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  • Immagine del redattoreSara Serenelli

Alma & Pasolini (III Appuntamento)

Pier Paolo Pasolini: il poeta che fa parlare le cose


Solo l’amare, solo il conoscere

conta, non l’aver amato,

non l’aver conosciuto. Dà angoscia


il vivere di un consumato

amore. L’anima non cresce più[1].


I versi incipitari de Il pianto della scavatrice sono di certo tra i più conosciuti, celeberrimi e citati di Pier Paolo Pasolini, soprattutto in questo 2022 nel quale si celebrano i 100 anni dalla nascita del poeta (Bologna, 5 marzo 1922). Sono versi emblematici, la cui forza evocativa basta da sola a giustificare la loro popolarità, la loro rinomanza e il costante riferimento e riuso che se n’è fatto e che se ne continua a fare. Anche scissi dal resto del lungo poemetto, questa manciata di versi ci dicono molto: ci dicono dell’importanza del vivere nel presente dell’uomo, della letteratura e della poesia, dell’inconciliabilità, talvolta asfissiante, tra ciò che anche dolorosamente abbiamo raggiunto nel passato e quello che si richiede, che richiediamo, al nostro presente; ci dicono della necessità di avere un’àncora mobile ancorché non immobilizzante che sappia farci andare restando saldi nell’hic et nunc, in grado di svincolarci dall’angoscia germinata dal «vivere di un consumato / amore», dal godere di una oramai consumata conoscenza che troppo di sovente ostacola l’evoluzione interna e anche esterna, personale e di conseguenza collettiva. Ma per quanto ricchi di significato questi pochi versi non possono esaurire la forza di un poemetto che lascia in chi lo legge, lo studia o lo analizza l’impressione di trovarsi di fronte a una poesia autentica, in grado di far parlare le cose, di dire ciò che noi più non siamo in grado di dire; di descrivere un mondo che non c’è più, quello interiore di un uomo, di un’artista che è vissuto poetando in un tempo altro e quello della periferia di Roma degli anni Cinquanta, che oggi -va da sé- ha già cambiato mille volti, e indossato più di cento abiti nuovi da quella pasoliniana. Eppure questo poemetto che si spinge in profondità, e che conduce al dato manifesto incontrovertibile dell’umanità, un’umanità che lavora, rincasa, suda, soffre, lotta sembra non meno attuale -o almeno sembra a me che scrivo, sperando conveniate con me- di tanta poesia contemporanea, di tanti articoli che parlano di guerra, di crisi generazionale, di disoccupazione, di notte brave, di delitti, dell’aumento del carburante. L’attualità della poesia con la “p” maiuscola, che sa farsi portatrice di un messaggio, o meglio di un sentire intramontabile anche quando l’orizzonte sociale e storico di riferimento è già tramontato.




VI

Nella vampa abbandonata

del sole mattutino - che riarde,

ormai, radendo i cantieri, sugli infissi

riscaldati - disperate

vibrazioni raschiano il silenzio

che perdutamente sa di vecchio latte,

di piazzette vuote, d'innocenza.

Già almeno dalle sette, quel vibrare

cresce col sole. Povera presenza

d'una dozzina d'anziani operai,

con gli stracci e le canottiere arsi

dal sudore, le cui voci rare,

le cui lotte contro gli sparsi

blocchi di fango, le colate di terra,

sembrano in quel tremito disfarsi.

Ma tra gli scoppi testardi della

benna, che cieca sembra, cieca

sgretola, cieca afferra,

quasi non avesse meta,

un urlo improvviso, umano,

nasce, e a tratti si ripete,

così pazzo di dolore, che, umano,

subito non sembra più, e ridiventa

morto stridore. Poi, piano,

rinasce, nella luce violenta,

tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,

urlo che solo chi è morente,

nell'ultimo istante, può gettare

in questo sole che crudele ancora splende

già addolcito da un po' d'aria di mare...

A gridare è, straziata

da mesi e anni di mattutini

sudori - accompagnata

dal muto stuolo dei suoi scalpellini,

la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco

sterro sconvolto, o, nel breve confine

dell'orizzonte novecentesco,

tutto il quartiere... È la città,

sprofondata in un chiarore di festa,

- è il mondo. Piange ciò che ha

fine e ricomincia. Ciò che era

area erbosa, aperto spiazzo, e si fa

cortile, bianco come cera,

chiuso in un decoro ch'è rancore;

ciò che era quasi una vecchia fiera

di freschi intonachi sghembi al sole,

e si fa nuovo isolato, brulicante

in un ordine ch'è spento dolore.

Piange ciò che muta, anche

per farsi migliore. La luce

del futuro non cessa un solo istante

di ferirci: è qui, che brucia

in ogni nostro atto quotidiano,

angoscia anche nella fiducia

che ci dà vita, nell'impeto gobettiano

verso questi operai, che muti innalzano,

nel rione dell'altro fronte umano,

il loro rosso straccio di speranza[2].


