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  • Immagine del redattoreGiuseppe Cavaleri

"Le Contaminazioni di Alma": geografie poetiche del lavoro contemporaneo (parte II)

Nel Novecento post bellico il lavoro si è affermato prepotentemente nella letteratura, dividendosi per sommi capi in due grandi immaginari che hanno dato il via a due universi letterari popolati da istanze e protagonisti diversi e variegati tra loro. Da una parte la fabbrica e l’operaio, il proletario, sommerso e alienato dalle sirene di fine turno, dal frastuono delle macchine, agitato da rivendicazioni sindacali e aneliti rivoluzionari; dall’altra il lavoro d’ufficio, l’emersione del concetto di azienda e dei lavoratori in colletto bianco, non meno alienati nei loro uffici tra i grattacieli delle periferie.

L’industria, come teorizzato da Vittorini e Calvino, nell’imprescindibile numero IV del Menabò uscito nel 1961, diventava l’elemento cruciale per indagare le dinamiche sociali, culturali e antropologiche di un Italia in vorticosa trasformazione, riflesso di un mondo sospeso tra paure nucleari e globalizzazione

incipiente.

 

All’interno di questo (pur breve) focus in due tappe sul legame tra poesia e lavoro nel mondo contemporaneo, in questo pezzo mi occuperò di quella che rimane un’immagine indissolubilmente legata al mondo novecentesco, ma la cui realtà storica, identitaria e lavorativa non è in realtà ancora esaurita: la fabbrica. Cosa rimane infatti del topos “fabbrica” nelle produzioni poetiche italiane (e non) degli ultimi anni? E soprattutto come si lega l’immaginario industriale in un mondo (anche poetico) ormai globalizzato, che negli ultimi decenni ha visto/subito la sua radicale trasformazione sia da un punto di vista operativo, che fisico, con la comparsa, già dagli anni ’80 per la verità, di fenomeni come quello della deindustrializzazione e della precarizzazione. Per esplorare, o almeno muovere i primi passi in un discorso così articolato e così ricco di pubblicazioni negli ultimi anni, presento qui due raccolte che entrano a pieno nel discorso, permettendo di allargarne l’orizzonte a una prospettiva non esclusivamente italiana, ma anche internazionale.[i]

 

'A fabrica ribandonàdha/ La fabbrica abbandonata di Fabio Franzin (Arcipelago Itaca, 2021, pubblicata in quanto vincitrice del premio della stessa casa editrice dedicato a opere inedite non esordienti), è solo l’ultima tappa di un epos operaio che l’autore di Motta di Livenza porta avanti sin dalle sue prime pubblicazioni. Scritta nel dialetto veneto-trevigiano dell’Opitergino-Mottense (ma con una traduzione italiana altrettanto efficace), è suddivisa in tre sezioni.

La raccolta copre un arco temporale che va dagli anni ’70 con le sue domeniche di austerity e biciclette fino alla crisi economica del nuovo millennio e alle porte delle chiusure della pandemia. Una vita, insomma. Una vita passata sullo sfondo sempre di una fabbrica. Quella abbandonata dove si andava da ragazzini (Tre navate aveva questa nostra / cattedrale, tre spazi enormi quasi / come un campo di calcio […]) e quella che diventa posto di lavoro, dove si scopre che «ha un altro odore/ ora, il sudore della fatica da / quello del giocare […]».

Come sottolinea Manuel Cohen nella nota di presentazione del libro, racconto di formazione e consapevole avventura intellettuale si intrecciano in questa raccolta. Se chiaro e ancora pulsante risulta, infatti, l’eco delle “incarnazioni” poetiche novecentesche della fabbrica (su tutte Luigi Di Ruscio, le cui immagini sono spesso richiamate seppure con toni meno infuocati rispetto a quelle del poeta fermano trapiantato a Oslo), la raccolta di Franzin ci offre non solo uno spaccato generazionale di quel territorio come il nord-est italiano che ha visto la propria essenza stravolgersi negli ultimi anni del ‘900 («è solo l’inizio di un’epoca storta»), ma anche ci getta nelle misture e nelle contraddizioni di una realtà che permane con le sue macchine e i suoi motori, e anzi si trova a confrontarsi con problematiche nuove come il vuoto esistenziale che rappresenta la mobilità, senza più quel senso di comunità, di partecipazione politica, sindacale, collettiva del secolo precedente.

