Su "Memoria III", da "Terra del viso" di Milo De Angelis
Prelevo dalla mia memoria – senza bisogno di cercarla troppo: è rimasta centrale dopo tanti anni – Memoria III, terzo e culminante momento di un trittico (Memoria I, Memoria II, e Memoria III per l’appunto) apparso in Terra del viso (1985). Molti versi li ricordavo, ma mi sono fatto mandare il testo, perché la maggior parte della mia libreria è rimasta in Italia: poco male – l’assenza del libro fisico è un test severo per capire quali testi rimangano veramente. Sono molti, certamente, quelli di De Angelis che si sono incistati con violenza seduttiva nel me lettore e quindi anche nell’aspirante poeta, imponendosi nel loro massimalismo sostanziale anziché formale, nel loro continuo gioco al rialzo per cui ogni testo, al momento della lettura, sembra voler sopprimere il precedente – e l’intera tradizione letteraria – per intensità di visione ed esattezza di pronuncia, di modulazione tonale ora fiabesco-onirica (come Nei polmoni) ora aggressiva e anti-sociale («pagherai la mia descrizione», Parole per il figlio III), o che si eleva dalla narrazione al flusso analogico alla preghiera, come in Memoria III. A ogni modo si è soli contro la visione in quel momento, e persino quando virgolettata dal dialogo (come spesso in Somiglianze ma anche nel recentissimo Linea intera, linea spezzata) la voce risulta marziale più che dialogica. Non accompagna, ma impone; non costruisce, ma denuda o scolpisce (che è lo stesso), essendo la poesia di De Angelis «motivata da una ferma volontà di riportare l’io contemporaneo a un nucleo tragico d’origine attraverso una forma che, partendo da una percezione analogica della realtà, è concreta e dolente» (Borio 2018: 99).
Sono metafore belliche, perfino di violenza carnale, queste, di cui mi sono servito per suggerire il carattere viscerale e agonico della pratica poetica nel De Angelis pre-millennio – da Tema dell’addio in poi il discorso mi pare cambi, perché se è vero che le antiche ossessioni permangono all’insegna di una «lunga fedeltà» (sintagma che lo accomuna a Sereni, autore per altri aspetti invece assai distante), è anche vero che l’aver portato a compimento «quella linearità della narrazione iniziata almeno a partire dal 1999, anno in cui uscì Biografia sommaria» (Giulio Medaglini), ha spesso significato, a mio modo di vedere, l’emergere di un’emotività più uniforme, più retoricamente cercata che risultato di attrito testuale, più immediata (più facile?)[1]. Tale rinuncia di quelle «scomposizoni del primo futurismo» in cui Remo Pagnanelli[2] identificava una delle cifre portanti di Terra del viso e del De Angelis precedente, mi pare lasciare troppo quieta l’intelligenza (anche emotiva) del lettore, puntando troppo sulla visceralità dell’effetto immediato e forse più immediatamente replicabile: discorso lungo e insidioso, questo, sul quale tornerò brevemente negli ultimi paragrafi di questa analisi.
Occorre anche aggiungere, prima di immergersi nell’analisi di Memoria III, che è difficile non cadere nella tentazione di mutuare immagini e categorie interpretative vulgate da molti commentatori di De Angelis, e qualche volta da De Angelis stesso: già nel 1985 Pagnanelli, nella nota prima citata, prendeva le distanze dall’equivoco dell’orfismo nella poesia di De Angelis, orfismo che «è tale solo per chi vuole affrontarlo con gli strumenti di una ‘raison’ cartesiana, non tenendo conto che si tratta di un’altra ragione, legata alla mitologia, alla sostanza arcaica del pensiero poetico»[3]. Io stesso, nel primo paragrafo di questo intervento, non mi sono trattenuto dal definire «marziale» la voce e il movimento di questa poesia: aggettivo che non dispiacerebbe all’autore, che in un intenso testo del recentissimo Linea intera, linea spezzata (Libertà dal conosciuto) paragona la propria parola a «un colpo di karate». Ma è necessario provarci, rendersi autonomi anche su questo versante, facendo leva su strumenti stilistici il cui intrinseco razionalismo (per esempio, la possibilità di verifica indipendente delle proprie affermazioni) si situa agli opposti rispetto all’irrazionalismo (o, forse più precisamente, anti-illuminismo e anti-scientismo) della poesia ‘demonica’ di De Angelis e della parabola della rivista «Niebo» da lui diretta dal 1977 al 1980 (per cui rimando ancora a Borio, (2018: 121 e ssg.), e a Sinfonico (2017)). Nelle parole del critico Northrop Frye, che cito sempre e non mi sembra mai di citare abbastanza: «the poet speaking as critic produces, not criticism, but documents to be examined by critics» (1971 [1957]: 6). Ecco il testo:
Memoria III
Mi attende, nel legno, una fila di elmi
lenti uomini lungo la campagna
sono una fine che diventò solenne
seguendo un morso qualsiasi, aggiustando
le coperte e le calze, nell’intero e nel mezzo
della radio la figura appare,
senza nulla, occhi attaccati
al nervo, seno terrestre
la materia si strappava già... forse
quaranta gradi... il pendio nel bisturi
Milo, perché lo cerchiamo qui?
