Le Rubriche di Alma: Alma & Pasolini (V Appuntamento)
Trasumanar e organizzar: la fine del sogno della poesia?
Tra la pubblicazione di Poesia in forma di rosa (1964) e Trasumanar e organizzar (1971) intercorrono ben sei anni. Un intervallo di tempo che per qualsiasi altro autore potrebbe costituirsi e configurarsi come un fatto del tutto normale, ma non per Pasolini, non per un poeta dalla sua penna febbrile, non per un poeta della sua copiosità. E forse questo lasso di tempo anomalo per uno scrittore come Pier Paolo Pasolini avrà, a guardare meglio, un significato più profondo. Il poeta per un lungo periodo nel corso degli anni Settanta non scriverà più poesie. Le date difatti che vengono apposte alla maggior parte dei componimenti della raccolta Trasumanar e organizzar ce ne danno ragione: è soprattutto il biennio ΄69-70 quello più ricco per la scrittura, quello nel quale la maggior parte delle poesie fu scritta. Fernando Bandini ci informa nel saggio introduttivo Il “sogno di una cosa” chiamata poesia a l’edizione integrale di Tutte le poesie de I Meridiani Mondadori che «Pasolini si dolse della pressoché generale disattenzione con cui il suo libro venne accolto. Ma più che di disattenzione si è trattato forse, da parte dei critici e dei lettori, di perplessità. Trasumanar e organizzar è clamorosamente anomalo rispetto all’opera pregressa di Pasolini e non fosse per il ripetersi di predilette tematiche, fosse un manoscritto ritrovato adespoto, ci sarebbe gran disputa tra i dotti se gli debba o no essere attribuito»[1].
E forse è proprio questa sua anomalia rispetto al resto della produzione poetica di Pasolini che lo fa apprezzare a molti di quei lettori o critici che non amano particolarmente di contro il resto del suo corpus poetico. La lettura di questi versi invero suggerisce a chi la legge la sensazione, l’impressione fortissima che Pasolini poeta «abbia rinunciato all’idea della centralità della poesia»: sembra affievolirsi la fiamma ardente dell’urgenza del dire, del dire con i versi, sembra incrinarsi quel binomio quasi indissolubile e paradossale tra poesia e vita, sembrerebbe venire meno quella convinzione profonda che vede nella poesia un mezzo altissimo di rivalsa e di salvezza. Il poeta «non è più nell’omphalos del mondo, non pronuncia più la parola come una verità oracolare, offrendo a prova di questa verità i dati sofferti della sua biografia». Tuttavia, va sottolineato, questo non è un libro contro la poesia tutt’al più è espressione di una crisi poetica che arriva ad investire anche il poeta in prima persona, a livello identitario e di ruolo: una fuga da sé stessi, dal poetico e dal letterario. Rimane, eppure, ancora viva come lo era stata nelle raccolte precedenti l’esigenza di far rispecchiare ai propri versi l’attualità; tant’è che, come aveva già fatto in la Religione del mio tempo, si scusa in una nota finale con il lettore se il libro potrà apparire in taluni punti anacronistico. Pasolini vive nella convinzione che ci si aspetti da lui poesie politiche, civili «che rispecchino con puntuale urgenza i fatti e il colore del tempo»[2]. E nonostante dunque le numerose novità del libro resta sempre a Pasolini quella radicata convinzione di doversi rifare a temi di attualità per potersi davvero dire poeta.
Non esiste più un luogo prediletto da dove la poesia si dipana e sorge, non c’è più Casarsa, non c’è più Roma: ora ci sono il Brasile, l’Africa, la Grecia e tutti i luoghi dove i viaggi lo conducono per le sue molteplici attività. E il poeta sottolinea in prima persona l’importanza di questi luoghi da dove ora origina la sua poesia. Lo fa ad esempio nel verso finale di La nascita di un nuovo tipo di buffone scrivendo: «Ma non è un caso che ciò accada sul Lago Vittoria»[3]. Come se la poesia non potesse che accadere in quell’altrove franto e disperso, e l’io poetico non potesse che dettare ciò che i paesaggi appena scoperti ispirano. «Lo stesso io» avverte sempre Bandini, «che da quei luoghi appare generalmente (a parte qualche eccezione) poeticamente sommesso, velato dall’ironia e dal gioco linguistico.» Si assiste a una diminuzione della forza della pronuncia dell’io che porta con sé anche una «diminuzione tonale del proprio “vero”» e che si configura a ben guardare come una specie di maschera: «è la precipitazione dei temi pasoliniani nel fondo di una organica interiorizzazione»[4]. È un nuovo modo di fare e guardare al proprio esercizio poetico. Sempre nella poesia La nascita di un nuovo tipo di buffone, citata poco fa, Pasolini espone i caratteri peculiari di questa sua nuova visione e applicazione poetica:
Io non ho più il sentimento
che mi fa avere ammirazione per me.
