«L'ultimo cacciatore»: recensione a "Cartoline di un luogo della terra" di Giuseppe Piersigilli
Giuseppe Piersigilli, al netto di qualsiasi prossima osservazione, ha scritto davvero qualcosa di prezioso e ricercato; di molto ricercato: in diversi tratti della sua raccolta ne emerge con forza questa raffinata minuzia. L’autore ha disseminato il testo, più o meno velatamente, di indizi testuali molto pregnanti, indicatori poetici, che necessitano più di una lettura per essere completamente apprezzati.
La prima traccia di indagine è il titolo: Cartoline di un luogo della terra (Puntoacapo Editrice 2019), che provocatoriamente si potrebbero sostituire con fotogrammi, istantanee. Oppure affreschi: perché la cura lessicale messa in opera da Piersigilli è effettivamente rara e chirurgica, come nella miglior tradizione pittorica italica.
Questa incessante verbosità, alle volte, tende quasi a tracimare la silloge; a tratti, potrebbe quasi sembrare più un manuale di botanica – etologia, tanto accurato quanto didascalico. Ma ciò non accade. Si resta sempre nel solco-verde di un naturalismo positivo mai banale, ed è questa la sua peculiarità.
Lo possiamo notare in Dalla terrazza:
Vedo un mandorlo soffocato dall’edera
tre piante di noce,
il pino e la torre di Arnolfo,
un gelso rigoglioso ai confini dell’orto.
Distano poco e mi fanno compagnia
durante il ritorno,
come se niente
fosse stato.
e ancora in A mio padre:
Ricordo una palomba corallina
grigio-azzurrina.
Cadde colpita in un fosso di creta
in località Col di Pietra.
In quest’ultima poesia emerge anche un altro indicatore: sembrerebbe un metodico barocchismo, come i diminutivi che rimandano a un certo lessico dell’infanzia, – che per la maggior parte dei lettori si potrebbe riflettere nella poetica pascoliana – ma in realtà l’autore è saggiamente, astuto perché vi nasconde quel sostrato familiare, che emerge specialmente nella seconda parte della raccolta:
Febbraio 1970
Pescai due trotelle
a febbraio, sotto la neve.
Mio padre accanto.
Sembravano
– uscendo dall’acqua –
farfalle più grandi.
Un tema quasi costante è infatti quello paterno e più o meno indirettamente quello della caccia, come si è già visto poco sopra in A mio padre. Il legame con il focolare e con i riti ad esso collegati – penso in particolar modo ai temi gastronomici – rispecchiano qualcosa di estremamente intimo, ma anche denso e carico di affetti. Come se la ricerca del vero, che permea comunque questa raccolta in prima persona, prendesse le mosse proprio – e soprattutto – dall’assenza delle figure maschili (padre/nonno) del poeta.
Moto Mondial 175
All’improvviso ci si ammalava
ma non era niente.
La bella cilindrata di una moto
con l’acino rosso sul fanale
e il serbatoio verniciato a fuoco.
Primi anni ’60,
mio padre ancora giovane.
La gioia era tale
che la sera d’estate
si poteva guidare senza mani.
È in quest’ottica di ricordo nostalgico che si colloca quella che definirei una spoon river di borgata: la parte conclusiva della raccolta insiste su una serie di personaggi palesemente riconoscibili, almeno per gli abitanti delle zone di pertinenza del poeta. Sembra quasi che Piersigilli voglia immortalare – e quindi rendere immortali – queste persone, dalla vita umilissima e allo stesso tempo pietre angolari dei suoi ricordi, della sua esistenza.
Ernesto
In queste zone montane
ai tempi della fame
si mangiava il tasso.
La carne andava messa
a bagno nell’aceto
per una settimana.
Poi si cucinava
come il cinghiale.
Abitava a Montalto
e si chiamava Ernesto –
l’ultimo cacciatore
dei tassi con il fumo.
In questo senso la raccolta cede un po’ di quell’universalismo che aveva sin lì costruito; universalismo che invece è presente in alcuni tratti centrali, come Gelagna:
Nuvole basse
lottano in un cielo di neve.
Una volpe è finita
sotto un cofano azzurro.
La forza evocativa – e celeste, onnipresente il lessico del e relativo al cielo – è talmente potente da togliere letteralmente il fiato e fa pensare a una poetica dell’assoluto tipicamente romantica. La toponomastica, a tratti ridondante, si colloca in diretto dialogo con il titolo, che vuole offrire al lettore cartoline di un preciso punto della terra sebbene, per converso, rischi di chiudere a imbuto la possibile fruizione emotiva a un pubblico non autoctono. Il sovrannumero, quasi l’elenco, di frazioni, paesi, borgate, è da un lato motivo di pregio per la connessione territoriale, dall’altro lascia interdetti per la mancanza di respiro più ampio, come in Pievefavera:
Si specchiano salici e ontani
sulle rive che appena digradano.
Venivano a maggio
le carpe a deporre le uova
nelle acque più basse.
Poi tornavano al centro del lago
nei riflessi di Pievefavera.
Al netto di tutte queste osservazioni bisogna dunque riconoscere a Piersigilli una ricerca formale ormai rara: anche la sonorità – con rime a tratti forzate, insistite – rimanda a una poesia pura nel vero senso della parola, quando davvero poetare era sinonimo di musica. Anche la metrica è puntuale e precisa, si accorda al significato, guida anzi il lettore proprio lì dove – magari – l’abuso lessicale-barocco potrebbe creare una stasi, o un arresto nella comprensione.
Piersigilli scrive poesia e sa scrivere poesia. Per quanto sembri negarlo, «Scrivo / sempre di meno / e su cose da poco», il suo è canto di chiarezza, immaginifico e di grande rispetto ambientale: intendendo con questo che il circostante, il reale entrano nel testo senza mai scalfire l’io narrante che, attraverso questo naturalismo itinerante, si interroga sull’esistenza propria e universale.
Giuseppe Piersigilli è nato a Camerino nel 1958 e vive a Cerreto d’Esi (AN).
È insegnante di storia e filosofia presso il liceo scientifico “Vito Volterra” di Fabriano.
Ha pubblicato le seguenti raccolte di versi: Dopo la voce (Il Canneto Editore 2012); Canzoniere adriatico 1984-2014 (Puntoacapo Editrice 2015); Divagazioni, quartine (Edizioni Tapirulan 2017) e Cartoline di un luogo della terra (Puntoacapo Editrice 2019).
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