 

Una società dove si dismette l’etica delle mani, ma non scompaiono le precarietà lavorative che si rinnovano, cambiando nazionalità e mansioni.

 

Contraltare geografico e non solo alla raccolta di Franzin, le poesie di Xu Lizhi, giovane poeta mancato nel 2014, di cui alcune raccolte in un’antologia di testi uscita nel 2016 con il titolo Mangime per macchine (Editore Istituto Onorato Damen, 2016).

Se in Franzin, siamo in uno scenario post-industriale dove le fabbriche vengono dismesse, con Lizhi ritornano invece temi e immagini saldamente legati a una fabbrica ancora fordista, dove il tempo, lo spazio e la stessa identità sono annullati dalla fabbrica che divora non solo le ore del turno, ma anche i pensieri e le ore sottratte al lavoro.  Prima di mancare nel 2014, Lizhi lavorava alla Foxcoon, la più grossa società al mondo di outsourcing, famosa per produrre i dispositivi elettronici alla base degli Iphone.

Nei suoi testi, molti dei quali ancora inediti in italiano, si racconta con un stile affilato e quasi aforisitico, il totale annichilimento di un’intera generazione (quella dei dagongzhe, gli operai che vengono alle città dalle campagne dell’entroterra) che vede bruciate già a vent’anni prospettive e speranze di una vita migliore.

In attesa di un’edizione completa e corredata da un apparato critico, fondamentale per inquadrare l’autore e i testi, le poesie di Lizhi a noi disponibili hanno un sapore terminale, un dolore misto a rassegnazione che sprigiona versi secchi e immagini laceranti (le vite che cadono come viti nell’indifferenza generale, il marciume dei dormitori). Un universo-fabbrica che divora qualsiasi prospettiva di fuga arrivando a divorare anche lo sguardo e l’immaginazione («la luna fatta d’acciaio»).

 

Visioni della fabbrica in Franzin e Luzhi che si nutrono sicuramente dalle differenze storiche e geopolitiche che legano l’esperienza alla pratica poetica, ma che rendono prova ancora una volta del valore della poesia come testimonianza. Dalla lettura di questi testi, traspare, infatti, in maniera netta che parlare dell’io, sia sempre un parlare del noi, legame tra occhi che, guardando il mondo, guardano altri occhi nel mondo.




Tanta fatica s’è fatta

per arrivare sin qua)

Franco Fortini


Co’ste man, ‘e stesse che ‘dèss scrive,

‘ò segà, fresà, ciapà in man panèi

de legno, invidhà, sbusà, scocetà,

incoeà, inpacà, sièlt e scartà, bordà,

stucà, ritocà, segnà, fregà e inbaeà

par pì de trenta àni. Co’ste man

‘ò carezhà mé fémena e mé fiòi,

‘a front de mé pare co’ l’é mort.


‘Dèss me ‘e mete contro el muso,

davanti ‘i òci. No’ò pì nianca

el coràjo de vardàrme al spècio,

nianca el coràjo de farme ciao.

Con queste mani

Con queste mani, le stesse che ora scrivono,

ho segato, fresato, afferrato pannelli

di legno, avvitato, forato, bloccato col nastro adesivo,

incollato, impaccato, scelto e scartato, bordato,

stuccato, ritoccato, segnato, levigato e imballato

per più di trent’anni. Con queste mani

ho accarezzato mia moglie e i miei figli,

la fronte di mio padre quando è morto.


