Alma & Pasolini (I Appuntamento)
PASOLINI POETA SEMPRE
«Sono uno / che è nato in una città piena di portici nel 1922», scriveva Pier Paolo Pasolini in Poeta delle Ceneri,[1] ma oggi per noi, che ancora lo leggiamo e ci interroghiamo sul lascito della sua opera e sul senso più profondo della sua arte, Pasolini non è e non può essere semplicemente (né semplicisticamente) “uno”. In primis perché di Pasolini ce ne sono tanti dentro a un unico uomo: Pasolini poeta, Pasolini saggista, Pasolini romanziere, Pasolini intellettuale tout court, Pasolini regista, Pasolini polemico, Pasolini lirico, Pasolini malinconico, Pasolini speranzoso, Pasolini interprete accurato del suo tempo, Pasolini profeta disarmato, Pasolini… solo Pasolini. Unico, controcorrente, diverso per sua stessa ammissione e non solo per le sue vicende biografiche, ma anche e soprattutto per il suo modo di stare nella letteratura, in particolare nella poesia, e ancora per la sua maniera inconfondibile di guardare al mondo, alla società (o meglio alle società), al cambiamento. Pasolini sapeva e sa ancora proiettare una luce sulle ombre delle vite e delle geografie attraversate e osservate, denunciarne le brutture; capace di vedere a tutto tondo, di andare oltre anche a quello che gli era familiare o che non faceva parte del suo “patrimonio genetico”. Pasolini parla di tutto quello che è vita e di tutto quello che è morte: il mondo dei contadini, le borgate di Roma, la politica, gli avvenimenti storici, il ’68 e di tanto altro ancora; e ne parla lucidamente e irrazionalmente a uno stesso tempo, esprimendo una visione, un sentire e delle opinioni, mai scontate, a volte poco popolari, come uno che è contemporaneamente dentro e fuori, che percepisce il dramma di tutti come un dramma intimo, che vive intensamente i fatti e i giochi del mondo come momenti cruciali di una biografia personale. E così la sua pagina si impregna di vita, e per quanto in taluni momenti essa risulti contraddittoria e oscura non smette per questo di apparirci meno intrisa di verità, - anzi, forse proprio in virtù di questo ci sembra lo sia ancor di più - una verità a volte scomoda, altre consolatoria, altre volte rinnegata, altre ancora riaffermata con forza. È la verità di un uomo e di un poeta che non ha contemplato la possibilità di nascondersi, le cui pagine e i cui versi sono fiamme che non smettono di bruciare e di bruciarci, e anche quando sono ceneri, ardono. Umberto Piersanti nell’avvicinare l’esperienza della poesia pasoliniana a quella della «grande epopea beat Americana degli anni ’60, ai Ginsberg, ai Kerouac e ai Ferlingetti», ha avuto modo di affermare che in entrambe queste esperienze vita e ricerca «erano intimamente fuse, connesse e venivano bruciate nella stessa fiamma e nella stessa scommessa».[2] Anche se, spesso, prima di bruciarci, le parole, soprattutto quelle poetiche di Pasolini, ci obbligano a una apnea. Abbiamo bisogno di tempo per digerire certi suoi modi poetici, per poterli davvero capire e sentire. Non a caso Fernando Bandini, nel saggio introduttivo Il “sogno di una cosa” chiamata poesia all’edizione de I Meridiani dedicata a tutte le poesie dell’autore, parla di Pasolini come di un poeta oscuro «non per scelta poetica ma per non raggiunta compiutezza dell’espressione», derivata «dallo sforzo di catturare sensazioni e pensieri non ancora del tutto ben definiti» che «genera un discorso caratterizzato da approssimazioni (per difetto o per eccesso) che sembrano ineluttabilmente sfuggire al controllo e alla consapevolezza formale[3]». Questa considerazione, come nota lo stesso Bandini, sembrerebbe istituire un paradosso con la volontà di poesia civile più volte esplicitata dall’autore. Eppure Pasolini è da molti considerato, e non a caso, un grande poeta civile: Paolo Volponi ad esempio, suo amico, avrà modo di definirlo «un intellettuale che nella sua poesia ha affrontato i temi della nostra società e che ha capito, come poeta, come il nostro popolo fosse estraneo ad ogni