Gli inediti di Fabio Barissano
Gli inediti di Fabio Barissano che vengono qui presentati trasudano degli umori della quotidianità. È come se nei versi dell’autore ogni veduta scientifica – per dirla coi termini cari al filosofo francese Maurice Merleau-Ponty – avesse l’impellente bisogno di tornare a quegli elementi primordiali, a una condizione antecedente la conoscenza. Da qui, la stessa esperienza che ne deriva, che confluisce nei componimenti, parla sempre, anche in modo inconsapevole, del raggiungimento di questa condizione susseguente e necessaria.
Così, nella poetica di Barissano, per afferrare un risultato che presenti una qualsivoglia natura, occorre avere esperienza compiuta delle cose, immergersi in esse, scovare gli archetipi tra il divenire. Questo bisogno di fondersi con gli elementi naturali si nota sin dalla prima parte di Temporale dove l’autore riferisce emblematicamente che «i passi /elevano» verso quel cielo «lontano», ricolmo di «tragiche tenerezza /d’uragani e porcellana».
Eppure, ridurre il tutto all’esperienza, che, in quanto tale, è pur sempre esperienza (e giudizio) del proprio vissuto, sarebbe l’errore più grave, sarebbe un mero resoconto cronachistico. Così, il cammino dell’io lirico si carica del bisogno stringente di connaturarsi e tingersi di un animo poetico che mira a cercare gli strappi d’infinito, i tasselli irrazionali, proprio in quegli angusti orizzonti a cui si è inevitabilmente relegati. Allora, dietro le numerose allusioni atmosferiche che contengono i versi si celano sempre sentimenti fin troppo umani che portano l’incedere inesorabile della nuova tempesta a mutarsi anche in una identificazione tra l’individuo e il tutto.
Ne consegue il diluvio che si abbatte furioso nella vita del poeta, essere demonico, costretto sempre a scrutare i tratti più sommessi del velo della fenomenicità e a diffondere i suoi risultati facendosi beffe del linguaggio comune a cui comunque deve sempre affidarsi.
Allo scorrere dinamico dell’esistenza, rappresentata da Barissano attraverso la tempesta (l’acqua), in conclusione, si oppone il sole (il fuoco), quasi punto empedocleo rappresentante una totalità percepita come un qualcosa di ormai raggiunto. Eppure, sta proprio nella certezza il bisogno di compiere quegli ulteriori passi di cui sempre si fa carico il poeta. Per questo, la visione conclusiva di un cielo che diventa «grondante d’oro e gloria» e che conduce fino al punto di sporgersi su «un panorama di Consolazione», è null’altro che una piccola tregua dinanzi a una sempiterna ciclicità «che chiede altra acqua», che chiede nuova comprensione.
TEMPORALE
I
La goccia
che cade
fa
specchi concentrici
sul capo
del passante.
I passi
elevano. La terra
è viola.
Immerge ogni cosa.
Il cielo, lontano, ha
tragiche tenerezze
d’uragani e porcellana.
II
Nel lampo che essudanti
in cielo abbaglia rose
trema d’un tuono
scheletro gigantesco.
In punta all’erba
a tempo di
vortice ruotano
minuti pianoforti.
Nel campo delle mele
sistema
il mal tempo le lastre radiografiche.
III
(Che splenda la speranza sempre aspetto)
IV
Il firmamento
è
obeso
d’acqua.
Aspetto.
Ma
ecco
a
un
tratto:
non viene l’oro mitragliato ovunque?
***
TU, CIELO
A pelo d’acqua elettrizzato posi
dentro la rena arreso, fra l’umbrìa;
che arsa vibra e bruna ai sassi salsi,
fu alla tua vita un fulmine il confine.
***
COME NUBE
Oltre il porto, sul mare, nella spessa
atmosfera, compressa
l’aria s’addensa e fa un guanciale pieno:
l’allontanano i venti del Tirreno.
Mai come l’aria
annuvolarsi
l’io non saprà nell’elemento immenso?
Nell’ora
che vince
il lento assopimento
viene Eolo il dio che lo dimora.
Se più annullarti, nube,
o in trionfo farti,
non so, e pure m’avrai abbandonato.
E, nube, non temo altro.
Solo mi scuora il tuo dissolvimento:
aspetto chi ti muova e ti dissolva.
***
IL DILUVIO
C’è il diluvio sul paese del poeta,
c’è il diluvio:
Volato è altrove coi suoi lumi intorno
di cristallo il sole, ed ora
ombra fine di rosa piega
ai grattacieli la linea delle fronti;
e se i terrazzi diventano galassie,
la città avverte il fastidio oscuro
del vespaio inchiodato dal bambino.
L’acqua impregna colline, tufo, luci, transatlantici.
Rossa e buia è l’aria
con minuscoli cuori voltaici d’un maltempo
che s’incupola velato di papaveri e giornali.
C’è il diluvio nella casa del poeta:
l’intonaco s’oscura,
e se vi batto il pugno, è il duro d’uno specchio,
o il vuoto immenso d’una cattedrale.
È il diluvio nella stanza del poeta,
su crocefissi azzurri di futuro,
e il vaso di cardi, all’angolo,
stende le verdi righe d’un’acqua dove vivere.
Il mio ritratto è grigio
con una luce d’erba di circo di droga,
un’esplosione nucleare dal collo agli zigomi
mi dà un sorriso di pelle enorme e buffa.
Ma corona la mia testa questo diluvio profondo
muraglia alterna di cicale e torri,
e sotto il primo raggio, sulla polvere del foglio,
dalle mie vene nasce di vetro una colomba.
***
FINALE
Una trombetta dopo il temporale
fa una canzone antica
e ancora un poco annacqua:
il cielo cambia in blu, con un finale
di festa cui fan l’altre trombe ombroso
suono che chiede altra acqua.
Sopra le case mute,
grida luce e altra luce
con mossi capillari di radici;
nei pascoli del cielo blu di dune
e ombra tube e altre tube
intonano da terra i caldi cantici.
Dai miei balconi d’aria
contro il cielo grondante d’oro e gloria
mi affaccio
a un panorama di Consolazione.
Fabio Barissano nasce a Napoli, dove vive e lavora. Ha conseguito la laurea in Filologia moderna presso l’università Federico II e l’abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie nel 2015. Dal 2013 ha insegnato in diversi istituti scolastici e nel 2016 vince il concorso per l’insegnamento delle materie letterarie. Dal settembre 2017 è docente a tempo indeterminato presso la scuola media statale I.C. “Nicolini-Di Giacomo” in Napoli. Attualmente redige un blog sulla storia di Napoli: www.fabiobari.wordpress.com.
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