nel mio sesso,

morto di timidezza feci ingresso

nel mondo vigilato dagli Adulti.

Amai la statua più nuda d’amore:

dov’ero carne essa era avorio.

Come farle indossare i maliziosi

calzoni che fasciavano l’ingenuo

mio fianco? E ancora io m’estenuo,

eterno fanciulletto, ad abbracciare

con uno sguardo il marmo che m’abbaglia.


Diedi i miei ardori fidi e informi

a quella Forma preesistente, accesa

del mio amore, e crudelmente illesa.

Io amavo troppo! Era fanciullesca,

senza ironia, la mia dolce speranza:

non concessi la minima vacanza

ai miei sogni, né il minimo sorriso:

ma erano le Origini. E i miei baci

non corrisposti erano capaci

di distrarmi da una morte certa.

E la via della morte mi fu aperta.[1]


[…]



L’Usignolo della Chiesa Cattolica esce per Longanesi nel 1958, solamente un anno dopo la pubblicazione de Le ceneri di Gramsci (1957), l’opera che sembrava aver tracciato la strada lungo la quale seguire l’evoluzione poetica di Pasolini. Nel frontespizio della raccolta appaiono gli estremi cronologici, le date di composizione di quelle poesie: 1943-1949. Questa datazione lascia perplessi soprattutto per la grande differenza che si nota sia a livello di contenuto che di tono rispetto ad altre poesie pubblicate da Pasolini nel medesimo periodo in riviste e brevi raccolte. Taluni hanno avuto il sospetto che le poesie comprese ne L’Usignolo fossero un rifacimento o che altrimenti fossero state retrodatate, per altri invece si trattava di un libro «tenuto nel cassetto per una sorta di silenziosa autocensura»[2]. Afferma a ragione Bandini che L’Usignolo della Chiesa Cattolica «offre una mappa retrodata e intrigante dell’iter poetico pasoliniano»[3] e altresì fornisce al lettore elementi preziosissimi per leggere al meglio non solo la traiettoria poetica ma anche quella esistenziale del poeta de Le ceneri di Gramsci. I significati, gli inabissamenti che della raccolta riusciamo a cogliere derivano in buona parte dall’apparizione “postuma” della raccolta stessa. Leggere L’Usignolo dopo le Ceneri, moltiplica le possibili interpretazioni, intensifica la potenza delle parole, sottolinea la vena alla quale Pasolini decide di affidarsi per rappresentare la propria autobiografia poetica «lasciando», di contro, «altra copiosa messe di prove di quegli anni allo stato di inedite o disperse»[4]. Formalmente compatto e omogeneo L’Usignolo è invece dal punto di vista contenutistico un flusso, un succedersi di fratture che danno voce ai dissidi interiori del poeta: le tensioni di un’anima che tragicamente si scontra con la società e un mondo privato della propria coscienza. Si tratta del frutto poetico derivato dallo scontro con le iniquità della storia di cui Pasolini poeta è privilegiata vittima e privilegiato spettatore. Emblematica a questo proposito la figura complessa dell’usignolo che da un lato rappresenta la grazia naturale, la grazia dei paesaggi di Casarsa, la forza e la bellezza trascendentale del canto. Dall’altro esso è anche l’alter ego di Pasolini, la sua incarnazione, in qualche modo il suo doppio. L’usignolo che da un lato con il suo canto muove e smuove il cielo, e l’usignolo dall’altro che fischietta ordinariamente come un fanciullino rappresentano entrambi il primo e traumatico momento di dissidio nella coscienza di Pasolini. Essere volti all’infinito, allungarsi a toccare il cielo e insieme constatare drammaticamente la limitatezza del proprio essere umani. Un grazioso e tormentato usignolo che prova a fare i conti con il proprio senso di religiosità: una religiosità complessa che innerva tutto il libro e i suoi passaggi più importanti. Una religiosità problematica a cui fa da specchio la struttura del libro stesso, altrettanto complessa, altrettanto tormentata. Drammatico il rapporto con Dio, giocato su una pericolosa linea di tensione, tra avvicinamenti e allontanamenti, tra comprensioni e malintesi. Pasolini sta prendendo coscienza di sé, del suo corpo, del suo sesso e dunque della sua limitatezza. Questo provoca un corto circuito nella relazione col sacro: riverbera, ritorna per tutto il corso della raccolta la figura del Cristo con il suo corpo esibito nella quale pure al pari dell’usignolo Pasolini si immedesima. Un Cristo ferito ed esposto: è l’immagine dell’innocenza deturpata, profanata e offerta alla vista di tutti. Un’immagine nella quale Pasolini trova conforto e si vede rappresentato.