Adesso me le premo contro il viso,

davanti agli occhi. Non ho più neanche

il coraggio di guardarmi allo specchio,

nemmeno il coraggio di salutarmi


Inverno del ‘18, Fronte Occidentàe


Un sècoeo dopo Caporéto, no’ l’é

pì drio sentieri ièrti in fra ‘e cròdhe,

rive de fiumi zheèsti o rossi de sangue,

fra bufere de neve te stepe infinìdhe


che se vede ‘a disfàta de un pòpoeo,

ma tee stazhión dee nostre cità, tee

piazhe desoeàdhe dei paesi, davanti

ae vetrine inpolveràdhe dee botéghe


seràdhe, tee panchine mèdhe rote

de parchi intitoeàdhi a chissàchi

che ‘sto esercito de sbandàdhi se

cura ‘e ferìdhe. E come un sècoeo


fa, mandàdhi al fronte co’ divise

da poc: i pì zóvani co’ felpe o pail

cioti in saldo aa Decathlon, gins

coi risvoltini o braghe cargo bèis


de l’A&M; i pì veci, giè inbotìdhi

co’a marca de l’azienda che li ‘à

‘assàdhi casa, caschi de lana scura,

scassèe colme de siénzhi e scontrini.


Òmini ferìdhi a colpi de spred,

cascàdhi drento agenzie interinài,

da l’ultima manovra de ‘utùno,

o persi parché el grosso dea trupa


l’é stat spostà in Poeònia o Romania.

Soldàdhi restàdhi indrìo, che no’ sa

pì star al passo dea marcia. Armàdhi

sol de bire e ansie. Amàdhi da nissùn.

Inverno del ‘18, Fronte Occidentale


Un secolo dopo Caporetto, non è

più lungo sentieri erti fra le rocce,

rive di fiumi azzurri o rossi di sangue,

fra bufere di neve in steppe infinite


che si scorge la disfatta di un popolo,

ma nelle stazioni delle nostre città, nelle

piazze desolate dei paesi, davanti

alle vetrine impolverate di negozi


chiusi, nelle panchine malconce

di parchi intitolati a chissà chi

che questo esercito di sbandati si

lecca le ferite. E come un secolo


fa, mandati al fronte con misere

uniformi: i più giovani con felpe o pile

acquistati in saldo alla Decathlon, jeans

coi risvoltini o pantaloni cargo beige


dell’A&M; i più maturi gilè imbottiti

col logo dell’azienda che li ha

licenziati, caschi di lana scura,

tasche colme di silenzi e scontrini.


Uomini feriti a colpi di spread,

caduti dentro agenzie interinali,

dall’ultima manovra d’autunno,

o persi perché il grosso delle truppe


è stato dislocato in Polonia o Romania.

Soldati di retrovia, che non sanno

più stare al passo della marcia. Armati

solo di birre e ansie. Amati da nessuno.


Una vite è caduta a terra


In questa notte oscura di straordinario

cadendo in verticale, tintinnando

leggermente una vite è caduta a terra


Non attirerà l’attenzione di nessuno


Proprio come l’ultima volta

in cui in una notte come questa


qualcuno crollò a terra


9 gennaio 2014


Mi addormento, proprio così, in piedi


La carta davanti ai miei occhi ingiallisce

Con un pennino d’acciaio la incido di un nero irregolare

piena di parole come officina, catena di montaggio,

macchina, libretto di lavoro, straordinari, salari…


Mi hanno addestrato ad essere docile

Non so come gridare o ribellarmi

Come lamentarmi o denunciare


So solo sfinirmi in silenzio


Quando ho messo piede la prima volta

in questo posto

speravo solo che la grigia busta paga,

il dieci d’ogni mese,

potesse donarmi un po’ di conforto


Per questo ho dovuto smussare gli angoli e le mie parole


Rifiutare di saltare il lavoro,

Rifiutare le assenze per malattia,

Rifiutare il permesso per questioni private

Rifiutare di arrivare in ritardo,

Rifiutare di andar via prima


Alla catena di montaggio rigido come il ferro, le mani che volano

Quanti giorni, quante notti


È proprio così che mi sono addormentato in piedi?


20 agosto 2011


 

[1] A queste due raccolte, avrei voluto aggiungere I necrologi di Nadia Agustoni (Camera verde, 2017), di cui ho letto alcuni brani, ma di cui mi è stato impossibile riuscire a reperirne una copia.

 

 


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