Non considero il fondo delle mie parole
come un fondo prezioso, una grazia,
qualcosa di speciale e di particolarmente buono.
Che cosa comunico, alla fine
della mia carriera di poeta, che, sotto sotto
si considerava indispensabile all’umanità?
Ecco la risposta (nel mattino
del primo gennaio 1969):
“Una spiacevole ironia su tutto ciò”.
Come fu imperterrito e puro il mio zelo
Alla luce del mio narcisismo!
Attraverso l’umorismo rientro nell’ordine[5].
La conclusione del componimento è altrettanto eloquente: «Io do sfogo all’equivoco fervore mattutino, / per cui mi dichiaro “poeta dilettante”»[6], e di questa dichiarazione/espressione Pasolini dà conto, esplicitandone i contorni più chiaramente, in una nota a piè pagina nella quale si legge: «Che scrive della poesia sulla propria esistenza, per pura protesta contro il neo-zdanovismo»[7]. Pasolini all’interno di questa raccolta si muove dunque tra due poli che solo apparentemente risultano in contraddizione: da un lato il permanere di quel sentimento del proprio vero da sempre pronunciato in versi, dall’altro un uso sapiente dell’ironia. Il movimento oscillatorio tra questi poli si traduce spesso per mezzo della palinodia, che trova la sua forma più esplicita nella poesia che dà il nome all’intera raccolta Trasumanar e organizzar, caratterizzata tra l’altro anche da una tendenza all’antifrasi di molti enunciati. Pasolini si appropria con questa silloge di un «interiore sguardo disilluso con il quale osserva il presente» e che si sostituisce (o va a compensare) all’aspirazione per l’epos civile, verso il quale sembrerebbe compiere una rinuncia. Il poeta si ritira in sé e questo gli permette forse alcuni dei suoi accenti più felici, in grado di dar forma a «quei sentimenti di disincanto e sconfitta che gli eventi successivi avrebbero diffuso tra quanti nutrivano la propria vita di determinate ideologie e fedi»[8]. Questo risultato Pasolini lo ottiene non solo grazie al cambio di prospettiva ma anche abbracciando un linguaggio nuovo: la limitazione dell’enfasi, una nuova metrica nella versificazione, «lasse che si sviluppano a cannocchiale seguendo il processo del pensiero, con versi di varia lunghezza all’interno dei quali sembra talvolta di individuare una cadenza esametrica, ma senza che sia possibile annotare la prevalenza di questa o quella misura, tranne il ripetersi di certe figure da cursus nelle clausole»[9], e ancora la quasi totale scomparsa degli enjambements. Quest’ultima permette una pressoché totale rispondenza tra sequenza sintattica e verso dando l’impressione che i componimenti siano stati pensati per la recitazione. E difatti è possibile affermare che «una certa teatrale gestione della scrittura è presente in Trasumanar e organizzar assieme all’uso della figura retorica della prosopopea»[10].
Pasolini compie un deciso cambio di rotta con la raccolta del 1971 perché è perplesso e in crisi profonda nei confronti delle sue esperienze poetiche trascorse e precedenti, lo era già all’altezza di Poesia in forma di rosa: è il seme della crisi che lo porta ad abbracciare non solo a livello ideologico ma anche a livello formale nuove prospettive e nuovi strumenti, infondendo linfa vitale inedita al suo dettato. L’anomalia della raccolta all’interno del corpus poetico pasoliniano è d’altronde abbastanza nota e non richiede molta acutezza per essere percepita: è uno degli aspetti, e forse l’unico, che i critici hanno da più parti e a più riprese colto e sottolineato. Alcuni tra loro hanno enfatizzato «la noncuranza formale della nuova poesia pasoliniana come atto conseguente e coerente della sua poetica», altri hanno posto il problema della prosasticità della produzione anteriore. Forse, per leggere più a fondo questa raccolta e darle la giusta intonazione, servirebbe mettere al centro della riflessione quella «voce che professa un’umile adesione alle cose e al pensiero»[11], e che si muove ora confidente ora sconfortata nella speranza di un’accensione imprevista di luminosa poesia.
[1] F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, saggio introduttivo a P. P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori, I Meridiani, vol. I, 2003, pp. XV-LVIII, p. LIII. [2] Ibidem. [3] P. P. Pasolini, La nascita di un nuovo tipo di buffone in Id.,Trasumanar e organizzar, Milano, Garzanti, 1971 ora in Id., Tutte le poesie, vol. II, cit., pp. 59-60, p. 59. [4]F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, cit., p. LIV. [5] P. P. Pasolini, La nascita di un nuovo tipo di buffone, cit., pp. 59-60. [6] Ibidem. [7]P. P. Pasolini, Nota a La nascita di un nuovo tipo di buffone, cit., p. 60. [8] F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, cit., p. LV. [9] Ivi, pp. LV-LVI. [10] Ivi, p. LVI. [11] Ivi, p. LVII.
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