possibilità reale di partecipare e di scegliere; come fosse costretto - nei suoi dialetti, nelle sue piazze, nei suoi gruppi - a vivere una vita per certi aspetti ricca di rapporti, ma alla fine deprivata della cittadinanza, della possibilità di decidere[4]». Ma sebbene Pasolini fu davvero per questi e altri motivi un grande poeta civile, non è neanche possibile limitarlo entro i limiti di questa definizione. Quando ci poniamo difatti di fronte all’intero corpus poetico pasoliniano non possiamo fare a meno di confrontarci «con la eterogeneità delle esperienze che lo contraddistinguono nel corso degli anni[5]», e molte sono di conseguenza le anime che popolano la totalità della sua opera poetica. Eppure c’è e permane, lungo tutto l’evolversi diacronico della poetica pasoliniana, un dato che rimane invariato, che ci fa riconoscere quella come la poesia di Pasolini e che fa da collante ai vari e variegati momenti poetici: «è il modo con cui, nella teoria e nella pratica, Pasolini pensa alla scrittura poetica come scrittura privilegiata, luogo dell’assoluto, dove ogni asserzione diventa verità e il privato può presentarsi come un universale[6]». Chi scrive crede profondamente che la tensione verso la poesia sia per Pasolini una specie di attrazione e di primigenia vocazione alla quale il poeta non può e non vuole sfuggire. Pasolini è poeta sempre e poeta da sempre, sin dall’infanzia «fin dagli anni più precoci e disarmati della sua intelligenza» e fino alla fine; a testimoniarlo sono anche le copiosissime poesie inedite e disperse (ora raccolte all’interno dell’edizione de I Meridiani), che sono in numero quasi pari a quelle edite e pubblicate. Questo manifesta altresì che l’amore per la poesia è caratterizzato da uno zelo, un fervore e una febbrilità che non ha pari se raffrontata con le altre forme d’arte con le quali Pasolini si confronta. È nei confronti della poesia che Pasolini non smette di mettere in atto «una costante spesa di sé[7]». Quello di Pasolini per la poesia non è semplice amore o riduttiva inclinazione: è una forma delle più viscerali di devozione alla quale il poeta si rivolge con l’animo di un asceta. La poesia è mito, vita, realtà avvolta da una profondissima sacralità e difatti «il senso religioso è costante lungo tutto l’arco di produzione del nostro autore[8] ». E proprio come ogni cosa che risulta avvolta da un’aura sacrale la poesia è qualcosa a cui innalzare sempre lo sguardo, a cui tendere con passione viscerale ma è altresì qualcosa che a volte sfugge alla nostra comprensione, che rimane ignota, a volte solo parzialmente recuperabile. È quella che viene riconosciuta come la «pronuncia sacrale», «sciamanica» della poetica pasoliniana (Zanzotto parla difatti di un Pasolini-sciamano). Questa tensione verso la poesia è anche “totalizzante”: essa investe tutte le varie forme artistiche nelle quali Pasolini si declina in vita: Pasolini è poeta anche quando è regista, saggista, intellettuale, romanziere proprio perché la sua volontà poetica è «ininterrotta e onninclusiva[9]» e trascende i generi e le varie forme con le quali il suo genio creativo si confronta.
Pasolini è un poeta che «ha saputo trascendere, senza perderlo, l’individuale[10]»: se da un lato evidentemente Pasolini è poeta civile, che interpreta le contraddizioni del suo tempo, dall’altro la sua poesia è, dall’ inizio sino alle ultime prove, «essenzialmente autobiografica, ma con la pretesa di fornire alla propria autobiografia un valore esemplare valido ad interpretare anche la storia[11]»; e come dicotomica e lacerata è la sua esperienza personale così lo è la storia.
[…] Sono sano, come vuoi tu,
la nevrosi mi ramifica accanto,
l’esaurimento mi inaridisce, ma
non mi ha: al mio fianco
ride l’ultima luce di gioventù.
Ho avuto tutto quello che volevo, ormai:
sono anzi andato anche più in là
di certe speranze del mondo: svuotato,
eccoti lì, dentro di me, che empi
il mio tempo e i tempi.
Sono stato razionale e sono stato
irrazionale: fino in fondo[12].»