... perdeva sangue... anche lei...
una mascella rotta... non parlava...
i feriti si confondono, nella faida,
l’inchiostro sparisce, incendiato,
un pensiero bianco senza peso
agile schermitrice che vidi bianca
al Saini, un sabato pomeriggio,
mio padre, memore, ci accompagnava
dentro la neve, in salita
eravamo qui?... dicembre?...
ringraziando chi per sempre ragionò in noi
guardando il salto di Valery Brumel
due e ventotto, anche lui un russo
due luoghi del cervello, due visioni
di contrappasso, ogni cosa
puntuale nella sua puntuale data
molti, tra i più stanchi, si rinchiusero
nella tenda con un po’ di rum
era il sole, il più finto sole delle
vostre lettere da Milano, da Casale,
nascoste sotto il vestito da guastatore
... krassivi... krassivaia... un minuto...
una zona nuda... non parlava... un colpo ancora
alle nostre gole e infinite gocce
padre, cupo padre del cielo, non
posso vederti, ti cerco con l’atlante
e con questa radio, giro le manopole
con le mani e i denti, dò colpi
se oggi taci ancora, accettando
un solo colore per il regno degli amici,
ultima, angelicata fame.
A livello di logogenesi, o sviluppo semantico globale, il testo sembra imperniarsi sull’epifania ossimorica di un’apparizione monca o indeterminata («la figura appare») cui fa seguito una ricostruzione confusa dell’evento dove l’analogia sistematica rimescola il piano fisico con quelli psichico e storico-sociale. La solennità di quanto sta per accadere («una fine che non diventò solenne», v. 3 – dove l’avverbio di negazione non fa che mettere ulteriormente in risalto la solennità espulsa dal piano ideazional-rappresentativo[4]) è suggerita dal ritmo, sostenuto da un metro classico: endecasillabi i vv. 1, 2 e 4, appena una sillaba in più nel v. 3, che risulta dalla combinazione di quinario e settenario, e martelliano il v. 5, composto di due settenari. La cantabilità melodica è però evitata sia grazie agli accenti in posizioni dispari (quinta sillaba nel v. 1, posizione tipica da novenario più che endecasillabo; prima sillaba nei vv. 1 e 2, che imprimono un andamento trocaico: solenne, appunto) sia grazie alla sintassi paratattica e allo slittamento figurale, ottenuto mediante l’indebolimento dei nessi tra sintagmi, secondo la lezione modernista (si vedano almeno Testa (1999) e Adamson (1999) su questo fenomeno): i «lenti uomini» sono giustapposti alla «fila di elmi», con cui stanno in rapporto sineddochico (la parte avvistata prima del tutto), e questa figura collettiva, opaca, vista da lontano (soldati che marciano al fronte?) si scorpora a sua volta nell’astratto «fine», che diventa il nuovo soggetto – senza contare l’ambiguità di «sono»: terza plurale retta da «uomini», ma anche prima singolare retta dall’io, che appare in incipit con «mi attende».
Il distico che segue (vv. 4-5) vira verso l’impersonalità grazie all’uso del gerundio, forma indefinita che non specifica il soggetto e che quindi raffredda il tono, ritardando ulteriormente l’epifania dei vv. 6-8 che significativamente si restringono a imbuto: sono rispettivamente decasillabo, novenario e ottonario, optando per sinalefi che rispettano la prosodia narrativa. Questa rastremazione, che porta a un sottile accrescimento del focus attenzionale, coincide iconicamente con l’evento visivo (l’attrattore, per mutuare da Stockwell (2009) un termine della stilistica cognitiva) della «figura», enigmatica sia perché appare nella radio (rendendo letterale la metafora delle immagini acustiche) sia perché si presenta «nell’intero e nel mezzo»: sorta di ossimoro coordinativo, questo, che infrange il principio aristotelico di non-contraddizione, e che da un lato rimanda al titolo dell’ultimo libro (Linea intera, linea spezzata) e dall’altro implica una sorta di ipallage per cui gli attributi si scambiano di posto, riferendosi alla radio piuttosto che – come sarebbe naturale – alla figura (mediante le inquadrature fotografiche: figura intera, mezzobusto, eccetera). C’è insomma una permeabilità tra i referenti che ricorda da vicino il concetto di «osmosi figurale» proposto da Cardilli (2020) per lo Zanzotto di Dietro il paesaggio.