Le strofe di terzine di endecasillabi che costituiscono l’ultima sezione del poemetto credo possano essere lette a riprova di quanto detto precedentemente e facciano comprendere quanto profondamente toccante, e quanto al contempo insostenibile a tratti si faccia la lettura di questo testo. Ecco come in Pasolini parlano le cose: la scavatrice grida, straziata, come fosse un uomo, la benna cieca afferra e sgretola. In quel grido e in quella cecità ci siamo noi, c’è la società. Noi, che piangiamo la fine e gridiamo l’inizio, che non vediamo dove stiamo andando ma solo ciò che stiamo lasciando. È il dolore per un cambiamento, che anche quando ci spinge verso qualcosa di migliore comporta sempre una perdita. Piange la scavatrice e con lei l’intero quartiere, l’intera città il tramonto della civiltà preindustriale e assieme l’avvio della nuova società industriale. E nuovo si dice anche il poeta altrove nel componimento: «Nuovo / nella mia nuova condizione / di vecchio lavoro e di vecchia miseria»[3], nuovo e vecchio in uno stesso momento. La luce diventa simbolo di un futuro amaro, un futuro che ferisce. A questa luce angosciante che uccide la fiducia, si contrappone la speranza degli operai e il richiamo alla figura di Piero Gobetti. Una poesia questa di Pasolini dunque che si muove tra «il detto che si riferisce alla sua storia privata e il detto che invece nasce dalla sua intenzione di esprimere contenuti corali, civili»[4]. D’altronde Il pianto della scavatrice è uno degli 11 poemetti compresi all’interno della raccolta Le Ceneri di Gramsci, pubblicata nel 1957, che denuncia già dal titolo l’intento di impegno politico. Raccolta che contribuisce alla creazione del mito di Pasolini quale poeta civile, in quanto ricca di un’attualità politica e civile non sempre facilmente comprensibile a pieno da noi lettori contemporanei. Tutti gli 11 poemetti ivi compresi erano già stati pubblicati tra il 1951 e il 1956 su rivista (unica eccezione costituiva per l’appunto Il pianto della scavatrice, edita solo parzialmente).

L’opera cadeva in un momento particolarmente delicato per la cultura di sinistra, in crisi dopo l’”anno terribile” (così sarebbe stato definito da Amendola il 1956) che aveva visto, in rapida successione, il XX Congresso del Pcus in Urss, con la condanna di Stalin, che tante speranze ma anche tanto sconcerto aveva suscitato, e l’evento drammatico dell’invasione dell’Ungheria, cui seguì la diaspora degli iscritti dal Pci, che s’era schierato a fianco dei carri armati russi[5].

Il libro tra l’altro fu un grande successo di vendite, e determinò non poche discussioni tra i critici: Franco Fortini non ebbe giudizi lusinghieri parlando a riguardo della poesia de Le ceneri di Gramsci di una «falsità melodrammatica» e di «volgarità dei conflitti psicologici e ideologici»[6] e allo stesso modo Pietro Citati che la definì «poesia prefabbricata»[7]. Di parere contrario invece, insieme ad altre come quella di Cesare Garboli, è la lettura di Geno Pampaloni scritta poco dopo l’uscita del libro che definiva quella de Le ceneri di Gramsci non una «poesia ideologica» bensì una «poesia dell’ideologia, in un senso affine a quello per cui si parlò di poesia della letteratura e, nello stesso tempo, in un senso affine a quello per cui tanta poesia moderna è poesia delle ragioni della poesia»[8]. Fernando Bandini è, a mio avviso, illuminante quando afferma che Le ceneri di Gramsci «rappresentano la corsa più affannosa di Pasolini all’inseguimento di una sua alta idea della poesia»[9]. Anche se «l’obiettivo di coniugare la propria biografia privata con la storia-cronaca avviene a spese di una convincente realizzazione poetica»[10]. Se difatti da un lato potremmo definire quella de Le ceneri la poesia di una «maturità dolorosamente raggiunta»[11], conquistata dopo l’Eden friulano, e di una adultità acquisita assieme a una ideologia laica «che gli offre una interpretazione non solo della storia del mondo ma anche della propria storia privata»[12]; dall’altro lato però con la raccolta del ’57 il poeta tenta di sottrarsi dalle poetiche novecentesche e dall’esperienza del decadentismo e lo fa non offrendoci «un linguaggio poetico certo e fondante, bensì uno strumento in qualche maniera provvisorio che si adegua di volta in volta alla sua “volontà di dire”»[13]. Il linguaggio de Le Ceneri in effetti accoglie e mescola diversi linguaggi e diverse forme, talune attuali altre antiche, e vari generi tenuti insieme da quello che Bandini definisce un «prodigio»[14]. Un prodigio-collante, «un soffio di autenticità» che trova il suo fondamento «nella forte intenzione della pronuncia, nell’intensità (unificante) di quell’io che “dice”»[15]. Un io che tenta di far parlare le cose, convinto com’è che la letteratura possa «servire a fecondare il corpo della realtà».[16]


Pier Paolo Pasolini

[1] P. P. Pasolini, Il pianto della scavatrice in Id., Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti, 1957, ora in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori, I Meridiani, vol. I, 2003, pp. 833-849, p. 833. [2] Ivi, pp. 847-849. [3] Ivi, pp. 841-842. [4] F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, saggio introduttivo a P. P. Pasolini, Tutte le poesie, cit., pp. XV-LVIII, p. XXXIX. [5] G. Leonelli, Prefazione a P. P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti, 1957. Si cita dall’edizione speciale per il «Corriere della sera», uscita n. 7 del 16 aprile 2022, p. 5. [6] F. Fortini, Le poesie italiane di questi anni. Pasolini, «Il Menabò», 2, 1960, ora in Id., Saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987. [7] P. Citati, Le ceneri di Gramsci, «Il Punto», 29 giugno 1957. [8] G. Pampaloni, Due poeti del dopoguerra, «L’Espresso», 25 agosto 1957 ora in Id., Il critico giornaliero. Saggi militanti di letteratura. 1948-1993, a cura di G. Leonelli, Torino, Bollati Boringhieri, 2001. [9] F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, cit., p. XXXVII. [10] Ivi, pp. XXXVII-XXXVIII. [11] Ivi, p. XXXIV. [12] Ibidem. [13] Ivi, p. XXXIII. [14] Ibidem. [15] Ibidem. [16]G. Leonelli, Prefazione a P. P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, cit., p. 7.

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