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  • Immagine del redattoreAlessia Bronico

Commento a "Dora Markus" di Eugenio Montale

Ridurre la poetica di Montale in poche righe è impossibile, come lo è in definitiva per il lavoro di qualsiasi altro poeta. Nobel nel 1975, autodidatta, scopre la poesia attraverso la musica, è un baritono innamorato del melodramma. Sarà critico musicale sulle pagine del Corriere d’informazione per diversi anni. La poesia di Montale è intimamente musicale, e magica lì dove non si riesce a svelare il ruolo di oggetti bizzarri che pure s’imprimono nella mente del lettore. È d’esempio il «topo d’avorio» di Dora Markus che è simile a un evento prodigioso, è occasione. Le Occasioni «sono dunque gli istanti fatali dell’esistenza, quando in un baleno è possibile intravedere una realtà diversa o una diversa disposizione della realtà, di afferrare un senso, un rapporto imprevisto o imprevedibile», scrive Giorgio Zampa.




Dora Markus


I


Fu dove il ponte di legno

mette a porto Corsini sul mare alto

e rari uomini, quasi immoti, affondano

o salpano le reti. Con un segno

della mano additavi all’altra sponda

invisibile la tua patria vera.

Poi seguimmo il canale fino alla darsena

della città, lucida di fuliggine,

nella bassura dove s’affondava

una primavera inerte, senza memoria.


E qui dove un’antica vita

si screzia in una dolce

ansietà d’Oriente,

le tue parole iridavano come le scaglie

della triglia moribonda.


La tua irrequietudine mi fa pensare

agli uccelli di passo che urtano ai fari

nelle sere tempestose:

è una tempesta anche la tua dolcezza,

turbina e non appare,

e i suoi riposi sono anche più rari.

Non so come stremata tu resisti

in questo lago

d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse

ti salva un amuleto che tu tieni

vicino alla matita delle labbra,

al piumino, alla lima: un topo bianco,

d’avorio; e così esisti!


II


Ormai nella tua Carinzia

di mirti fi oriti e di stagni,

china sul bordo sorvegli

la carpa che timida abbocca

o segui sui tigli, tra gl’irti

pinnacoli le accensioni

del vespro e nell’acque un avvampo

di tende da scali e pensioni.


La sera che si protende

sull’umida conca non porta

col palpito dei motori

che gemiti d’oche e un interno

di nivee maioliche dice

allo specchio annerito che ti vide

diversa una storia di errori

imperturbati e la incide

dove la spugna non giunge.


La tua leggenda, Dora!

Ma è scritta già in quegli sguardi

di uomini che hanno fedine

altere e deboli in grandi

ritratti d’oro e ritorna

ad ogni accordo che esprime

l’armonica guasta nell’ora

che abbuia, sempre più tardi.


È scritta là. Il sempreverde

alloro per la cucina

resiste, la voce non muta,

Ravenna è lontana, distilla

veleno una fede feroce.

Che vuole da te? Non si cede

voce, leggenda o destino...

Ma è tardi, sempre più tardi.


da Le Occasioni, Parte prima (Einaudi 1939)

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