La figura, già indeterminata ed enigmatica, già fusa al mezzo che la trasmette (la radio), viene scorporata in meronimi disturbanti («occhi attaccati / al nervo, seno terrestre»: dove «seno terrestre» replica i semi della metafora TERRA = CORPO che informa altri luoghi testuali[5]) e poi ulteriormente ridotta a «materia», con allusioni a una violenza subita o accaduta («perdeva sangue», «una mascella rotta») e a un intervento chirurgico («bisturi»; e infatti in Memoria (I) si menziona una «operazione chirurgica»; ma già in Somiglianze, in T.S., c’è una «lettiga» e ci sono «infermieri», come osserva Borio nel già citato studio). L’elemento del sangue, costante in De Angelis (vengono in mente almeno i versi «ci sprofonda nel sangue senza musica», Cartina muta; e «di notte ti sanguina la bocca», Nel cuore della trasmissione; ma uno studio delle concordanze rivelerebbe, credo, molte altre occorrenze) ritorna anche nel trittico di Memoria («Siamo tutti stracciati, anche noi, coperti / con il sangue del ragazzo», Memoria (II)). Gli esiti della violenza non possono che essere mostrati ellitticamente, per balbettii (si veda l’uso dei punti di sospensione) che si avvicinano all’inarticolato.
È proprio la violenza, tuttavia, a smuovere l’immaginazione, dando origine a una serie appositiva di ulteriori metamorfosi, nel segno di una nuova generalizzazione («i feriti si confondono, nella faida», dove l’insistenza della fricativa /f/ può suggerire, come proposto da Hiraga nel suo studio sul fonosimbolismo (2005: 132), fatica e mancanza di respiro, appropriate nel contesto). Generalizzazione che richiama quella iniziale degli uomini lungo la campagna, a cui fa seguito un’astrazione che replica quella, iniziale, della «fine che diventò solenne»: dai «feriti» si passa, per semplice giustapposizione, al metapoetico «inchiostro»[6]; da questo, per opposizione cromatica, al «pensiero bianco senza peso» (e in Memoria (II) una voce chiede di lasciarla «scendere con questo peso»); da questo poi, per contiguità cromatica e leggerezza, si sfocia nella «agile schermitrice» – come si sa, le figure sportive sono centrali in De Angelis, probabilmente più che in ogni altro autore contemporaneo[7]. La schermitrice genera due associazioni ulteriori: quella della «neve» (derivazione del bianco) e quella di «Valery Brumel», campione del salto in alto (derivazione dell’agone sportivo), poi riassunte nella perifrasi «due luoghi del cervello, due visioni di contrappasso».