[…]
Non mi sembra superfluo ricordare che l’enunciazione ideologica in Pasolini passa spesso «attraverso la rappresentazione di un io lacerato da interne dicotomie, che si esprimono attraverso l’istituto retorico, dominante nella lingua poetica pasoliniana, dell’ossimoro», grazie al quale «gli opposti coesistono in stranianti unità[13]». Tutti questi elementi non fanno altro che contribuire all’aurea di autenticità che si diffonde attorno alla poesia di Pasolini che viene alimentata dalla «forte intenzione della pronuncia» e dall’ «intensità (unificante) di quell’io che “dice”». C’è un rapporto paradossale tra la poesia e la vita in Pasolini: il poeta «offre la sua vita, le sue credenze e le sue passioni, come il certificato di autenticità della sua poesia[14]», e noi non possiamo che credergli proprio perché poesia e vita sono inscindibilmente legate e l’una grazie all’altra acquisisce una maggiore rilevanza oltre che manifestare tutta la sua peculiarità. Seppure l’idea della centralità della poesia non venga mai meno come non manca mai la tendenza a una poesia che si propone di decifrare e svelare, il modo di intenderla subisce nel corso delle raccolte e delle sperimentazioni, che dall’Eden friulano passa attraverso il dramma adolescenziale de L’Usignolo della Chiesa Cattolica, fino alla maturità conquistata de Le Ceneri di Gramsci e oltre, un notevole sbalzamento o slittamento. Nel periodo giovanile la poesia era stata una consolazione, «l’opera più alta e squisita che la mente umana potesse elaborare[15]», investita di un valore assoluto. Con il tempo il poeta denuncia il suo sprofondamento, qualcosa si incrina nella sua cieca fede:
[…] e il mondo dei sogni si incrinò,
“Nessuno ti richiede più poesia!”
E: “È passato il tuo tempo di poeta…”.
“Gli anni cinquanta sono finiti nel mondo!”
“Tu con le Ceneri di Gramsci ingiallisci,
e tutto ciò che fu vita ti duole
come una ferita che si riapre e dà la morte[16]!”
Più tardi però in Propositi di leggerezza si augura: «Torni il falsetto[17]!», quel “falsetto” di cui parla Fortini a proposito soprattutto della poesia dell’Usignolo, una voce cioè priva armonici e di risonanze, velata, che parla di una seconda e dolorosa nascita, quella nel mondo razionale degli adulti. Pasolini si augura in fondo che torni quel primigenio sentimento legato alla poesia, come di un esercizio confrontante: una consolazione nello scrivere versi, che sente, forse, non sarebbe più tornata.
[1] P. P. Pasolini, Poeta delle Ceneri, a cura di E. Siciliano, «Nuovi Argomenti», Roma, luglio-dicembre 1980 ora in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori, I Meridiani, vol. II, 2003, pp. 1261-1288, p. 1261. [2] U. Piersanti, Pasolini o della dicotomia, in Perché Pasolini, a cura di G. De Santi - M. Lenti - R. Rossini, Firenze, Guaraldi, 1978, pp. 189-202, p. 192. [3] F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, saggio introduttivo a P. P. Pasolini, Tutte le poesie, cit., pp. XV-LVIII, pp. XXX-XXXI. [4] P. Volponi, Pasolini maestro e amico, in Perché Pasolini, cit., pp. 15-28, p. 15. [5] F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, cit., p. XV. [6] Ibidem. [7] Ivi, p. LVIII. [8] U. Piersanti, Pasolini o della dicotomia, cit., p. 194. [9] F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, cit., p. XV. [10] U. Piersanti, Pasolini o della dicotomia, cit., p. 201. [11] F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, cit., p. XXV. [12] P. P. Pasolini, Frammento alla morte, in Id., La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961, ora in Id., Tutte le poesie, vol. I, cit., pp. 1049-1050, p. 1050. [13] F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, cit., p. XXXI. A riprova di quanto detto si potrebbe leggere il finale de L’Appennino in Le ceneri di Gramsci che presenta in chiusa una catena di ossimori. [14] F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, cit., p. XXXIII. [15] Ivi, p. LVIII. [16] P. P. Pasolini, Appendice. La mancanza di richiesta di poesia, in Id., Poesia in forma di rosa, Milano, Garzanti, 1964, ora in Id., Tutte le poesie, vol. I, cit., p. 1157. [17]P. P. Pasolini, Propositi di leggerezza, in Id., Trasumanar e organizzar, Milano, Garzanti, 1971, ora in Id., Tutte le poesie, vol. II, cit., pp. 68-71, p. 69.
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