Le Contaminazioni di Alma: "Saggio sulla paura" di Fabrizio Miliucci
- Giuseppe Cavaleri

- 27 lug
- Tempo di lettura: 3 min
All’interno di un saggio si dovrebbe presentare un argomento, sviluppare poi una tesi, tirarne le somme. In modo più o meno scientifico o argomentativo. Saggio sulla paura (Pietre Vive, 2022) di Fabrizio Miliucci tradisce in maniera ripetuta e programmatica queste premesse.
Innanzitutto perché si tratta di poesie e brevi prose che di tanto in tanto assumono un andamento narrativo. In secondo luogo, perché la cifra dell’intera raccolta sembra anzi proprio risiedere nell’assenza di un referente preciso. La paura stessa, annunciata nel titolo, è già di per sé risolta perché nei versi si va già ben oltre, provando a capire cosa rimane quando è la dissociazione (rispetto a sé stessi, ma anche alle persone che ci stanno intorno) a prendere il sopravvento.
Disseminata di ossimori (presente domani, bene chiaro) che non trovano mai una sintesi, ma che al contrario rimangono a testimoniare una impossibilità di fusione e quindi una effettiva disgregazione con il mondo e di conseguenza con le parole, la raccolta, suddivisa in sei sezioni più una poesia prologale, presenta lo scollamento identitario e individuale ancor prima che storico e collettivo, della nuova generazione di basso/medio borghesia colta, in bilico tra apocalissi fiscale e velleità culturali/artistiche/lavorative.
Una visione schizofrenica e labirintica in cui anche i versi si frantumano a favore di iper-versi e prose e dove i registri si fondono: dal drammatico (macchine in fiamme e immagini di autolesionismo) all’ironico, con passaggi di cruda, e per questo efficace, semplicità.
Anche i luoghi assumono una visione deformata. La Roma della raccolta è, infatti, quella fuori fuoco della periferia che lambisce il GRA. Un’umanità desolata e proto-apocalittica in cui i protagonisti non sembrano nutrire alcun rapporto con identità che non siano le proprie, ormai scissi da rapporti con l’altro che non siano di profitto o vantaggio. Anche la famiglia è compresa in «questo luminoso richiamo alla disgregazione». Madre (che augura al figlio di non avere mai figli), fratello e ricordo del padre «attraversano le strade degli essere umani come se fossero altrove».
C’è Bordini e di rimando la vita dei ragazzi di Pasolini, ma anche la consapevolezza di chi si sente risucchiato nella bestialità e nel cinismo in uno sguardo sul mondo che non ammette più lirismi o pose intimistiche. Una certa convergenza c’è anche con un altro grande poeta lontano da mezze pose come Simone Cattaneo e la sua Milano, depravata e sconsolata.
Cosa rimane dunque alla fine di questo processo di svelamento della propria impotenza, della propria intangibilità personale e storica?
Il saggio non saggio di Miliucci non lo dice. Ma viene da pensare che se è vero che «la poesia è un encefalogramma» come dice l’autore riprendendo Bordini , è dunque vero che il valore della raccolta è la registrazione (e forse qui il carattere di saggio) di queste onde elettriche, di questi sbalzi che rappresentano magari un grido afono, una forma di resistenza a un labirinto esistenziale «stai attento ai libri».

Costruiamo questa vita monca
fatta di atti mancati poche possibilità tirare avanti.
Gli orizzonti che vediamo non sono lineari, hanno una piega
in mezzo come delle V infinitamente espanse.
Passiamo il sabato a discutere i difetti di un bilocale sulla Casilina
ipotizziamo che trasferirsi ancora più in periferia abbasserebbe la rata del
mutuo
attraversiamo Alessandrino Torre Maura Giardinetti e non vediamo niente.
Ma non è alienazione, è qualcosa che non sappiamo spiegare.
Il tempo si ammucchia fuori dalla finestra, il lavoro si assottiglia
come una candela, identità privata e collettiva diventano ogni giorno più
divaricate.
Nel legno della nostra convivenza, un parassita ha dissodato un solco.
Potremmo alzare la testa e vedere cosa è fuori, ma fuori
è lo specchio irriflesso di quello che è dentro, ovvero un bisogno
in cui siamo giocati fino all’ultimo lembo di pelle.
*
Tutto quello che scrivo non va bene, è sbagliato, non ha
alcun rapporto con il reale. Io stesso non ne ho.
Trascorro le notti rigando la fiancata alle macchine
Sradico specchietti dagli sportelli, cammino fino all’alba infilandomi
Nei canneti del lungofiume.
Vorrei essere diversamente. Tipo essere un altro, essere altrove
Non così fuori di testa o così scombinato.
*
Di una cosa mi interessa innanzi tutto il punto di rottura
provare a vedere quanto regge – ai malumori
ai logorii che riverso sugli altri e su quello che ho intorno.
Da quando ho memoria, tutto ciò che mi è appartenuto era rotto
monco mancante. Il fatto che non si torna più indietro
che la riparazione non equivale a nuova verginità
è il mistero su cui mi arrovello ogni notte, nel sogno.

Fabrizio Miliucci (Latina, 1985) ha pubblicato una raccolta dal titolo Nuove poesie (2010) e scritti di argomento letterario. Vive a Roma.




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