Nelle strofe che seguono ritorna l’ambientazione bellica («molti, tra i più stanchi, si rinchiusero / nella tenda con un po’ di rum», e «il vestito da guastatore»), e si riattiva il riferimento alla figura ferita («non parlava») che potrebbe poi coincidere con lo stesso Valery Brumel, richiamato dalle parole in russo («krassivi... krassivaia») e che fu davvero vittima d’incidente nel 1965: dal record mondiale di salto in alto alla caduta (una visione di contrappasso, dunque, per usare le stesse parole del testo). Il complesso montaggio intreccia quindi almeno il piano fisico presente (l’io alle prese con la radio, in un ambiente interno segnalato anche da «coperte» e da «calze»), il piano memoriale che fonde a sua volta scenario bellico e incidente individuale, e un piano neuro-psichico atemporale (il pensiero bianco, i luoghi del cervello). La catena analogica e l’intreccio di figure possono essere schematizzati come segue:
Questa caleidoscopica compresenza di piani, che prima si alternano per scene relativamente ampie e poi precipitano in giustapposizioni fulminee, da un lato è psichicamente tipica di stati alterati, dall’altro è debitrice degli esperimenti modernisti del flusso di coscienza, da Joyce a Faulkner. Occorre anche notare che il flusso analogico non si attiene mai a un solo meccanismo, ma varia, stando i referenti tra loro in rapporto ora sineddochico, ora di somiglianza, ora di opposizione, ora obbedendo ad associazioni meno facilmente formalizzabili. Insomma, siamo molto lontani dalla meccanicità di un generatore d’immagini, e il ritorno dei piani e la loro fusione è una controspinta centripeta molto forte agli slittamenti locali, e assicura la percezione del testo come totalità forte. Questo è il gioco dell’intelligenza che mi sembra essersi fatto più stanco nel De Angelis dell’ultimo ventennio. Si tratta di opzioni estetiche ed esistenziali che dànno alla prima poesia di De Angelis, e forse a Memoria III sopra tutte, molta della forza perturbante e della capacità immersiva che le riconosciamo. La fusione di piani (o di mondi, usando la terminologia della Text World Theory – Werth 1999, Gavins 2007) costringe alla vigilanza continua da un lato, e dall’abbandono al ritmo analogico dall’altro, e la sintassi uniperiodale agisce come una forza propulsiva, come una lunghissima corsa fino alla (non)catarsi finale. Qualità ed effetti, questi, che sembrano essersi diluiti nelle ultime prove, in cui la testualità si fa assai meno imprevedibile, con la transizione spesso meccanica dall’abbrivio narrativo alla visione. L’ultimo De Angelis non è meno intenso del primo a livello locale, ma sembra aver attenuato quella sfida strutturale che rendeva più conflittuale e dunque precaria questa intensità. Affermazione discutibile la mia, me ne rendo conto; mi riprometto di elaborarla e dimostrarla in altra sede. Per il momento posso solo rimandare a una mia breve analisi di un testo da Incontri e agguati (2015) che, mi pare, compendia alcune di queste perplessità[8].
Memoria III si chiude, al colmo del disfacimento psichico e della confusione o convergenza ontologica di piani, con un appello disperato all’ordine affidato alla figura del padre, che da biografico («mio padre, memore, ci accompagnava») diventa metafisico, sostituto di Dio («cupo padre del cielo»): gli strumenti di localizzazione («atlante», con i suoi portati cartesiani) e quelli di comunicazione («la radio», che ritorna nel testo ma che vorrebbe essere forzata in un medium spiritico, contro la sua natura strumentale di mass medium) non possono ovviamente smuovere la deità, che rimane «distante un padre» (per riprendere un altro titolo deangelisiano); a nulla vale il tentativo di fermarla «con chiodi, valvole» (Memoria (I)) o di intercettarla girando fantomatiche «manopole» nel tentativo di un’impossibile sintonizzazione. La memoria in cui ci immerge De Angelis è un grumo, una discesa nella psiche dove personale e storico si fondono (Memoria (I) accenna per esempio al suicidio di Luigi Tenco: «quel ragazzo / che si uccise al festival»): è passaggio e azione, ambiente, e insomma quanto di più lontano da quei fotogrammi rassicuranti («attacco foto», Memoria (I)) in cui vorremmo confinarla.
[1] Medaglini, G.: L’adrenalina dell’ultima corsa – Nota a Linea intera, linea spezzata. Su Intermezzo rivista. [2] Pagnanelli, R.: Una nota a Terra del viso, «Marka», 1985. Ora su Poesia 2.0. [3] Pagnanelli, R., ibid. [4] Tra i moltissimi studi sulla negazione nella psicolinguistica e nella pragmatica, si veda per es. Kaup, Lüdkte & Zwaan (2008). Sulla base di studi precedenti, gli autori affermano che la comprensione di una negazione implica l’attivazione della controparte affermativa. Pertanto «una fine che non diventò solenne» attiverebbe, per contrasto, la memoria o l’immaginazione di una fine solenne. Sulla negazione come strumento di messa in rilievo nella lingua poetica, si vedano Nahajec (2009) e McLoughlin (2013). [5] Semi già presenti nel titolo del libro, Terra del viso, e più sottilmente nell’«aratro / nell’intervallo più piccolo delle tempie» in Memoria (I), dove l’aratro richiama il campo, la terra, e l’intervallo probabilmente allude ai solchi: il campo aratro e il cervello rinchiuso fra le tempie hanno in effetti una conformazione simile. [6] Forse per la simile densità e colore tra questo e il sangue, e forse anche per la metafora concettuale CORPO = SCRITTURA attestata in vari autori, per es. il nesso corpo-scrittura in Biagio Cepollaro, di cui ho scritto qui. [7] Si rimanda a questo recente intervento di Fabrizio Bregoli sul gesto sportivo in poesia. [8] Castiglione. D. (2019) Analisi di Questa sera ruota la vena, di Milo De Angelis. Su Critica del testo poetico.