Che non si tratti di testi rivisti a posteriori o retrodatati lo conferma il fatto che Pasolini avesse inviato una raccolta con lo stesso titolo già nel 1946 al concorso poetico indetto dal quotidiano «Libera Stampa» di Lugano: nella commissione giudicatrice c’era anche Contini. Si tratta dunque di testi recuperati e pubblicati successivamente a Le ceneri di Gramsci per una precisa volontà autoriale. Sul perché pubblicarli quasi dieci anni dopo averli scritti si può e si deve certamente riflettere. Acutamente Bandini nota che nei versi della raccolta si legge una «confessione della propria omosessualità» da parte di Pasolini, la quale avviene all’interno di «contesti liturgico-drammatici, che recuperano forme di cristianesimo decadente alla Verlaine o alla Nouveau»[5]. È proprio a proposito della poesia de L’Usignolo che Fortini parla infatti di “falsetto” in Pasolini: una voce poetica «che supera il registro naturale»[6], notando dunque la forza di un dettato del tutto particolare, a tratti mistico. È tuttavia Barberi Squarotti a fornire in qualità di recensore una delle più acute letture di queste poesie: il critico parla difatti di «lacerazione dell’anima e della storia» e può farlo proprio perché legge, come noi, L’Usignolo dopo Le ceneri. Questo gli permette di connettere l’eresia marxista de Le ceneri, all’eresia cattolica presente ne L’Usignolo. Eresia quest’ultima nella quale «la lotta col peccato e il trionfo delle sue suggestioni diventa tensione prerazionale e viscerale moto d’amore verso il popolo»[7]. Un libro che scava dentro, che rastrema il fondo umano, che esibisce quei conflitti segreti dell’Es con l’Io, e lo fa secondo una maniera tutta pasoliniana: come se si stesse assistendo a una sacra rappresentazione. D'altronde era stato proprio Contini «in una lettera a Pasolini del Capodanno 1947, parlando dell’Usignolo che il poeta aveva inviato al concorso di “Libera stampa”»[8] a individuare la componente segreta peculiare della raccolta. Raccolta che si muove come dicevamo nel fondo, visceralmente, pericolosamente. Non sarà allora un caso se considerando questa prospettiva si nota tra le righe di questi versi la centralità della figura materna spesse volte vestita o mascherata da Madonna. Appare chiaro che Pasolini ci porta con sé a vivere e sperimentare una seconda dolorosa e scompaginante nascita nel mondo degli adulti e della razionalità. È la caduta dell’angelo, è l’uscita dall’Eden, è la fine dell’idillio provocato dal trauma della scoperta del mondo. Un mondo ostile, gretto, oscuro del quale prima il poeta sembrava non essersi accorto. È «la cacciata dal paradiso terrestre dopo i fatti di Ramuscello»[9]. È il poeta che parla di sé «esposto come un cristo in croce»[10], nudo tra i versi della sua poesia, con accenti altissimi di sincerità come quelli che possiamo leggere in Le primule:


Dove trovo la forza di ascoltarmi?

Questo enigma pei ragazzi e gli onesti,

questo fido al caldo delle sue vesti,

questa vittima dei suoi sogni insani,

può ancora in sé trovare le freschezze

delle rive di primule, le inezie

affascinanti che il vergine assillano?

Lo può, lo può! Il cuore messo a nudo

mai non cesserà d’essere cuore:

Tu, Dio, come l’allodola mi sai

che de joi muove sas alas contra ΄l rai!


Io turbo il pudore delle primule

troppo semplici nella luce rozza

di marzo, se di campane e pioggia

squilla il vivo, laborioso giorno.

Non possono arrossire o infuriarsi

o, se lo fanno, è con occhi arsi

d’amore e di nuove seduzioni.

Mi assomigliano. La loro vergogna

è la mia impudicizia, il loro sogno

ha candide innocenze come il mio.

In esse il mio pudore offeso spio.


Quand’ero perso nel loro bagliore

ero, mi volevo, un buono, un santo.

E ancora mi assale quell’antico

entusiasmo di vergine, nel dare

senza compenso ad esse ogni energia.

Voglio il loro sorriso, simpatia

vitale, e per averlo, morirei.

Sono così innocenti che io chiedo

al cielo che gioire esse mi vedano

di purezza, o, in una luce mitica,

per salvarle, dare la mia vita.


Indi sorrido nel deserto tutto

esplorato del mio cuore: bontà,

dolcezza… Ma c’è forse chi non sa

il suono impuro di queste parole?

Deserto nel deserto è la mia mite

condotta. Le mie pietà gioite

sono moti della mia indifferenza.

La coscienza – né tenebra né luce-

alle disperazioni mi conduce

che ebbi adolescente: il vuoto puro

dell’esistenza senza futuro.


Non invecchio. La mia pelle di primula,

la mia voce di brezza dolce d’umido,

i miei occhi modesti, non consumo.

Dentro il mio cuore c’è un resto eterno

di fanciullezza (e non è il mistero

del Mondo che pur rischia d’esser vero?)

Cibo delle primule e del mio cuore,

fa ogni cielo diverso, ogni alito

d’aria il primo, ogni battito d’ali

annuncio di creazione. È troppo libero

il cuore! In me lo credo, e altrove vive.[11]


Da «quel vuoto puro / dell’esistenza senza futuro» muovono i versi de L’Usignolo, è il canto disperato che aprirà la strada a una nuova poesia, a una nuova attività poetica che si svilupperà a partire dagli anni Cinquanta.

[1] P. P. Pasolini, Lingua in Id., L’Usignolo della Chiesa Cattolica, Milano, Longanesi, 1958 (nuova edizione Torino, Einaudi, 1982), ora in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori, I Meridiani, vol. I, 2003, pp. 447-449, p. 447. [2] F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, saggio introduttivo a P. P. Pasolini, Tutte le poesie, cit., pp. XV-LVIII, p. XXI. [3] Ibidem. [4] Ivi, p. XXII. [5] Ivi, p. XXI. [6] Ibidem. [7] G. Bàrberi-Squarotti, Pasolini, «Paragone», X, 114, giugno 1959; si cita da F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, cit., p. XXII. [8] F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, cit., p. XXII. [9] Ivi, p. XXIII. [10] Ivi, p. XXIV. [11] P. P. Pasolini, Le Primule in Id., L’Usignolo della Chiesa Cattolica, Milano, Longanesi, 1958 ora in Id., Tutte le poesie, cit., pp. 488-489.

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