Riferimenti bibliografici
1. Adamson, S. (1999). The Literary Language. In S. Romaine (Ed.), The Cambridge History of the English Language, 4, 1776–The Present Day (pp. 589–692). Cambridge: Cambridge University Press.
2. Bregoli, F. (2021). Poesia a confronto: il gesto atletico. Su laboratoripoesia.it
3. Borio, M. (2018). Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000. Venezia: Marsilio.
4. Cardilli, L. (2020). Figura e ripetizione in Dietro il paesaggio di Andrea Zanzotto. Milano, Mimesis.
5. Castiglione, D. (2014). Introduzione a Biagio Cepollaro, Nel corpo della scrittura; poesie 1984-2013. Su f l o e m a (diaforia.org)
6. Castiglione. D. (2019). Analisi di Questa sera ruota la vena, di Milo De Angelis. Su Critica del testo poetico.
7. Frye, N. (1971 [1957]). Anatomy of Criticism. Four essays. Princeton University Press, Princenton, New Jersey.
8. Gavins, J. (2007). Text World Theory: an Introduction. Edinburgh: Edinburgh University Press.
9. Hiraga, M. (2005). Metaphor and Iconicity. A Cognitive Approach to Analysing texts. London: Palgrave.
10. Kaup, B., Lüdkte, J., Zwaan R. A. (2006). Processing negated sentences with contradictory predicates: is a door that is not open mentally closed? «Journal of Pragmatics», 38, 1033-1050.
11. McLoughlin, N. (2013). Negative polarity in Eavan Boland’s The Famine Road. «New Writing: The International Journal for the Practice and Theory of Creative Writing», 10:2, 219-227.
12. Medaglini, G. (2021). L’adrenalina dell’ultima corsa – Nota a Linea intera, linea spezzata. Su Intermezzo rivista.
13. Nahajec, L. (2009). Negation and the creation of implicit meaning in poetry. «Language and Literature» 18, 109-127.
14. Pagnanelli, R. (1985). Una nota a Terra del viso. «Marka», 1985. Ora su Poesia 2.0.
15. Sinfonico, D. (2017). Scuola deangelisiana: l’esempio della collana Niebo. «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», viii, pp. 73-85.
16. Stockwell, P. (2009). Texture. A cognitive aesthetics of reading. Edinburgh: Edinburgh University Press.
17. Testa, E. (1999). Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento. Roma: Bulzoni.
18. Werth, P. (1999). Text Worlds: Representing Conceptual Space in Discourse. London: Longman
Davide Castiglione (Alessandria, 1985) è docente di materie letterarie e linguistiche all’Università di Vilnius in Lituania. Si è laureato a Pavia con una tesi su Vittorio Sereni traduttore da William Carlos Williams, e dottorato a Nottingham (Inghilterra) con una tesi sulla difficoltà nella poesia angloamericana, poi divenuta libro (Difficulty in Poetry: a Stylistic Model, Palgrave 2019). Ha inoltre all’attivo cinque articoli scientifici e un centinaio fra note e recensioni sulla poesia contemporanea, queste ultime raccolte sul sito Critica del testo poetico. È inoltre autore di due raccolte poetiche: Per ogni frazione (Campanotto, 2010, segnalazione Premio Montano 2011), e Non di fortuna (Italic Pequod 2017). Una terza raccolta, dal titolo Doveri di una costruzione, dovrebbe vedere la luce entro la fine del 2021. Sue poesie sono state pubblicate su varie antologie e riviste, sia online che cartacee, tra cui «Poesia» (con una nota di Maria Grazia Calandrone), «L’Ulisse», «Il Segnale», «Inchiostro», «Nuovi Argomenti», «Formavera», «Atelier», «Poesia del nostro tempo». È risultato vincitore al premio «Renato Giorgi» nel 2018 (sezione Cantiere) e nel 2020 (sezione Raccolta inedita), e al premio «Irene Ugolini Zolli» per la prefazione al volume Concerto per l’inizio del secolo, di Roberto Minardi (Arcipelago Itaca 2020), nonché finalista al Premio «Lorenzo Montano» per l’inedito (2018 e 2020), e finalista al premio «Poesia di strada», sempre per l’inedito (2020). Ulteriori informazioni si possono trovare sul suo sito personale.
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